Giurisprudenza - CORTE DI CASSAZIONE - Sentenza 09 maggio 2018, n. 11169

Licenziamento - Tardiva impugnazione - Impugnativa stragiudiziale formulata mediante missiva raccomandata a mezzo del servizio postale - Termine di 60 giorni dalla comunicazione del licenziamento o dei relativi motivi - Tempestività valutata sulla base della data della sua spedizione e non della ricezione da parte del destinatario - Inefficacia dell'impugnazione extragiudiziale non seguita da tempestiva azione giudiziale - Termine per proporre l'azione giudiziale decorrente dall'impugnazione extragiudiziale e non dalla scadenza dei 60 giorni concessi

 

Fatti di causa

 

Il Tribunale di Lanciano (sent. n. 20/2014) aveva accolto la domanda di C.E., dichiarando illegittimo il licenziamento a lui intimato dalla S. Spa e condannando quest'ultima a ripristinare il rapporto di lavoro ed a risarcire il danno liquidato in misura pari a tutte le retribuzioni globali di fatto maturate dall'illegittimo licenziamento sino alla effettiva reintegrazione, oltre ad una indennità pari a cinque mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto; Il Tribunale aveva invece rigettato la domanda del lavoratore relativa al danno alla professionalità e al danno biologico.

La S. aveva impugnato la decisione relativamente alla ritenuta infondatezza della eccezione di decadenza per tardiva impugnazione del licenziamento, alla ritenuta insussistenza del giustificato motivo soggettivo del licenziamento ed alla condanna relativa alla indennità aggiuntiva pari a cinque mensilità.

Il C. impugnava altresì la sentenza per la parte in cui aveva rigettato la domanda sul risarcimento dei danni subiti.

La Corte di appello di L'Aquila con la sentenza n. 1330/2015 aveva parzialmente accolto l'appello principale della società solo con riguardo alla indennità aggiuntiva ed aveva accolto in parte l'appello incidentale solo con riguardo al danno alla professionalità, liquidandolo nella misura del 10% della retribuzione base percepita dal 28.8.2009 al 25.8.2011, oltre interessi legali e rivalutazione monetaria. Confermava nel resto l'impugnata sentenza.

La Corte territoriale, in particolare, aveva ritenuto infondata l'eccezione di decadenza sollevata ai sensi dell'art. 6 legge n. 604/1966, come modificato dall'art. 32 comma 1, della legge n. 183/2010, ritenendo che la tempestività della impugnativa andasse valutata sulla base della data della sua spedizione e non della ricezione da parte del destinatario e ritenendo, per altro verso, che il termine di 270 giorni (applicabile ratione temporis), di cui al predetto articolo 6, secondo comma, decorresse dal 31 dicembre 2011, data individuata dal comma 1-bis della legge n. 183/2010, come introdotto dall'art. 2, comma 54 del d.l. n. 225/2010. Aveva altresì valutato che i fatti contestati al C., relativi alla condotta fraudolenta del lavoratore, diretta a celare al datore di lavoro lo stato di detenzione, nonché l'assenza ingiustificata fossero, la prima priva di rilievo a fini disciplinari e la seconda non qualificabile come inadempimento del lavoratore, ma di sopravvenuta impossibilità a rendere la prestazione, estranea quindi all'oggetto della contestazione.

La Corte aveva infine ritenuto fondata la domanda relativa al danno alla professionalità ritenendo che la forzata inattività lavorativa fosse di per se produttiva M.L. estensore di danno, a prescindere dall'assenza di concreta prova dell’impoverimento professionale del dipendente.

La S. spa ha proposto ricorso affidandolo a 4 motivi ed ha proposto memoria ex art. 378 c.p.c.

Il C. ha resistito con controricorso.

 

Ragioni della decisione

 

1) - Con il primo motivo la società ricorrente denuncia la violazione e falsa applicazione dell'art. 6 della legge n. 604/66 e dell'art. 32 della legge n. 183/2010, ai sensi dell'art. 360, n. 3 c.p.c., per aver la Corte erroneamente valutato, ai fini della decadenza, la data di invio della impugnativa di licenziamento e non quella di ricezione da parte del datore di lavoro.

Come già chiarito da questa Corte, l'art. 32, comma 1, della legge 4 novembre 2010, n. 183, modificato dall'art. 1, comma 38, della legge 28 giugno 2012, n. 92, nel prevedere l'inefficacia "dell'impugnazione" extragiudiziale non seguita da tempestiva azione giudiziale, comporta che il termine per proporre l'azione giudiziale decorra dal compimento della prima - da identificarsi, per esigenze di celerità e certezza, con il momento di spedizione e non ricezione dell'atto - e non dalla scadenza dei sessanta giorni concessi per l'impugnazione stragiudiziale. (Cass. n. 5717/2015).

Il principio in questione è, come detto, diretto a tutelare l'interesse alla certezza del rapporto di lavoro, e individua nella spedizione e non nella ricezione dell'atto, il prodursi degli effetti ai fini del decorso del termine decadenziale previsto per la successiva impugnazione giudiziale.

Con riguardo poi alla impugnativa stragiudiziale del licenziamento formulata mediante dichiarazione spedita al datore di lavoro con missiva raccomandata a mezzo del servizio postale, questa deve intendersi tempestivamente effettuata allorché la spedizione avvenga entro sessanta giorni dalla comunicazione del licenziamento o dei relativi motivi, anche se la dichiarazione medesima sia ricevuta dal datore di lavoro oltre detto termine, atteso che - in base ai principi generali in tema di decadenza, enunciati dalla giurisprudenza di questa Corte e affermati, con riferimento alla notificazione degli atti processuali, dalla Corte costituzionale - l'effetto di impedimento della decadenza si collega, di regola, al compimento, da parte del soggetto onerato, dell'attività necessaria ad avviare il procedimento di comunicazione demandato ad un servizio - idoneo a garantire un adeguato affidamento - sottratto alla sua ingerenza, non rilevando, in contrario, che, alla stregua del predetto art. 6, al lavoratore sia rimessa la scelta fra più forme di comunicazione, la quale, valendo a bilanciare la previsione di un termine breve di decadenza in relazione al diritto del prestatore a conservare il posto di lavoro e a mantenere un'esistenza libera e dignitosa (artt. 4 e 36 Cost.), concorre a mantenere un equo e ragionevole bilanciamento degli interessi coinvolti (Cass SU 8830/2010; Cass. n. 6757/2011).

Nel caso in esame il licenziamento è stato intimato in data 18.11.2008 con comunicazione ricevuta dal lavoratore il 20.11.2008; quest'ultimo ha impugnato il recesso con lettera raccomandata consegnata all'ufficio postale il 16.1.2009 e spedita il giorno successivo, poi ricevuta dalla S. spa in data 20.1.2009. Successivamente il lavoratore ha depositato ricorso cautelare ex art. 700 c.p.c. in data 15.5.2009, cui è seguito il reclamo proposto dalla società in data 15.9.2009 e successivamente al quale il lavoratore ha proposto ricorso ordinario, ex art. 414 c.p.c. in data 21.2.2012. Come si evince dalla sequenza temporale indicata, il termine per la impugnazione stragiudiziale risulta pienamente osservato poiché inviata la impugnativa del licenziamento prima della scadenza del sessantesimo giorno.

Quanto al ricorso giudiziale proposto in sede cautelare alcuna decadenza è ipotizzabile perché antecedente alla entrata in vigore della legge n. 183/2010, così come non è applicabile al successivo ricorso ordinario, in quanto, se pur assoggettabile alla nuova disciplina decadenziale inserendosi in una impugnativa già / in essere, risulta comunque proposto nel termine dei 270 giorni decorrenti dal 31.12.2011. A riguardo questa Corte ha chiarito che l’art. 32, comma 1 bis, della I. n. 183 del 2010, introdotto dal d.l. n. 225 del 2010, conv. con modif. dalla I. n. 10 del 2011, "ratione temporis" operante, nel prevedere "in sede di prima applicazione" il differimento al 31 dicembre 2011 dell’entrata in vigore delle disposizioni relative al termine di sessanta giorni per l'impugnazione del licenziamento, riguarda tutti gli ambiti di novità di cui al novellato articolo 6 della I. n. 604 del 1966, e, dunque, non solo l'estensione dell'onere di impugnativa stragiudiziale ad ipotesi in precedenza non contemplate, ma anche l'inefficacia di tale impugnativa, prevista dallo stesso art. 6, comma 2, anche per le ipotesi già in precedenza soggette al relativo onere, per l'omesso deposito, nel termine di decadenza stabilito, del ricorso giudiziale o della richiesta del tentativo di conciliazione o arbitrato (Cass. n. 23865/2016).

Il motivo è infondato.

2) - La seconda censura denuncia la violazione e falsa applicazione dell'art. 25 lett. A) del CCNL metalmeccanici 7 maggio 2003 e art. 10 lett. A) CCNL metalmeccanici 20 gennaio 2008, ai sensi dell'art. 360 n. 3 c.p.c., avendo, la Corte, erroneamente valutato il comportamento del C. e le condotte allo stesso addebitate quali afferenti ad una ipotesi di assenza ingiustificata prolungata oltre 4 giorni consecutivi, e non , come invece chiarito nella contestazione disciplinare, alla ipotesi di infrazione alla disciplina e diligenza del lavoro, di cui all'art. 25 lett. A) del CCNL richiamato. In particolare la società ricorrente ha lamentato la errata valutazione del Giudice del merito su quali fossero le ragioni determinative del licenziamento costituite dal comportamento fraudolento del lavoratore che aveva usufruito di permessi retribuiti per inesistenti esigenze familiari così giustificando la propria prolungata assenza.

La contestazione dei fatti addebitati, per come riferita dalla stessa società nel ricorso proposto in questa sede (pg. 39), è relativa a due profili: l'assenza protrattasi per un considerevole lasso di tempo senza che il lavoratore (o chi per lui) aggiornasse il datore di lavoro sullo stato (di detenzione) del C., e il comportamento fraudolento di quest'ultimo diretto a celare lo stato di detenzione con l'utilizzo di permessi retribuiti altrimenti non spettanti.

La Corte territoriale ha esaminato nella sua decisione entrambi gli addebiti ritenendo che la detenzione del lavoratore non potesse qualificarsi come assenza ingiustificata, ma come temporanea impossibilità della prestazione lavorativa, e che in tale dimensione, il comportamento del C., pur astrattamente utile a consentire il recesso datoriale rispetto alla impossibilità della prestazione di lavoro, non fosse stato oggetto di alcuna contestazione e della scelta datoriale di recedere dal contratto.

Il Giudice del gravame escludeva pure il comportamento fraudolento addebitato poiché, pacificamente, la richiesta di permesso era stata effettuata da soggetto terzo (la madre del C.), in assenza di prova circa un eventuale consenso del lavoratore. La censura risulta quindi infondata alla luce delle articolate motivazioni offerte dalla Corte territoriale a sostegno della valutazione sulla contestazione e sui fatti addebitati, al di là del richiamo alla disposizione contrattuale ritenuta violata. Alcuna ulteriore valutazione di merito è peraltro possibile in questa sede.

3) - Il terzo motivo di censura, relativo all'omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio, ai sensi dell'art. 360 n. 5, c.p.c., con riguardo alla valutazione del comportamento del dipendente non considerato dalla Corte quale "inadempimento" utile ai fini del recesso datoriale, deve ritenersi inammissibile, in primo luogo perché carente della indicazione di quale sia il fatto decisivo non valutato dal giudice del merito, e comunque inammissibile perché si è in presenza, per la parte relativa al licenziamento, ad una "doppia conforme" ovvero alla conferma da parte del giudice di appello, della decisione e valutazione del Tribunale. Secondo l'orientamento già espresso da questa Corte ed al quale si intende dare seguito, nell'ipotesi di doppia conforme" prevista dal quinto comma dell'art. 348 ter cod. proc. civ., il ricorrente in cassazione, per evitare l'inammissibilità del motivo di cui al n. 5 dell'art. 360 cod. proc. civ., deve indicare le ragioni di fatto poste a base della decisione di primo grado e quelle poste a base della sentenza di rigetto dell'appello, dimostrando che esse sono tra loro diverse (Cass. n. 26774/2016; Cass. n. 5528/2014).

Nella specie la decisione della Corte di merito, nel confermare, per la parte che qui interessa, la sentenza del Tribunale, ha condiviso la valutazione sui fatti compiuta dal giudice di prime cure sia con riguardo alla natura del comportamento tenuto dal lavoratore che al giudizio sui fatti a lui addebitati. Alcuna differente e opposta allegazione, circa l'eventuale contrasto tra le decisioni , è stata invece formulata dal ricorrente.il motivo si appalesa quindi inammissibile.

4) - Con il quarto motivo la società ha censurato la decisione con riguardo all'accoglimento dell'appello incidentale per la parte relativa al danno alla professionalità riconosciuto al C.. La società denuncia la violazione degli artt. 18 legge n. 300/70 e dell'art. 2103 c.c., con riferimento all'art. 360 n. 3, c.p.c., avendo, la Corte territoriale, ritenuto la sussistenza del danno alla professionalità in ragione dell'inadempimento della società all'ordine di reintegrazione in servizio, già statuita dall'ordinanza cautelare del 28.8.2009, rispetto alla quale solo in data 25.8.2011, il lavoratore era stato pienamente reintegrato in servizio. La forzata inattività era stata valutata quale impedimento alla prosecuzione della crescita professionale e quale motivo di stress e perdita di fiducia da parte del lavoratore, in ciò determinando la concretezza del danno lamentato.

Il motivo, se pur ammissibile, deve comunque essere rigettato poiché alcuna indicazione specifica è stata offerta su quali siano stati i punti di decisione violativi dei parametri delle norme richiamate. La Corte ha fondato la sua valutazione sul lungo tempo intercorso tra la disposizione di reintegrazione e la effettività di questa , la età del ricorrente, collocata in una fase della vita lavorativa (33-36 anni), in cui è particolarmente spiccata la crescita professionale e quindi la frustrazione conseguente alla esclusione dal contesto lavorativo, ed ha quindi, su tali premesse, riconosciuto, in concreto, il danno alla professionalità.

Deve richiamarsi quanto già chiarito da questa Corte con riguardo al fatto che " il comportamento del datore di lavoro che lascia in condizione di inattività il dipendente non solo viola l’art. 2103 cod. civ., ma è al tempo stesso lesivo del fondamentale diritto al lavoro, inteso soprattutto come mezzo di estrinsecazione della personalità di ciascun cittadino, nonché dell'immagine e della professionalità del dipendente, ineluttabilmente mortificate dal mancato esercizio delle prestazioni tipiche della qualifica di appartenenza; tale comportamento comporta una lesione di un bene immateriale per eccellenza, qual è la dignità professionale del lavoratore, intesa come esigenza umana di manifestare la propria utilità e le proprie capacità nel contesto lavorativo, e tale lesione produce automaticamente un danno (non economico, ma comunque) rilevante sul piano patrimoniale (per la sua attinenza agli interessi personali del lavoratore), suscettibile di valutazione e risarcimento anche in via equitativa. (Cass. n. 7963/12).

Questa Corte ha poi ripetutamente rilevato che "In caso di accertato demansionamento professionale del lavoratore in violazione dell'art. 2103 cod. civ., il giudice del merito, con apprezzamento di fatto incensurabile in cassazione se adeguatamente motivato, può desumere l'esistenza del relativo danno, avente natura patrimoniale e il cui onere di allegazione incombe sul lavoratore, determinandone anche l'entità in via equitativa, con processo logico - giuridico attinente alla formazione della prova, anche presuntiva, in base agli elementi di fatto relativi alla qualità e quantità della esperienza lavorativa pregressa, al tipo di professionalità colpita, alla durata del demansionamento, all'esito finale della dequalificazione e alle altre circostanze del caso concreto (Cass. n. 19778/2014 Cass. 4652/2009).

Le motivazioni della Corte di merito risultano rispettose dei principi indicati e dunque il motivo di censura, peraltro, come detto, a sua volta privo di specificità, deve essere comunque rigettato.

 

P.Q.M.

 

Rigetta il ricorso; condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali liquidate in E.5.000,00 per compensi ed E. 200,00 per esborsi, oltre spese generali nella misura del 15% ed accessori di legge.

Ai sensi dell'art. 13 comma quater del d.p.r. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente dell'ulteriore importo, a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1-bis, dello stesso articolo 13.