Giurisprudenza - CORTE DI CASSAZIONE - Sentenza 21 novembre 2016, n. 23656

Licenziamento - Giusta causa - Pratiche per trasferimento - Esigenze organizzative - Rifiuto di eseguire una disposizione aziendale preliminare al trasferimento

Svolgimento del processo

1. Con sentenza depositata il 14 novembre 2013 la Corte d'appello di Roma confermò la decisione del giudice di primo grado che aveva rigettato la domanda proposta da R.B. nei confronti di F. s.p.a., diretta ad ottenere l'accertamento della illegittimità del licenziamento per giusta causa intimato al predetto il 27 ottobre 2010. Il licenziamento era sopraggiunto all'esito di procedimento disciplinare con il quale era stato addebitato al R. di non aver ottemperato alla richiesta del 6 luglio 2010, reiterata il 19 luglio 2010, di produrre i documenti necessari alla predisposizione delle pratiche per il suo trasferimento. Nella lettera del 6 luglio 2010 la F. s.p.a. aveva informato il ricorrente di aver verificato la possibilità di un suo impiego nell'ambito dell'organizzazione aziendale in forza del criterio della sede maggiormente vicina alla residenza, che era risultata la Centrale Operativa di Lucca stabilimento di Levanello (Arezzo), presso il cliente Prada. Aveva invitato il lavoratore, pertanto, a far pervenire entro il 16 luglio i documenti elencati, necessari all'ottenimento del decreto prefettizio indispensabile per lo svolgimento dell'attività di guardia giurata.

2. La Corte territoriale, premessa la legittimità del trasferimento in quanto motivato da esigenze organizzative ed integrante una misura gestionale conservativa alternativa alla mobilità (risultando che la F. s.p.a. aveva fatto ripetuto ricorso negli ultimi anni alla CIGS per eccedenza di personale ed attivato la procedura di mobilità il 15 dicembre 2009 per 65 unità per "la necessità di ridimensionamento della struttura operativa"), rilevò che il comportamento del R. non poteva trovare giustificazione nell'art. 1460 c.c., né nella necessità di reagire a un esercizio abusivo del potere datoriale. Osservò, inoltre, che il rifiuto di eseguire una disposizione aziendale preliminare al trasferimento al fine di impedire l'adozione del relativo provvedimento, senza formulare alcuna formale contestazione riguardo al trasferimento medesimo, integrava comportamento contrario ai principi di correttezza e buona fede e configurava atto di insubordinazione. Quanto al difetto di proporzionalità, pure dedotto, rilevò che la condotta intenzionale e protratta di rifiuto ad adempiere una legittima richiesta del datore di lavoro tenuta dal lavoratore, indirizzata a impedire l'attuazione di un provvedimento datoriale, era riconducibile alla insubordinazione ed idonea a integrare la giusta causa di recesso.

Osservò che quest'ultima era tanto più rilevante ove si considerino le mansioni di guardia giurata svolte dal lavoratore, le quali postulano la corretta osservanza di tutte le istruzioni date dall'imprenditore.

3. Avverso la sentenza propone ricorso per cassazione il lavoratore sulla base di due motivi. Resiste con controricorso la società. Entrambe le parti hanno depositato memorie.

 

Motivi della decisione

 

1. Con il primo motivo il ricorrente deduce art. 360 n. 3 e 5 c.p.c., violazione e falsa applicazione dell'art. 2697 c.c., art. 416 e 116 c.p.c. - omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti.

Osserva che la Corte avrebbe omesso di rilevare la carenza di allegazione e di prova da parte di F. s.p.a. in merito alla circostanza che il decreto prefettizio fosse condizione necessaria ai fini del trasferimento e che la documentazione richiesta fosse realmente indispensabile perché potesse perfezionarsi la relativa procedura.

1.2. La censura è infondata. Va rilevato in primo luogo che il ricorrente non ha allegato il ricorso introduttivo, sì da poter evincere che le questioni suindicate, dedotte in sede di legittimità, fossero parte del thema decidendum. In ogni caso va evidenziato che le stesse questioni sono irrilevanti in relazione alla formulazione dell'addebito, che è quello di aver reiteratamente e volontariamente ignorato una disposizione aziendale, specificamente consistente nella produzione della documentazione richiesta dal datore di lavoro, a prescindere dalla rilevanza della documentazione stessa ai fini della pratica di trasferimento.

2. Con il secondo motivo il ricorrente denuncia art. 360 violazione degli artt. 2104, 2118 e 2119 c.c. erronea interpretazione dell'art. 140 CCNL istituti di vigilanza privata, difetto di proporzionalità della sanzione del licenziamento rispetto all'inadempimento contestato - omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti. Rileva che, nonostante le deduzioni avessero assunto valore di prova in virtù della mancata contestazione avversaria, il giudice aveva omesso di esaminare la circostanza che il ricorrente per i venti anni di servizio non aveva subito alcun richiamo disciplinare e che la resistente non aveva dato corso al trasferimento degli altri addetti impiegati nella provincia di Roma, i quali avevano continuato a godere del trattamento di CIGS, talché il mancato trasferimento del ricorrente non aveva comportato pregiudizio all'organizzazione aziendale.

2.2. Anche la seconda censura è priva di fondamento. Va rilevato, infatti, che a norma dell'art. 116 cod. proc. civ. rientra nel potere discrezionale del giudice del merito individuare le fonti del proprio convincimento, valutare all'uopo le prove, controllarne Ia attendibilità e la concludenza e scegliere, fra le varie risultanze istruttorie, quelle ritenute idonee e rilevanti. Di conseguenza nessun vizio è ravvisabile laddove il giudice non motivi dettagliatamente su alcune risultanze istruttorie, quando la loro irrilevanza si desuma per implicito dagli argomenti addotti a sostegno della decisione. Tanto è avvenuto in concreto nel caso in esame, posto che nella sentenza impugnata si dà rilievo primario e assorbente alla contrarietà ai principi di correttezza e buona fede del comportamento tenuto dal ricorrente, il quale, si evidenzia, piuttosto che impugnare il provvedimento di trasferimento nei modi legittimi, assumendosene la responsabilità, è rimasto intenzionalmente inadempiente ad una disposizione aziendale solo preliminare al programmato e preannunciato trasferimento, al fine di impedire l'adozione del relativo provvedimento. La gravità della condotta evidenziata fa ritenere irrilevanti gli elementi istruttori di cui si afferma sia stata omessa la considerazione, anche con riferimento al profilo attinente alla proporzionalità della sanzione.

In ordine, poi, a tale ultimo profilo, va richiamato il principio enunciato dalla giurisprudenza di questa Corte in forza del quale "In tema di licenziamento per giusta causa o per giustificato motivo soggettivo, il giudizio di proporzionalità o adeguatezza della sanzione all'illecito commesso - rimesso al giudice di merito - si sostanzia nella valutazione della gravità dell'inadempimento imputato al lavoratore in relazione al concreto rapporto, e l'inadempimento deve essere valutato in senso accentuativo rispetto alla regola generale della "non scarsa importanza" di cui all'art. 1455 cod. civ., sicché l'irrogazione della massima sanzione disciplinare risulta giustificata solamente in presenza di un notevole inadempimento degli obblighi contrattuali ovvero addirittura tale da non consentire la prosecuzione neppure provvisoria del rapporto" (in tal senso Cass. Sez. L. Sentenza n. 6848 del 22/03/2010, Rv. 612262, conforme Cass. n. 25743 del 2007, Rv. 601361). In tale prospettiva si evidenzia che le critiche svolte con i motivi di ricorso concernono non già la verifica in ordine ai criteri ermeneutici di applicazione della clausola generale di cui all'art. 1455 c.c., ma, piuttosto, l’accertamento della concreta ricorrenza, nel fatto dedotto in giudizio, degli elementi ritenuti dai giudici del merito idonei a integrare il giustificato motivo di licenziamento. La critica svolta dal ricorrente, pertanto, appare rivolta verso la valutazione, effettuata dai giudici del merito sulla base delle risultanze istruttorie, della situazione di fatto. Di conseguenza, al di là della formulazione delle censure quali violazioni di legge, le stesse finiscono con l'investire la ponderazione delle circostanze fattuali sulla cui base è stato formulato il giudizio di sussunzione, proponendo a questa Corte questioni di merito non esaminabili in sede di legittimità (Cass. Sez. 5, Sentenza n. 25332 del 28/11/2014, Rv. 633335: "la Corte di cassazione non è mai giudice del fatto in senso sostanziale ed esercita un controllo sulla legalità e logicità della decisione che non consente di riesaminare e di valutare autonomamente il merito della causa. Ne consegue che la parte non può limitarsi a censurare la complessiva valutazione delle risultanze processuali contenuta nella sentenza impugnata, contrapponendovi la propria diversa interpretazione, al fine di ottenere la revisione degli accertamenti di fatto compiuti"; specificamente, in tema di apprezzamento riservato al giudice del merito degli elementi idonei ad esprimere la volontà del lavoratore di contestazione dei poteri datoriali, Cass. Sez. L, Sentenza n. 16384 del 20/08/2004, Rv. 576543: "In tema di licenziamento per insubordinazione del lavoratore consistita nel rifiuto di ottemperare all'ordine legittimo di svolgere un diverso compito, il riconoscimento in concreto della sussistenza degli elementi idonei ad esprimere la volontà del lavoratore di contestazione dei poteri datoriali - che può essere aperta, senza che per questo debba consistere anche in una formale dichiarazione in tale senso - è riservata i all'apprezzamento del giudice del merito ed è insindacabile in sede di legittimità. (Nella specie, la S.C. ha confermato la decisione di merito che aveva ravvisato l'insubordinazione nel rifiuto del lavoratore di ottemperare all'ordine legittimo di svolgere un diverso compito nel reparto imballaggio, anche quando l'ordine gli era stato reiterato, prima dal diretto superiore e poi da altro dipendente ancora più in alto nella gerarchia aziendale, mettendo in discussione proprio l'autorità dei due superiori)".

3. In base alle svolte argomentazioni il ricorso va rigettato. Le spese del giudizio di legittimità seguono la soccombenza e sono liquidate come in dispositivo.

 

P.Q.M.

 

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento in favore della società delle spese del giudizio di legittimità, liquidate in complessivi € 3.500,00, di cui € 3.400,00 per compensi professionali, oltre spese generali nella misura del 15%, oltre accessori di legge.

Ai sensi dell'art. 13 comma 1 quater del D.P.R. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1 bis dello stesso articolo 13.