Giurisprudenza - CORTE DI CASSAZIONE - Sentenza 10 novembre 2017, n. 26678

Casellante addetto alla riscossione del pedaggio autostradale - Licenziamento - Reintegra nel posto di lavoro - Risarcimento del danno - Preteso illecito impossessamento della tessera viacard - Dimostrazione

 

Svolgimento del processo

 

La Corte di Appello di BRESCIA, mediante pronuncia n. 126 pubblicata il 16 aprile 2015, rigettava il gravame in via principale interposto dalla S.p.a. A.I. avverso la sentenza n. 349 in data 22 maggio 2014, con la quale il locale giudice del lavoro aveva dichiarato l'illegittimità del licenziamento intimato l'undici gennaio 2011 dalla società al suo dipendente P.V. (casellante addetto alla riscossione del pedaggio autostradale), attore in primo grado, in relazione all'impossessamento e all'indebito uso di una tessera prepagata a scalare (VIACARD) appartenente al cliente F.G., con conseguente reintegra nel posto di lavoro ex art. 18 L. n. 300/70 (nel testo ratione temporis applicabile), nonché con la condanna di parte resistente al risarcimento del danno, però limitato a cinque mensilità della retribuzione globale di fatto, oltre che al versamento dei relativi contributi previdenziali.

Con la stessa pronuncia, inoltre, la Corte distrettuale, in parziale riforma della gravata sentenza, accogliendo l'appello incidentale del lavoratore, condannava la società convenuta al risarcimento del danno, da licenziamento illegittimo, però liquidato in misura corrispondente ad un'indennità pari alla retribuzione globale di fatto dal giorno del recesso sino a quello dell'effettiva reintegra nel posto di lavoro, oltre che al versamento dei contributi previdenziali e assistenziali riferiti al suddetto arco temporale, ed al rimborso delle spese relative al secondo grado del giudizio, sussistendo altresì i presupposti di legge per il versamento dell'ulteriore contributo unificato.

Ad avviso della Corte di Appello, parte datoriale era onerata della prova relativa al preteso illecito impossessamento della tessera VIACARD. In particolare, tenuto conto dei fatti descritti nella contestazione disciplinare, la società era tenuta a dimostrare che il lavoratore - il quale nell'occorso aveva preso servizio il sei settembre 2010 alle ore 05.56 - si era impossessato della tessera, asseritamente ritirata dall'apparecchiatura automatica alle ore 02,02 dello stesso giorno, secondo quanto riferito dal cliente escusso come teste sul punto. Tuttavia, parte resistente nella memoria difensiva di costituzione in primo grado aveva allegato l'impossibilità dell'inceppamento della tessera all'interno della macchina, quanto piuttosto il suo smarrimento dal sig. F. al momento della sua utilizzazione presso il casello autostradale; ciò che però si poneva in radicale contrasto con le dichiarazioni rese dal titolare della tessera, comportando altresì un mutamento del fatto contestato. Infatti, secondo la nuova versione dell'accaduto da parte convenuta in sede contenziosa, l'impossessamento non era più avvenuto mediante sottrazione della tessera ritirata dall'apparecchiatura automatica, ma a seguito di ritrovamento della medesima, però smarrita dal titolare al momento dell'utilizzo presso il casello, perciò mai inserita nella macchina.

Si trattava, quindi, di nuove circostanze rispetto a quelle contestate, per di più alquanto rilevanti ai fini della valutazione disciplinare, poiché altro era l'impossessamento mediante illecita sottrazione dalla cassa automatica, altro era l'impossessamento di una cosa smarrita, condotta quest'ultima al più rilevante, ricorrendone i presupposti, ex art. 927 c.c. e 647 c.p.. Soltanto la condotta dell'illecito impossessamento integrava la violazione degli obblighi di diligenza e di fedeltà riguardo al rapporto di lavoro, mentre la seconda condotta (impossessamento di cosa smarrita) costituiva un comportamento solo in via ipotetica e indiretta eventualmente rilevante sotto il profilo disciplinare.

Pertanto, secondo la Corte territoriale, la condotta addebitata in giudizio ai dipendente era diversa da quella oggetto della contestazione, con violazione del principio d'immutabilità della contestazione disciplinare.

In ogni caso, pure se si fosse trattato di illecito prelievo della tessera, trattenuta dalla macchina, da parte del lavoratore, con successiva cessione al figlio, che l'aveva poi utilizzata, il licenziamento sarebbe risultato sproporzionato rispetto alla gravità dell'illecito, rispetto al quale, anche per la modestia del danno economico arrecato alla società (il titolare F. aveva chiesto ad A. il rimborso di euro 48,60 per la tessera VIACARD), sarebbe stata più che adeguata una sanzione conservativa, tenuto altresì conto delle previsioni di cui all'art. 36 del c.c.n.I. in ordine alla possibile sospensione dal servizio e dalla retribuzione sino a dieci giorni. Né potevano rilevare i precedenti disciplinari a carico del dipendente, poiché l'ultimo di questi, consistito in un rimprovero scritto, risaliva al 27 novembre 2001.

Risultava, per altro verso, illegittima la decisione impugnata con la limitazione del danno riconosciuto in ragione di cinque mensilità, non essendo stato specificamente allegato alcun aliunde perceptum, né apparendo in concreto possibile il reperimento di altro sbocco occupazionale.

Avverso l'anzidetta pronuncia ha proposto ricorso per cassazione la società A.I. come da atto di cui è stata chiesta la notificazione il 16 ottobre 2015, affidato a cinque motivi, cui ha resistito il P. con controricorso in data 23-11-2015.

Entrambe le parti, i cui difensori sono anche comparsi alla pubblica udienza del due marzo 2017, hanno depositato memorie ex art. 378 c.p.c..

 

Motivi della decisione

 

Il primo motivo di ricorso è stato formulato per violazione e falsa applicazione dell'art. 7 L. n. 300/70, atteso che, secondo la società, non sussisteva la diversità del fatto, tra contestazione disciplinare e allegazioni difensive in sede giudiziale da parte convenuta, tenuto conto di quanto in effetti ascritto all'incolpato come da acclusa missiva di contestazione disciplinare, ricevuta dall'interessato il tre dicembre 2010, circa l'impossessamento illecito della tessera in occasione del servizio prestato dal dipendente il sei settembre 2010 dalle ore 05,56 alle 13,45; quindi, non sussisteva la violazione del principio dell'immutabilità della contestazione.

Comunque, non vi era stata alcuna violazione dei diritti di difesa dell'incolpato, tutelati dalla necessità della previa contestazione ex art. 7 St. lav., risultando ad ogni modo accertato il fatto dell’illecito impossessamento in base agli elementi indicati nella missiva, con la quale erano stati mossi gli addebiti (v. gli indizi ivi enunciati "in coincidenza temporale con la sua prestazione resa ... si sia illecitamente impossessato della predetta tessera - abbia illecitamente autorizzato o permesso che altri illecitamente utilizzassero la predetta tessera nei giorni 23, 27 e 28 settembre 2010").

Con il secondo motivo A.I. ha lamentato violazione e falsa applicazione dell'art. 2119 c.c., circa la sproporzione in ogni caso ritenuta dalla Corte d'Appello, violazione dei normali obblighi di buona fede e correttezza nell'esecuzione del rapporto di lavoro lesione della fiducia e gravità, stante altresì, come da citata giurisprudenza, l'irrilevanza del danno patrimoniale, asseritamente di modesta entità, derivato dalla condotta posta in essere dal lavoratore.

Con il terzo motivo, è stata dedotta la violazione e falsa applicazione dell'art. 36 c.c.n.I., atteso l'erroneo presupposto costituito dal riferimento alle previsioni della contrattazione collettiva, che però non vincolano il giudice, tenuto invece ad applicare la norma di legge vigente in materia e di cui all'art. 2119 c.c., per cui nel caso di violazione di fondamentali obblighi del contratto non occorre nemmeno la pubblicazione delle norme sanzionatorie attraverso l'affissione del c.d. codice disciplinare. Si doveva, inoltre, considerare il valore esemplificativo delle elencazioni contenute nel contratto collettivo, sicché la valutazione di congruità proporzionale da parte del giudicante può anche prescindere dalle ipotesi contemplate dalla contrattazione collettiva.

Con il quarto motivo, la ricorrente ha denunciato la violazione e falsa applicazione dell'art. 3 L. n. 604/1966: la Corte di merito aveva omesso di valutare se in alternativa alla giusta causa ricorresse almeno il notevole inadempimento, tale da poter legittimare il licenziamento per giustificato motivo soggettivo, attesa la non scarsa importanza dell'inadempimento ex art. 1455 c.c..

Infine, con il quinto motivo la società si è doluta della pretesa violazione e falsa applicazione dell'art. 112 c.p.c., per non aver la Corte di Appello limitato la condanna ex art. 18 L. n. 300/70, tenendo conto di quanto percepito dal P. in seguito al licenziamento (c.d. aliunde perceptum). I giudici di secondo grado non avevano considerato quanto pur espressamente dedotto dalla società in punto di conseguenze economiche, con conseguente evidente violazione del citato art. 112 (pagine 15 e 16 del ricorso in appello con reiterate istanze istruttorie, pure ex art. 346 c.p.c., con la richiesta altresì subordinata di conversione in licenziamento per giustificato motivo soggettivo; richiesta d'interrogatorio formale finalizzato alla prova dell 'aliunde perceptum, nonché di esibizione e d'informazioni scritte alla p.a. su redditi da lavoro percepiti in seguito al recesso dal dipendente).

Le anzidette doglianze vanno disattese in forza delle seguenti considerazioni.

In particolare, appare inconferente la prima e preliminare censura di parte ricorrente, circa l'ipotizzata violazione dell'art. 7 L. n. 300/70, avendo i giudici di merito compiutamente e motivatamente accertato in punto di fatto la diversità tra la condotta ascritta al P. in sede disciplinare (illecito impossessamento della tessera VIACARD prelevata dall'apparecchiatura dove si assumeva rimasta inceppata, con conseguente sottrazione, <<in coincidenza>> con la prestazione lavorativa resa durante il turno di servizio, iniziato alle ore 05.56, mentre il rapporto di mancato pagamento del pedaggio a carico del veicolo appartenente a F.G. risalva alla precedenti ore 02.02 dello stesso sei settembre, mentre il successivo giorno 13 il F. aveva poi chiesto il rimborso della tessera, dichiarando che la medesima non gli era stata restituita dall'apparecchiatura di incasso automatizzato) e quanto invece sostenuto in sede giudiziale (impossessamento di cosa andata smarrita dal suo immediato detentore, con conseguente indebito utilizzo in danno di quest'ultimo, soggetto peraltro distinto, ancorché equiparabile ex art. 931 c.c., dalla società emittente, datrice di lavoro del dipendente, preteso ritrovatore). Ne deriva che, anche per effetto della c.d. doppia conforme decisione sul punto, per cui nella fattispecie qui in esame non è nemmeno ammessa in questa sede di legittimità la censura di un vizio di omesso esame sul punto ex art. 360 co. I n. 5 c.p.c., a norma dell'art. 348-ter, ultimo comma, dello stesso codice (secondo l'attuale vigente formulazione di tali norme di rito, nella specie ratione temporis applicabili, in base al regime transitorio dettato dall'art. 54, rispettivamente commi 3 e 2, d.l. 22 giugno 2012, n. 83, conv. in I. 7 agosto 2012, n. 134). Di conseguenza, non risultava provato, da parte dell'onerata parte datoriale, quanto dalla stessa imputato al dipendente in sede disciplinare. Infatti, costui aveva negato di essersi impossessato della tessera, sostenendo di aver appreso, in seguito alla ricevuta contestazione, che la stessa era stata casualmente rinvenuta in un parcheggio dal figlio R. (il quale, sentito come teste aveva confermato la circostanza, aggiungendo di averla poi utilizzata insieme alla madre e al fratello D., questi peraltro anch'egli dipendente di A.I., ed a carico della cui autovettura la VIACARD risultava finalmente ritirata il 24-09-2010 presso il casello di Brescia ovest, mentre il F., sentito anch'egli come teste, aveva però confermato la versione del ritiro da parte dell'apparecchiatura allocata presso il casello di PONTE Oglio, nella notte tra il 5 ed il sei settembre, ritiro questo invece smentito da successivo indicato pacifico ritiro del 24 settembre, a Brescia ovest).

D'altro canto, a parte il dato formale, eppure essenziale, della diversità tra fatto contestato e quello allegato in giudizio dalla società convenuta, datrice di lavoro (cfr. pag. 6 della sentenza de qua e lo specifico riferimento ivi contenuto pure alla pagina sette della memoria di costituzione di primo grado), premesso che l'illecito impossessamento a suo tempo ascritto non risulta evidentemente provato, visto che quanto dichiarato dal F., circa l'asserita mancata restituzione della carta alla momento del pagamento, è stato anche contraddetto dalla pacifica successiva circostanza dell'avvenuto ritiro della stessa carta in data 24 settembre 2010 a Brescia ovest, nemmeno sembra appare dimostrato, l'altra versione, prospettata in sede contenziosa dalla società ricorrente.

Infatti, a ben vedere lo smarrimento della VIACARD presso il casello di PONTE OGLIO il sei settembre ed il rinvenimento, ivi, in pari data da parte di P.V., con conseguente indebito impossessamento da parte di costui e successivo utilizzo, si fonda esclusivamente su mere ipotesi ed asserzioni di parte della società ricorrente, prive di ogni possibile oggettivo riscontro: il teste F. ha fornito, invero, una versione dell'accaduto smentita dal successivo ritiro della carta in data 24 settembre, ascrivibile invece a diverso soggetto (P.D.); il ritrovamento della carta in altro luogo, prima del suo ritiro il 24 settembre, è avvenuto da parte di P. R., con conseguente impossessamento da parte di quest'ultimo, come riferito dallo stesso teste, senza che risulti alcun coinvolgimento, morale e/o materiale, in tale circostanza del lavoratore P.V., invece licenziato, non potendo evidentemente valere sotto il profilo probatorio in proposito i soli legami di parentela (padre / figli) o coniugali (marito / moglie). Ne deriva che anche l'ipotesi subordinata, adombrata dalla Corte di Appello, per dichiarare comunque ("In ogni caso ...") illegittimo l'intimato recesso, per difetto del requisito di proporzionalità, di cui poi ai vizi denunciati con il 2°, il 3° ed il 4° motivo, con riferimento all'impossessamento di cosa apparentemente smarrita, ma non sottratta dal dipendente dalla cassa automatica (dove si assumeva rimasta inceppata ed in ogni caso non restituita all'utente che legittimamente la deteneva), appare priva anch'essa dell'indispensabile presupposto probatorio di una consimile condotta, sotto il profilo oggettivo e soggettivo unitamente all'imprescindibile nesso causale.

Dunque, il primo motivo di ricorso svolta ad ogni modo infondato (cfr. altresì Cass. lav. n. 6499 del 22/03/2011, secondo cui in tema di licenziamento disciplinare, il fatto contestato ben può essere ricondotto ad una diversa ipotesi disciplinare - dato che, in tal caso, non si verifica una modifica della contestazione, ma solo un diverso apprezzamento dello stesso fatto - ma l'immutabilità della contestazione preclude al datore di lavoro di far poi valere, a sostegno della legittimità del licenziamento stesso, circostanze nuove rispetto a quelle contestate, tali da implicare una diversa valutazione dell'infrazione anche diversamente tipizzata dal codice disciplinare apprestato dalla contrattazione collettiva, dovendosi garantire l'effettivo diritto di difesa che la normativa sul procedimento disciplinare di cui all'art. 7 della legge n. 300 del 1970 assicura al lavoratore incolpato.

Conformi: id. n. 17604 del 10/08/2007 e n. 11265 del 2000. Cfr. altresì Cass. lav. n. 22752 del 3/12/2004, secondo cui, con riferimento al principio della immutabilità della contestazione, il passaggio in sede giudiziaria da una contestazione per essere stato il dipendente "autore di un fatto" a quella di "omesso controllo ovvero insufficiente indagine per accertare chi fosse stato l'autore del fatto" costituisce ampliamento della contestazione stessa non consentito, perché argomentare il contrario significherebbe ammettere la legittimità di contestazioni "in progress" o di contestazioni "allusive", rimettendo al giudice un compito che, lungi dal costituire esercizio istituzionale dei poteri di interpretazione della volontà negoziale, si tradurrebbe in una inammissibile integrazione, o correzione, della medesima).

Pertanto, dovendosi ritenere nella specie acclarata la violazione dell'indefettibile principio d'immutabilità della contestazione disciplinare, e comunque non provata la condotta a suo tempo addebitata all'incolpato, né invero quella diversamente ipotizzata a carico del medesimo in sede contenziosa, va disatteso il primo motivo e con esso per l'effetto respinte alchè le conseguenti censure di cui ai motivi dal secondo al quarto, comunque assorbiti per la mancanza degli anzidetti preliminari indispensabili requisiti.

Infine, deve considerarsi inammissibile il quinto ed ultimo motivo, laddove irritualmente è stata dedotta la violazione e falsa applicazione dell'art. 112 c.p.c., però evidentemente ex art. 360 co. I n. 3 c.p.c., per "erroneità" dell'impugnata sentenza, relativamente al mancato riconoscimento dell'aliunde perceptum, ma non meglio specificato unitamente alle corrispondenti richieste istruttorie. Per contro, trattandosi di error in procedendo, la censura andava correttamente denunciata ex cit. art. 360 n. 4, deducendo quindi chiaramente ed univocamente l'asserita nullità sul punto della pronuncia (v. Cass. sez. un. civ. n. 17931 del 24/07/2013: il ricorso per cassazione, avendo ad oggetto censure espressamente e tassativamente previste dall'art. 360, primo comma, cod. proc. civ., deve essere articolato in specifici motivi riconducibili in maniera immediata ed inequivocabile ad una delle cinque ragioni di impugnazione stabilite dalla citata disposizione, pur senza la necessaria adozioni di formule sacramentali o l'esatta indicazione numerica di una delle predette ipotesi. Pertanto, nel caso in cui il ricorrente lamenti l'omessa pronuncia, da parte dell'impugnata sentenza, in ordine ad una delle domande o eccezioni proposte, non è indispensabile che faccia esplicita menzione della ravvisabilità della fattispecie di cui al n. 4 del primo comma dell'art. 360 cod. proc. civ., con riguardo all'art. 112 cod. proc. civ., purché il motivo rechi univoco riferimento alla nullità della decisione derivante dalla relativa omissione, dovendosi, invece, dichiarare inammissibile il gravame allorché sostenga che la motivazione sia mancante o insufficiente o si limiti ad argomentare sulla violazione di legge. In senso conforme v. pure Cass. n. 14026 del 2012, n. 1370 del 2013, nonché Cass. I civ. n. 24553 del 31/10/2013.

Cfr. inoltre Cass. lav. n. 6715 del 18/03/2013, secondo cui il vizio di omessa pronuncia che determina la nullità della sentenza per violazione dell'art. 112 cod. proc. civ., rilevante ai fini di cui all'art. 360, n. 4 dello stesso codice, si configura esclusivamente con riferimento a domande, eccezioni o assunti che richiedano una statuizione di accoglimento o di rigetto, e non anche in relazione ad istanze istruttorie per le quali l'omissione è denunciabile soltanto sotto il profilo del vizio di motivazione. In senso conforme, tra le altre, v. anche Cass. sez. un. civ. n. 15982 del 18/12/2001, nonché più recentemente Cass. VI civ., ordinanza n. 13716 del 5/7/2016.

Per altro verso, v. pure Cass. lav. n. 2499 del 31/01/2017, secondo cui in tema di licenziamento illegittimo, il datore di lavoro che invochi l’aliunde perceptum" da detrarre dal risarcimento dovuto al lavoratore deve allegare circostanze di fatto specifiche e, ai fini dell'assolvimento del relativo onere della prova su di lui incombente, è tenuto a fornire indicazioni puntuali, rivelandosi inammissibili richieste probatorie generiche o con finalità meramente esplorative.

Cass. lav. n. 9616 del 12/05/2015: in tema di licenziamento illegittimo, il datore di lavoro che contesti la richiesta risarcitoria pervenutagli dal lavoratore è onerato, pur con l'ausilio di presunzioni semplici, della prova dell' "aliunde perceptum" o dell' "aliunde percipiendum", a nulla rilevando la difficoltà di tale tipo di prova o la mancata collaborazione del dipendente estromesso dall'azienda, dovendosi escludere che il lavoratore abbia l'onere di farsi carico di provare una circostanza, quale la nuova assunzione a seguito del licenziamento, riduttiva del danno patito. Conforme Cass. n. 23226 del 2010).

Con il rigetto del ricorso parte soccombente va condannata al pagamento delle relative spese, essendo inoltre tenuta al versamento dell'ulteriore contributo unificato, ricorrendone i presupposti di legge.

 

P.Q.M.

 

Rigetta il ricorso. Condanna la società ricorrente al pagamento delle spese, che liquida a favore di parte controricorrente in euro 200,00 per esborsi ed in euro 4000,00 (quattromila/00) per compensi professionali, oltre spese generali al 15%, i.v.a. e c.p.a. come per legge.

Ai sensi dell'art. 13 co. 1 quater del d.P.R. 115 del 2002 dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma del comma 1 bis dello stesso articolo 13.