Giurisprudenza - CORTE DI CASSAZIONE - Sentenza 03 maggio 2018, n. 10521

Licenziamento disciplinare - Impugnazione - Termine decadenziale

Fatti di causa

1. Con sentenza pubblicata il 7.3.16 la Corte d'appello di Perugia rigettava il reclamo di S.R.V. S.r.l. contro la sentenza n. 589/15 che ne aveva respinto l'opposizione all'ordinanza del Tribunale perugino che, dichiarato illegittimo per difetto di previa contestazione il licenziamento disciplinare intimato il 22.12.08 ad E.H., ne aveva ordinato la reintegra nel posto di lavoro con le conseguenze economiche di cui all'art. 18 legge n. 300 del 1970 (nel testo previgente alla novella dell'art. 1 legge n. 92 del 2012).

2. Per la cassazione della sentenza ricorre S.R.V. S.r.l. affidandosi a due motivi.

3. E.H. resiste con controricorso.

 

Ragioni della decisione

 

1.1. Il primo motivo denuncia violazione e falsa applicazione dell'art. 6 legge n. 604/66, dell'art. 2, comma 54, d.l. n. 225 del 2010, convertito, con modificazioni, in legge n. 10 del 2011, degli artt. 11 e 12 disp. prel. al cod. civ., dell'art. 252 disp. att. cod. civ., nonché omesso, illogico e contraddittorio esame d'un fatto decisivo, nella parte in cui la sentenza impugnata ha respinto l'eccezione di decadenza dall'impugnazione giudiziale del licenziamento, proposta poco prima che scadessero cinque anni dall'impugnazione extragiudiziale del recesso medesimo; la ricorrente sostiene - invece - l'applicabilità del termine di decadenza di 180 giorni previsto dal cit. art. 6, comma 2, come modificato dall'art. 32 legge n. 183 del 2010.

1.2. Con il secondo motivo si lamenta violazione e falsa applicazione degli artt. 437 cod. proc. civ. e 2697 cod. civ., nella parte in cui la sentenza impugnata ha dichiarato inammissibile perché tardiva l'eccezione di abuso del processo, sollevata dalla società per avere l'odierno controricorrente atteso quasi lo spirare del termine prescrizionale di 5 anni prima di impugnare in sede giudiziaria il licenziamento.

2.1. Il primo motivo di ricorso è fondato, dovendosi dare continuità all'orientamento a riguardo già espresso da Cass. n. 13598/16 e Cass. n. 24258/16.

Il comma 1 dell'art. 32 della L. 183 del 2010 ha così sostituito i primi due commi dell'art. 6 della L. n. 604 del 1966: «Il licenziamento deve essere impugnato a pena di decadenza entro sessanta giorni dalla ricezione della sua comunicazione in forma scritta, ovvero dalla comunicazione, anch'essa in forma scritta, dei motivi, ove non contestuale, con qualsiasi atto scritto, anche extragiudiziale, idoneo a rendere nota la volontà del lavoratore anche attraverso l'intervento dell'organizzazione sindacale diretto ad impugnare il licenziamento stesso. L'impugnazione è inefficace se non è seguita, entro il successivo termine di duecentosettanta giorni, dal deposito del ricorso nella cancelleria del tribunale in funzione di giudice del lavoro o dalla comunicazione alla controparte della richiesta di tentativo di conciliazione o arbitrato, ferma restando la possibilità di produrre nuovi documenti formatisi dopo il deposito del ricorso. Qualora la conciliazione o l'arbitrato richiesti siano rifiutati o non sia raggiunto l'accordo necessario al relativo espletamento, il ricorso al giudice deve essere depositato a pena di decadenza entro sessanta giorni dal rifiuto o dal mancato accordo".

Il d.l. n. 225 del 2010, convertito con modificazioni dalla L. 26 febbraio 2011, n. 10, ha poi inserito, con l'art. 2, comma 54, il comma 1-bis, che dispone che «In sede di prima applicazione, le disposizioni di cui all'articolo 6, primo comma, della legge 15 luglio 1966, n. 604, come modificato dal comma 1 del presente articolo, relative al termine di sessanta giorni per l'impugnazione del licenziamento, acquistano efficacia a decorrere dal 31 dicembre 2011.».

Tale differimento, come ribadito dalle Sezioni Unite di questa Corte con riferimento al contratto di lavoro a tempo determinato nella sentenza n. 4913/16, è stato introdotto per evitare che l'immediata decorrenza del termine decadenziale, prima non previsto, potesse pregiudicare chi si fosse trovato ad incorrervi inconsapevolmente.

La legge n. 92 del 2012, con l'art. 1, commi 38 e 39, ha poi ulteriormente modificato l'art. 6, comma 2, sostituendo, per i licenziamenti intimati dopo la sua entrata in vigore, il termine di 270 giorni con quello di 180 giorni.

Come questa Corte ha già rilevato nella sentenza n. 9203/14 e in successive altre conformi (v., per tutte, Cass. n. 14406/15), l'ambito di novità determinato dal suddetto art. 32 è stato non solo l'estensione dell'onere di impugnativa stragiudiziale a casi in precedenza non previsti, ma anche il fatto che la stessa impugnazione stragiudiziale diviene inefficace se non seguita dal deposito del ricorso giudiziale nel termine disposto dal novellato art. 6, comma 2, legge n. 604 del 1966.

Quindi, la norma ha previsto un diretto e contestuale collegamento tra impugnazione stragiudiziale e decorrenza del termine (parimenti di decadenza) per il deposito del ricorso giudiziale (o per le procedure conciliative od arbitrali, anch'esse ridisegnate dall'art. 31 della stessa legge n. 183 del 2010).

Pertanto, il primo e il secondo comma del novellato art. 6 vengono a costituire, integrandosi fra loro, una disciplina unitaria, articolata - e in ciò risiede, appunto, l'elemento generalizzato di novità - nella previsione di due successivi e tra loro connessi termini di decadenza. Dal collegamento tra i due momenti impugnatori (stragiudiziale e giudiziale o arbitrale) questa Corte, in relazione a licenziamenti intimati - come quello per cui oggi è causa - prima del 24.11.2010, ha desunto che il differimento previsto dal comma 1-bis dell'art. 32 legge n. 183 del 2010 deve intendersi riferito anche alla decadenza di cui al (nuovo) comma 2, la cui operatività viene fatta parimenti decorrere dal 31.12.2011.

Così argomentando, si è implicitamente ammesso che il termine (decadenziale) sia applicabile anche ai licenziamenti intimati prima dell'entrata in vigore della legge n. 183 del 2010, che già erano assoggettati al termine, parimenti decadenziale, di 60 giorni per l'impugnativa stragiudiziale prevista dall'art. 6 legge n. 604 del 1966.

La novella in discorso non ha posto delimitazioni temporali (ad eccezione di quella prevista dal comma 1- bis) all'applicazione del nuovo regime di impugnativa del licenziamento.

Tale conclusione non viola l'art. 11 disp. prel. al cod. civ., considerato che la previsione non ha portata retroattiva: infatti, premesso che il licenziamento per cui è causa era già assoggettato all'onere di contestazione stragiudiziale entro 60 gg., l'ulteriore termine di decadenza (previsto per l'impugnazione giudiziale) ha sostituito il preesistente termine quinquennale di prescrizione di cui all'art. 1442 c.c., previsto in via generale per la proposizione dell'azione giudiziale di annullamento e applicabile anche all'impugnativa del licenziamento (cfr., ancora, Cass. n. 20586/15).

In tal senso, dunque, la nuova disposizione non ha inciso su una situazione sostanziale già esaurita, ma su una situazione ancora in fieri per la pendenza del termine prescrizionale.

Ora, secondo un consolidato insegnamento di questa S.C. (v. Cass. n. 2705/82; Cass. n. 2743/75 e da ultimo, con riferimento alla decadenza introdotta dall'art. 32 per il contratto di somministrazione a tempo determinato, Cass. n. 2420/16, seguita da Cass. n. 7788/17), si può parlare di retroattività normativa quando una disposizione di legge introduca, per fatti e rapporti già assoggettati all'imperio di una legge precedente, una nuova disciplina degli effetti esauritisi (facta praeterita) sotto la legge anteriore (con l'eccezione data dal limite della cosa giudicata), ovvero una nuova disciplina di tutti gli effetti di un rapporto posto in essere prima dell'entrata in vigore della nuova norma, senza distinzione tra effetti verificatisi anteriormente o posteriormente alla nuova disposizione.

Non sussiste, invece, retroattività ove la nuova norma disciplini status, situazioni e rapporti che, pur costituendo lato sensu effetti di un pregresso fatto generatore (previsti e considerati nel quadro di una diversa normativa), siano da esso distinti ontologicamente e funzionalmente, in quanto suscettibili di una nuova regolamentazione mediante l'esercizio di poteri e facoltà non consumati sotto la precedente disciplina.

Lo ius superveniens è, quindi, applicabile ai fatti, agli status e alle situazioni esistenti o sopravvenute alla data della sua entrata in vigore, ancorché conseguenti ad un fatto passato, quando essi, ai fini della disciplina disposta dalla nuova legge, debbano essere presi in considerazione in se stessi, prescindendosi dal collegamento con il fatto che li ha generati, in modo che resti escluso che, attraverso tale applicazione, sia modificata la disciplina giuridica del fatto generatore (cfr. Cass. n. 4643/16, Cass. n. 9462/15, Cass. n. 301/14, Cass. n. 16620/13, Cass. n. 2433/2000 e, in epoca ancora più remota, Cass. S.U. n. 2926/67).

Ciò è quanto si è verificato nella vicenda in oggetto: vi è stata la sostituzione di un termine di decadenza al precedente termine di prescrizione, in cui il potere d'azione, ossia quello di impugnare il licenziamento, era indubbiamente già sorto prima dell'entrata in vigore dell'art. 32, comma 1, legge n. 183 del 2010, ma non si era ancora consumato, essendo ancora pendente il termine di prescrizione per esercitarlo, di guisa che la novella non incide sul fatto generatore, ovvero sul licenziamento che si asserisce essere illegittimo e sui suoi effetti sostanziali, ma sul diverso iter impugnatorio, ancora in corso.

L'introduzione, beninteso ex nunc, del nuovo termine di decadenza per l'azione in giudizio non determina una compromissione delle tutela giudiziaria in violazione degli artt. 24 Cost., 47 della Carta dei diritti fondamentali della UE, 6 e 13 della CEDU: ciò in quanto il termine per proporre l'azione in giudizio, anche per effetto della proroga disposta «in sede di prima applicazione» dal cit. comma 1-bis, risulta quantitativamente congruo rispetto allo scopo di prendere adeguata conoscenza della nuova legge e delle sue modalità applicative e di predisporre gli atti introduttivi del giudizio (o del procedimento conciliativo o arbitrale); esso risponde, inoltre, all'interesse generale di pervenire alla celere definizione d'una situazione sostanziale di forte impatto sociale ed economico, che attiene a diritti primari dell'individuo.

Occorre poi ricordare i principi affermati dalle Sezioni Unite di questa Corte nella sentenza n. 15352/15 (sia pure nella diversa ipotesi dell'affermata applicazione della decadenza triennale introdotta dalla legge n. 238 del 1997 riguardo alla domanda volta a conseguire la prestazione indennitaria per epatite post-trasfusionale contratta in epoca antecedente all'entrata in vigore della suddetta legge, con decorrenza dall'entrata in vigore della legge stessa), principi che operano anche nel caso in esame, che pone analoghi problemi nella successione dei diversi regimi.

In quell'occasione le Sezioni Unite hanno evidenziato che il valore del legittimo affidamento riposto nella sicurezza giuridica trova copertura costituzionale nell'art. 3 Cost., ma che tale copertura non è posta in termini assoluti e inderogabili. Hanno quindi chiarito che la posizione giuridica che dà luogo ad un ragionevole affidamento nella permanenza nel tempo di un determinato assetto regolatorio ben può essere incisa, in senso peggiorativo, in presenza di un determinato interesse pubblico che imponga interventi normativi diretti ad operare anche su posizioni consolidate, purché ciò sia proporzionato agli obiettivi di interesse pubblico perseguiti (cfr., da ultimo, Corte cost. n. 56/2015). Il suddetto bilanciamento è stato, quindi, individuato con riferimento alla soluzione adottata dal legislatore con l'art. 252 disp. att. cod. civ., in base al quale, quando  per l'esercizio di un diritto il codice stabilisce un termine più breve di quello stabilito dalle leggi anteriori, il nuovo termine si applica anche all'esercizio dei diritti sorti anteriormente e alle prescrizioni in corso, ma con decorrenza dalla data di entrata in vigore della nuova legge. A tale disposizione deve attribuirsi il valore di regola generale, come già ritenuto da questa Corte, anche a Sezioni Unite (Cass. S.U. n. 6173/08), che ha condiviso sul punto un'analoga affermazione della Corte costituzionale (Corte cost. n. 20/94).

2.2. L'accoglimento del primo motivo di ricorso assorbe la disamina del secondo.

3.1. In conclusione, va accolto il primo motivo del ricorso, con assorbimento del secondo e cassazione della sentenza impugnata in relazione al motivo accolto.

Non essendo necessari ulteriori accertamenti di fatto, ex art. 384, comma 2, cod. proc. civ. la causa può essere decisa nel merito con il rigetto della domanda proposta da E.H. per intervenuta decadenza dall'azione di impugnazione giudiziale.

Nondimeno appare consigliabile compensare le spese dell'intero processo, considerata la problematicità della questione relativa all'applicabilità della decadenza introdotta dalla legge n. 183 del 2010, riguardo alla quale le pronunce di questa S.C. sono intervenute dopo l'instaurazione della lite in oggetto (che risale al 2013).

 

P.Q.M.

 

Accoglie il primo motivo, dichiara assorbito il secondo, cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e, decidendo merito, rigetta la domanda nel proposta da E.H. e compensa le spese dell'intero processo.