Giurisprudenza - CORTE DI CASSAZIONE - Sentenza 14 maggio 2018, n. 11642

Licenziamento disciplinare - Demansionamento - Rifiuto reiterato ad eseguire disposizioni aziendali - Lesione del vincolo fiduciario

 

Fatti di causa

 

1. Con sentenza del 23.4.2015-3.6.2015 (nr. 3597 del 2015), la Corte di Appello di Roma rigettava il gravame proposto da E.M. avverso la sentenza del Tribunale di Roma del 24.9.2013 (nr. 10332 del 2013) che, pronunciando in merito alla domanda di impugnativa del licenziamento disciplinare intimato da G.S. S.p.A., la rigettava.

2. Per quel che rileva in questa sede, la Corte distrettuale osservava, in via preliminare, che la vicenda processuale si caratterizzava per aver l'appellante presentato due distinti ricorsi in primo grado: un primo ricorso, volto ad accertare la sussistenza di una "condotta persecutoria", con domande risarcitone anche relative ad un dedotto demansionamento, ed un secondo giudizio, diretto ad impugnare il licenziamento disciplinare.

3. Entrambe le cause erano assegnate al medesimo magistrato che, senza procedere alla riunione, le definitiva, nella medesima udienza, con distinte sentenze di rigetto integrale delle domande.

4. L'appello non riguardava la pronuncia relativa al primo giudizio (conclusosi con sentenza nr. 10192 del 2013) ma solo il recesso e, dunque, la valutazione della sussistenza della giusta causa di risoluzione del rapporto di lavoro, alla luce dei comportamenti di cui alla lettera di contestazione del 22.4.2009.

5. La Corte territoriale giudicava le condotte contestate - e consistite in reiterati rifiuti e ingiustificate contrapposizioni alle richieste formulate dal superiore gerarchico (responsabile di Area del distretto in cui era collocato il punto vendita al quale il lavoratore era addetto) - di particolare gravità, anche in ragione del ruolo ricoperto dal lavoratore (inquadrato come quadro) ed avuto riguardo alla sussistenza di precedenti provvedimenti disciplinari.

6. Il lavoratore aveva fornito giustificazioni del tutto inconsistenti e sostanzialmente di riconoscimento delle circostanze in fatto addebitategli né, secondo i giudici di merito, le condotte potevano essere giustificate dalle affermate, gravi e reiterate vessazioni ovvero da pregressi inadempimenti della datrice di lavoro, trattandosi di circostanze già oggetto del diverso giudizio, ritenute insussistenti e non utilizzabili come scriminanti di una condotta integrante "obiettivamente" un rifiuto di " effettuare il passaggio di consegne" ovvero tale da "renderlo estremamente farraginoso o complesso a fronte di una situazione di difficoltà del datore di lavoro che, in ragione della sua assenza (id est dell'ELIA) aveva affidato la direzione del punto vendita a soggetto non legittimato a rivestire tale posizione".

7. Per la cassazione della sentenza ha proposto ricorso M.E. affidato a cinque motivi.

8. Ha resistito con controricorso la società GS spa

9. Parte ricorrente ha depositato memoria ex art. 378 cod.proc.civ.

 

Ragioni della decisione

 

10. Con il primo motivo, parte ricorrente censura la sentenza - ai sensi dell'art. 360, comma 1, nr. 3, 4 e 5 cod. proc. civ. - per violazione dell'art. 112 cod. proc. civ.

La critica investe la decisione per aver omesso di pronunciare in merito alle domande di risarcimento del danno (biologico, morale, esistenziale, alla vita di relazione, professionale, d'immagine, ecc.) conseguenti alla dedotta condotta persecutoria e vessatoria della parte datoriale ed all'illegittimo utilizzo dello ius variarteli.

Si censura, inoltre, l'omesso esame di istanze istruttorie e, in particolare, dell'istanza ai sensi dell'art. 210 cod. proc. civ., volta ad ottenere dalla controparte l'esibizione del verbale di "passaggio di consegne" (pag. 24 del ricorso) che sarebbe stata decisiva per dimostrare l'inesistenza della condotta (rifiuto ad effettuare il passaggio di consegne) posta a base del provvedimento di recesso.

11. Con il secondo motivo, si censura - ai sensi dell'art. 360 nr. 3 cod. proc. civ. - la violazione e falsa applicazione degli artt. 116 e 341 e ss. cod. proc. civ.

Parte ricorrente assume che la Corte di Appello non avrebbe valutato tutte le questioni alla stessa devolute con l'atto di gravame; in particolare, la Corte distrettuale "commetteva un duplice errore" (cfr. pag. 32 ricorso); in primo luogo, non entrava nel merito del demansionamento ed, in secondo luogo, ometteva la necessaria indagine imposta dai motivi di impugnazione; in particolare, ometteva di esaminare: 1) che il passaggio di consegne era durato "scarse tre ore"; 2) che gli adempimenti in termini di gestione ed amministrazione del supermercato erano stati devoluti ad altri colleghi, in assenza del lavoratore, poi licenziato; 3) che le giustificazioni rese erano state puntuali; 4) che i testimoni erano stati incongruenti, riferendo de relato; 5) che vi era stata l'autorizzazione del datore di lavoro a smaltire ferie e permessi in ragione della riconosciuta malattia.

12. I due motivi vanno esaminati congiuntamente, presentando profili di connessione, e vanno dichiarati inammissibili per le ragioni che seguono.

12.1. Osserva la Corte che le censure sviluppate in entrambi i motivi e relative a domande diverse dall'impugnativa del licenziamento (omessa pronuncia in relazione alle richieste risarcitorie, quanto al primo motivo, e omesso esame del demansionamento, quanto al secondo motivo) non si confrontano in alcun modo con il decisum della Corte di Appello.

La sentenza impugnata chiarisce, in premessa, che il gravame ha riguardato solo la pronuncia emessa in relazione alla domanda di impugnativa del licenziamento disciplinare e non anche la sentenza che aveva deciso le domande risarcitorie, relative alla asserita condotta vessatoria, anche di demansionamento ( testualmente, si legge, nella pronuncia impugnata: "Depurato il giudizio di appello (...) da tutte le vicende precedenti al licenziamento ed oggetto dell'altro contenzioso, deciso con (...) sentenza nr. 10192/2013 (...) oggetto della controversia resta solo e soltanto la valutazione della sussistenza della giusta causa (...)".

Tali affermazioni dovevano dunque indurre il ricorrente a modulare diversamente le censure in modo, eventualmente, da incrinare il fondamento giustificativo delle argomentazioni svolte dai giudici di merito; viceversa, come sviluppate, restano prive di qualsiasi riferibilità alla decisione impugnata e sono pertanto inammissibili.

La giurisprudenza di questa Corte è consolidata nell'affermare che "la proposizione di censure prive di specifica attinenza al decisum della sentenza impugnata comporta l'inammissibilità del ricorso per mancanza di motivi che possono rientrare nel paradigma normativo di cui all'art. 366 c.p.c., comma 1, n. 4" (ex plurimis, Cass. nr. 20652 del 2009; nr. 17125 del 2007; in motivazione, Cass. nr. 9384 del 2017).

12.2. Quanto, invece, agli ulteriori profili di censura (omesso esame dell'istanza ex art. 210 cod. proc. civ. - primo motivo - ed omesso esame di doglianze riguardanti il licenziamento - secondo motivo) gli stessi configurano vizi di motivazione, censurando la ricostruzione dei fatti operata dai giudici del merito.

Come tali, risultano preclusi ai sensi dell'art. 348 ter cod. proc. civ., a tenore del quale il vizio di motivazione non è deducibile in caso di impugnativa di pronuncia c.d. "doppia conforme", come nella fattispecie di causa. La disposizione è applicabile ratione temporis ai giudizi di appello introdotti con ricorso depositato dall'11 settembre 2012 (articolo 54 co. 2 D.L. 83/2012); nel presente giudizio, l'impugnazione risulta iscritta nel 2014.

In ogni caso, i motivi non indicano, nei termini rigorosi richiesti dal vigente testo del predetto art. 360 nr.5 cod. proc. civ. (applicabile alla fattispecie) il "fatto storico", non esaminato, che abbia costituito oggetto di discussione e che abbia carattere decisivo (Cass. s.u. 7 aprile 2014, n. 8053).

Deve, peraltro, osservarsi come vada senz'altro esclusa la "decisività" in una pluralità di fatti denunciati come omessi (come nella specie, in relazione al secondo motivo) nessuno dei quali ex se risolutivo, nel senso dell'idoneità a determinare il segno della decisione (Cass. nr. 21439 del 2015).

13. Con il terzo motivo, si censura la decisione - ai sensi dell'art. 360 nr. 3 e 5 cod. proc. civ. - per "erronea deduzione di un giudicato esterno" e per omessa e contraddittoria motivazione.

Si critica la statuizione per aver erroneamente considerato come passati in cosa giudicata i fatti relativi al demansionamento ed oggetto della diversa pronuncia.

Il riferimento è alla parte della sentenza in cui si afferma che sarebbero inutilizzabili come giustificazioni ovvero come scriminanti della condotta posta in essere dal lavoratore le " gravi e reiterate vessazioni e pregressi inadempimenti di parte datoriale" in quanto ritenuti insussistenti nella "causa parallela".

13.1. Il motivo è inammissibile, sotto il profilo del vizio di motivazione, e valgono al riguardo le considerazioni esposte in relazione ai precedenti motivi.

13.2. Quanto alla dedotta violazione di legge, il motivo è infondato.

La sentenza non applica il principio di intangibilità del giudicato; la parte censurata riguarda, piuttosto, il passaggio motivazionale in cui la Corte di merito fa proprie e reitera le considerazioni dell'altra sentenza e le valuta, unitamente ad altri elementi di giudizio, per affermare la sussistenza della giusta causa di recesso.

14. Con il quarto motivo si denuncia - ai sensi dell'art. 360 nr. 3, 4 e 5 cod. proc.civ. - l'omessa valutazione del licenziamento ritorsivo.

15. Il motivo è inammissibile.

La questione non risulta affatto trattata in sentenza; era onere della parte, per sfuggire al rilievo di novità della censura, dedurre in che precisi termini ed attraverso quali atti il profilo qui scrutinato (la ragione ritorsiva) era stato portato all'esame del giudice di appello (provvedendo poi al deposito degli atti stessi, ex art. 369 nr. 4 cod.proc.civ.).

16. Con il quinto motivo - ai sensi dell'art. 360 nr. 3 e 5 cod.proc.civ. - si censura, in relazione all'art. 2119 cod.civ., la valutazione di sussistenza della giusta causa e di proporzionalità del licenziamento.

Parte ricorrente assume che la Corte di Appello avrebbe limitato il giudizio all'accertamento del fatto contestato senza procedere alla valutazione della sua gravità.

Ribadisce, inoltre, che il lavoratore non si era mai rifiutato di effettuare la "presa in carico" del supermercato ma semplicemente si era rifiutato di sottoscrivere il verbale di consegna senza l'apposizione della clausola " con riserva", come avveniva, per prassi, in azienda.

La Corte di Appello ometteva, a detti fini, di esaminare fatti decisivi e consistiti: 1) nell'assenza di danni e nocumenti derivanti dalle condotte ascritte all'ELIA; 2) nel fatto che gli inadempimenti addebitati al lavoratore prima degli eventi del 17.4.2009 non erano a lui imputabili in quanto assente; 3) nel fatto che il "passaggio di consegne con riserve" rappresentava una prassi aziendale.

17. Il motivo, prospettato sia in termini di violazione di legge che di vizio di motivazione, va, nel complesso, rigettato.

Occorre, in questa sede, ribadire che, secondo la consolidata giurisprudenza di questa Corte, il discrimine tra vizio di violazione di legge e vizio di motivazione è segnato dal fatto che solo quest'ultima censura, e non anche la prima, è mediata dalla contestata valutazione delle risultanze di causa (fra le più recenti Cass. nr. 4125 del 2017).

In tema di licenziamento, poi, questa Corte ha affermato che la giusta causa costituisce una nozione che la legge configura con una disposizione, ascrivibile alla tipologia delle cosiddette clausole generali, che richiede di essere specificata in sede interpretativa, mediante la valorizzazione sia di fattori esterni, relativi alla coscienza generale, sia di principi che la stessa disposizione tacitamente richiama. Tali specificazioni del parametro normativo hanno natura giuridica e la loro disapplicazione è deducibile in sede di legittimità come violazione di legge, mentre l'accertamento della concreta ricorrenza, nel fatto dedotto in giudizio, degli elementi che integrano il parametro normativo e le sue specificazioni, e della loro concreta attitudine a costituire giusta causa di licenziamento, si pone sul diverso piano del giudizio di fatto, demandato al giudice di merito (Cass. nr. 10017 del 2016 che richiama Cass. nr. 5095 del 2011 e Cass. nr. 6498 del 2012).

E' stato ripetutamente precisato che il vizio di cui all'art. 360 nr. 3 cod. proc. civ. comprende anche la falsa applicazione della norma, ossia il vizio di sussunzione del fatto, che "consiste o nell'assumere la fattispecie concreta giudicata sotto una norma che non le si addice, perché la fattispecie astratta da essa prevista - pur rettamente individuata e interpretata - non è idonea a regolarla, o nel trarre dalla norma in relazione alla fattispecie concreta conseguenze giuridiche che contraddicano la pur corretta sua interpretazione (Cass. 23.9.2016 nr. 18715).

Il vizio di sussunzione è ipotizzabile anche nel caso di norme che contengano clausole generali o concetti giuridici indeterminati ma, per consentirne lo scrutinio in sede di legittimità, è indispensabile, così come in ogni altro caso di dedotta falsa applicazione di legge, che si parta dalla ricostruzione della fattispecie concreta così come effettuata dai giudici di merito; altrimenti si trasmoda nella revisione dell'accertamento di fatto di competenza di detti giudici (Cass. n. 18715 del 2016 cit.).

17.1. Da quanto precede, consegue che i profili di censura con i quali la Corte è stata investita del giudizio di gravità della condotta, poiché veicolati da una serie di elementi fattuali che si assumono non esaminati dai giudici di merito, configurano vizi di motivazione e si arrestano al rilievo di inammissibilità, per tutte le considerazioni già esposte in relazione agli altri motivi scrutinati.

17.2. Quanto, invece, al rilievo secondo cui la decisione si sarebbe fermata all'accertamento, in punto di fatto, della condotta contestata, lo stesso è infondato.

In via generale, il giudice di merito investito della domanda con cui si chieda l'invalidazione d'un licenziamento disciplinare, accertatane in primo luogo la sussistenza in punto di fatto, deve verificare che l'infrazione contestata sia astrattamente sussumibile sotto la specie della giusta causa o del giustificato motivo di recesso; in caso di esito positivo di tale delibazione, deve poi apprezzare in concreto la gravità dell'addebito, essendo pur sempre necessario che esso rivesta il carattere di grave negazione dell'elemento essenziale della fiducia e che la condotta del dipendente sia idonea a ledere irrimediabilmente la fiducia circa la futura correttezza dell'adempimento della prestazione dedotta in contratto, in quanto sintomatica di un certo atteggiarsi del lavoratore dipendente rispetto all'adempimento dei suoi obblighi (cfr., ex aliis, Cass. n.r. 15058 del 2015; Cass. nr. 2013 del 2012; Cass. nr. 2906 del 2005; Cass. nr. 16260 del 2004).

A tal fine, sempre secondo costante giurisprudenza, bisogna tener conto di tutti i connotati oggettivi e soggettivi del fatto, vale a dire del danno arrecato, dell'intensità del dolo o del grado della colpa, dei precedenti disciplinari nonché di ogni altra circostanza tale da incidere in concreto sulla r valutazione del livello di lesione del rapporto fiduciario tra le parti.

La sentenza impugnata si è attenuta a tali insegnamenti.

Il fatto oggetto di contestazione disciplinare è stato accertato e poi correttamente inquadrato come giusta causa in quanto integrante un rifiuto reiterato ad eseguire disposizioni aziendali (sull'idoneità di condotte di rifiuto di ordini aziendali ad integrare, in astratto, giusta causa di licenziamento v., ad esempio, Cass. nr. 23656 del 2016; Cass. nr. 16384 del 2004).

Quanto all'irrimediabile lesione del vincolo fiduciario tra le parti, nel caso concreto essa è stata adeguatamente motivata in ragione del contesto oggettivo in cui la condotta oppositiva è stata perpetrata (in situazione di particolare difficoltà del datore di lavoro, venutasi a creare proprio in ragione dell'assenza, pur legittima, del lavoratore), della qualità e dell'importanza delle mansioni proprie del lavoratore (inquadrato come quadro, sulla valutazione della gravità dell'illecito in rapporto alla posizione lavorativa del lavoratore, cfr. Cass. nr. 4328 del 1996), della sussistenza di precedenti disciplinari (al riguardo, tra le più recenti, Cass., nr. 22322 del 2016).

18. In conclusione il ricorso deve essere complessivamente respinto.

19. Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo.

 

P.Q.M.

 

Rigetta il ricorso e condanna parte ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate in euro 200,00 per esborsi, euro 4.500,00 per competenze professionali, oltre rimborso spese generali del 15% ed accessori di legge.

Ai sensi dell'art. 13 comma 1 quater del D.P.R. nr. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1 - bis, dello stesso art. 13.