Giurisprudenza - CORTE DI CASSAZIONE - Sentenza 31 gennaio 2017, n. 4516

Tributi - Omesse dichiarazioni annuali - Violazioni - Sanzioni

 

Ritenuto in fatto

 

1. Con sentenza del 10.7.2015, la Corte di Appello di Milano confermava la sentenza del 2.2.2015 del Tribunale di Milano, con la quale G.G. era stato dichiarato responsabile del reato di cui all'art. 5 d.lvo 74/2000- perché nella sua qualità di legale rappresentante della C. srl, al fine di evadere le imposte sui redditi e sul valore aggiunto, per gli anni 2007 (IRES evasa di euro 221.186,00; IVA evasa di euro 100.308,00) e 2008 (IRES evasa di euro 169.625,00; IVA evasa di euro 88.188,00) non presentava, essendone obbligato, le relative dichiarazioni annuali - e condannato alla pena di anni uno di reclusione ed alle conseguenti pene accessorie.

2. Avverso tale sentenza ha proposto ricorso per cassazione G.G., per il tramite del difensore di fiducia, articolando tre motivi di seguito enunciati nei limiti strettamente necessari per la motivazione, come disposto dall'art. 173 comma 1, disp. att. cod. proc. pen.

Con il primo motivo deduce violazione dei criteri legali di valutazione della prova liberatoria.

Argomenta che la Corte territoriale confermava la sussistenza dell'elemento psicologico del reato senza tener conto degli elementi favorevoli emersi in dibattimento in sede di esame dell'imputato ed a seguito delle dichiarazioni rese dal teste P.M.; in particolare era emerso che il motivo per il quale il G. non aveva provveduto alle dichiarazioni fiscali negli anni 2007 e 2008 era stato l'incontro con F.N., appartenente alle cosche della "ndrangheta" sul territorio lombardo, che, avvalendosi dell'intimidazione del sodalizio criminale e tramite percosse e minacce, si era sostanzialmente appropriato di tutti i ricavi societari della C. srl.

Produce, a supporto del motivo, decreto di giudizio immediato nei confronti di F.N. ove G.G. viene indicato quale parte lesa ed il verbale di notifica del decreto di perquisizione emesso dalla Procura di Milano nei confronti di G.G., evidenziandosi che trattasi di documenti nuovi che non richiedono un'indagine di merito.

Con il secondo motivo deduce violazione di legge e vizio di motivazione in relazione al superamento della soglia di punibilità di cui all'art. 5 d.lvo 74/2000.

Argomenta che la Corte territoriale, nel ritenere superata la soglia di punibilità del reato contestato, offriva una motivazione non adeguata che, quanto all'Iva, non ricostruiva l'Iva a credito e, quanto alle imposte sui redditi, si basa solo sull'accertamento induttivo della Guardia di Finanza.

Con il terzo motivo deduce violazione di legge in relazione al mancato riconoscimento della particolare tenuità del fatto.

Argomenta che all'udienza del 10.7.2015 l'imputato aveva chiesto l'applicabilità dell'istituto di cui all'art. 131 bis cod.pen., richiesta che veniva rigettata dalla Corte territoriale con motivazione non condivisibile che attribuiva valore ostativo alla non episodicità della condotta ed alla circostanza che l'agire era connotato da rilevante dolo.

Chiede, pertanto, l'annullamento della sentenza impugnata.

 

Considerato in diritto

 

1. Il primo motivo di ricorso è inammissibile per difetto di specificità.

1.1. E' pacifica acquisizione della giurisprudenza di questa Suprema Corte come debba essere ritenuto inammissibile il ricorso per cassazione fondato su motivi che riproducono le medesime ragioni già discusse e ritenute infondate dal giudice del gravame, dovendosi gli stessi considerare non specifici. La mancanza di specificità del motivo, infatti, va valutata e ritenuta non solo per la sua genericità, intesa come indeterminatezza, ma anche per la mancanza di correlazione tra le ragioni argomentate dalla decisione impugnata e quelle poste a fondamento dell'impugnazione, dal momento che quest'ultima non può ignorare le esplicitazioni del giudice censurato senza cadere nel vizio di aspecificità che conduce, a norma dell'art. 591 comma 1, lett. c) cod. proc. pen., alla inammissibilità della impugnazione (in tal senso sez. 2, n. 29108 del 15.7.2011, C. non mass.; conf. sez. 5, n. 28011 del 15.2.2013, S., rv. 255568; sez. 4, n. 18826 del 9.2.2012, P., rv. 253849; sez. 2, n. 19951 del 15.5.2008, L.P., rv. 240109; sez. 4, n. 34270 del 3.7.2007, S., rv/236945; sez. 1, n. 39598 del 30.9.2004, B., rv. 230634; sez. 4, n. 15497 del 22.2.2002, P., rv. 221693). Ancora di recente, questa Corte di legittimità ha ribadito come sia inammissibile il ricorso per cassazione fondato sugli stessi motivi proposti con l'appello e motivatamente respinti in secondo grado, sia per l'insindacabilità delle valutazioni di merito adeguatamente e logicamente motivate, sia per la genericità delle doglianze che, così prospettate, solo apparentemente denunciano un errore logico o giuridico determinato (sez. 3, n. 44882 del 18.7.2014, Cariolo e altri, rv. 260608).

Va, poi, evidenziato che ci si trova di fronte ad una "doppia conforme" affermazione di responsabilità e che, legittimamente, in tale caso, è pienamente ammissibile la motivazione della sentenza di appello per relationem a quella della sentenza di primo grado, sempre che le censure formulate contro la decisione impugnata non contengano elementi ed argomenti diversi da quelli già esaminati e disattesi.

E', infatti, giurisprudenza pacifica di questa Suprema Corte che la sentenza appellata e quella di appello, quando non vi è difformità sui punti denunciati, si integrano vicendevolmente, formando un tutto organico ed inscindibile, una sola entità logico- giuridica, alla quale occorre fare riferimento per giudicare della congruità della motivazione, integrando e completando con quella adottata dal primo giudice le eventuali carenze di quella di appello (Sez. 1, 22/11/199, 34/2/1994, n. 1309, Albergamo, riv. 197250; Sez. 3, 14/2- 23/4/1994, n. 4700, Scauri, riv. 197497; Sez. 2, 2/3- 4/5/1994, n. 5112, Palazzotto, riv. 198487; Sez. 2, 13/11-5/12/1997, n. 11220, Ambrosino, riv. 209145; Sez. 6^, 20/113/3/2003, n. 224079). Ne consegue che il giudice di appello, in caso di pronuncia conforme a quella appellata, può limitarsi a rinviare per relationem a quest'ultima sia nella ricostruzione del fatto sia nelle parti non oggetto di specifiche censure, dovendo soltanto rispondere in modo congruo alle singole doglianze prospettate dall'appellante. In questo caso il controllo del giudice di legittimità si estenderà alla verifica della congruità e logicità delle risposte fornite alle predette censure.

1.2. La Corte territoriale ha affermato la responsabilità del G. in ordine ai reati contestatigli richiamando e condividendo le argomentazioni del giudice di primo grado, sia in ordine alla ricostruzione dei fatti che in ordine alla sussistenza degli elementi costitutivi del reato.

Le motivazioni delle due sentenze si saldano fornendo un'unica e complessa trama argomentativa, non scalfita dalle censure mosse dal ricorrente che ripropone gli stessi motivi proposti con l'appello e motivatamente respinti in secondo grado.

Nella fattispecie, peraltro, il ricorrente introduce surrettiziamente, allegandola al ricorso, documentazione (decreto di giudizio immediato emesso nel proc. n. 72991/2010 RGNR nei confronti di F.N. e verbale di notifica del decreto di perquisizione n. 43733/06 RGNR emesso dalla Procura di Milano nei confronti di G.G.) cui fa riferimento onde argomentare il motivo di gravame.

Tale produzione documentale è inammissibile, in quanto non effettuata nei precedenti gradi di giudizio; va rilevato, infatti, che trattasi di documentazione di formazione precedente alla celebrazione del dibattimento dinanzi al giudice di primo grado (il decreto di giudizio immediato risulta spedito per la notificazione al ricorrente, quale persona offesa, in data 2.3.2011 ed il decreto di perquisizione risulta notificato al ricorrente in data 16.7.2010) e che nulla deduce il ricorrente in ordine alla impossibilità di effettuarne la produzione nei precedenti gradi di merito.

Essa, inoltre, comporterebbe una valutazione di merito, nel contesto delle prove già raccolte e valutate dai giudici di merito, preclusa in sede di legittimità.

Va ricordato, sul punto, l'orientamento di questa Suprema Corte secondo cui, nel giudizio di legittimità, possono essere prodotti esclusivamente i documenti che l'interessato non sia stato in grado di esibire nei precedenti gradi di giudizio, sempre che essi non costituiscano nuova prova e non comportino un'attività di apprezzamento circa la loro validità formale e la loro efficacia nel contesto delle prove già raccolte e valutate dai giudici di merito (Sez. 2, 11 ottobre 2012, n. 1417, P.C. in proc. Platamone e altro; Sez.3, n.5722 del 07/01/2016, Rv.266390).

2. Il secondo motivo di ricorso è manifestamente infondato.

2.1. Questa Corte ha affermato che, in tema di reati tributari, ai fini della integrazione del reato di cui all'art. 5 D.lgs. n. 74 del 2000, per "imposta evasa" deve intendersi l’intera imposta dovuta, da determinarsi sulla base della contrapposizione tra ricavi e costi d'esercizio fiscalmente detraibili, in una prospettiva di prevalenza del dato fattuale reale rispetto ai criteri di natura meramente formale che caratterizzano l'ordinamento tributario (Sez.3, n.21213 del 26/02/2008, Rv.239983; Sez.3, n.38684 del 04/06/2014, Rv.260389; Sez.3, n.15899 del 02/03/2016, Rv.266817).

E' rimesso, quindi, al giudice penale il compito di accertare l'ammontare dell'imposta evasa, da determinarsi sulla base della contrapposizione tra ricavi e costi d'esercizio detraibili, mediante una verifica che, privilegiando il dato fattuale reale rispetto ai criteri di natura meramente formale che caratterizzano l'ordinamento fiscale, può sovrapporsi ed anche entrare in contraddizione con quella eventualmente effettuata dinanzi al giudice tributario (Sez.3, n.38684 del 04/06/2014, Rv.260389).

In tema di reati tributari, ai fini del superamento della soglia di punibilità di cui all'art. 5 del D.lgs. n. 74 del 2000, il giudice può legittimamente avvalersi dell'accertamento induttivo dell'imponibile compiuto dagli uffici finanziari (Sez. 3, n. 24811 del 28/04/2011, Rv. 250647; Sez. 3, n. 40992 del 14/05/2013, Rv. 257619)

E' stato affermato, da un lato, che in tema di reati tributari, ai fini della prova del reato di dichiarazione infedele, il giudice può fare legittimamente ricorso ai verbali di constatazione redatti dalla Guardia di Finanza ai fini della determinazione dell'ammontare dell'imposta evasa, nonché ricorrere all'accertamento induttivo dell'imponibile quando le scritture contabili imposte dalla legge siano state irregolarmente tenute (Sez. 3, n. 5786 del 18/12/2007 - dep. 06/02/2008, D'Amico, Rv. 238825) e, dall'altro, che il giudice può legittimamente fondare il proprio convincimento, in tema di responsabilità dell'imputato per omessa annotazione di ricavi, sia sull'informativa della G.d.F. che abbia fatto riferimento a percentuali di ricarico attraverso una indagine sui dati mercato, che sull'accertamento induttivo dell'imponibile operato dall'ufficio finanziario quando la contabilità imposta dalla legge non sia stata tenuta regolarmente. Ciò a condizione che il giudice non si limiti a constatarne l'esistenza e non faccia apodittico richiamo agli elementi in esso evidenziati, ma proceda a specifica, autonoma valutazione degli elementi nello stesso descritti comparandoli con quelli eventualmente acquisiti aliunde (Sez. 3, n. 1904 del 21/12/1999 - dep. 21/02/2000, Zarbo E, Rv. 215694).

2.2. Nella specie, la Corte territoriale ha offerto sul punto articolata motivazione, basata su autonoma valutazione delle risultanze dell'accertamento induttivo in relazione ad approfondito esame del materiale probatorio acquisito, sia con riferimento all'imposta evasa relativa all'Iva (pag 2 della sentenza impugnata) che con riferimento all'imposta evasa relativa alle imposte sui redditi (pag 3 della sentenza impugnata), risultando, conseguentemente, accertato il superamento della soglia di punibilità.

La motivazione è congrua, logica ed in linea con i principi suesposti e si sottrae al sindacato di legittimità.

Va solo ulteriormente evidenziato che risulta superata la soglia di punibilità anche alla luce della sopravvenuta normativa di cui al d.lgs n. 158/2015: l'art. 5 del d.lgs. 24/09/2015 n. 158, entrato in vigore in data 22/10/2015, ha, infatti, modificato il predetto art. 5 cit. nel senso di attribuire rilevanza penale, elevando il precedente limite (pari ad euro 30.000,00), unicamente alle condotte caratterizzate, dall'evasione di un'imposta superiore, con riferimento a taluna delle singole imposte, ad euro 50.000.

3. Il terzo motivo di ricorso è manifestamente infondato.

Secondo la giurisprudenza di questa Corte, la causa di esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto di cui all'art. 131 bis cod. pen. non può essere applicata, ai sensi del terzo comma del predetto articolo, qualora l'imputato abbia commesso più reati della stessa indole (ovvero plurime violazioni della stessa o di diverse disposizioni penali sorrette dalla medesima "ratio punendi")- come avvenuto nella specie e rilevato dal Giudice di appello- poiché è la stessa previsione normativa a considerare il "fatto" nella sua dimensione "plurima", secondo una valutazione complessiva in cui perde rilevanza l'eventuale particolare tenuità dei singoli segmenti in cui esso si articola (Sez.5, n.26813 del 10/02/2016, Rv.267262).

4. Consegue, pertanto, la declaratoria di inammissibilità del ricorso.

5. Essendo il ricorso inammissibile e, a norma dell'art. 616 cod. proc. pen., non ravvisandosi assenza di colpa nella determinazione della causa di inammissibilità (Corte Cost. sent. n. 186 del 13.6.2000), alla condanna del ricorrente al pagamento delle spese del procedimento consegue quella al pagamento della sanzione pecuniaria, nella misura ritenuta equa, indicata in dispositivo.

 

P.Q.M.

 

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro 2.000,00 in favore della Cassa delle Ammende.