Giurisprudenza - CORTE DI CASSAZIONE - Sentenza 19 gennaio 2018, n. 1381

Risarcimento del danno psico-fisico - Condotte asseritamente vessatorie e denigratorie - Manifestato intento di demansionamento - Dimissioni per giusta causa - Pregresso legame sentimentale con il legale rappresentante della società - Episodi che non travalicano la normale conflittualità presente in ogni ambito lavorativo - Mancata individuazione di uno specifico fatto storico decisivo il cui esame sia stato omesso dal giudice di merito

 

Fatti di causa

 

1. La Corte di appello di Ancona, in riforma della decisione di primo grado, ha respinto la domanda con la quale L.C. aveva chiesto la condanna della J. s.r.l., società unipersonale, al risarcimento del danno psico-fisico, quantificato in € 60.000, cagionatole dalle condotte asseritamente vessatorie e denigratorie (anche in relazione al manifestato intento di demansionarla) poste in essere nei suoi confronti da M.S., legale rappresentante della società, dopo la fine del loro legame sentimentale, e l'accertamento della sussistenza della giusta causa delle dimissioni, rassegnate in data 9 settembre 2009, con conseguente condanna della società alla restituzione della somma di € 6.783,76 (trattenuta a titolo di indennità di mancato preavviso) ed alla corresponsione in proprio favore della indennità sostitutiva del preavviso nella misura riconosciuta dal contratto collettivo di categoria.

1.1. Il giudice di appello, in relazione al periodo oggetto di causa, decorrente dal giugno 2008, epoca di rottura della relazione sentimentale tra la C. e lo S., ha escluso, sulla base degli esiti della prova orale, che questi avesse tenuto nei confronti della prima un atteggiamento denigratorio sfociato in aggressioni verbali ed espressioni offensive e che avesse tentato di emarginarla nell'ambito dell'ambiente di lavoro; ha, infatti, ricondotto i contrasti tra i due alla normale conflittualità dell'ambiente lavorativo, conflittualità nel caso specifico accentuata dalle recriminazioni reciproche scaturite dalla rottura della relazione sentimentale; ha, inoltre, rilevato la congruità delle mansioni svolte dalla lavoratrice rispetto all'inquadramento contrattuale ed escluso che vi fosse stato l'intento di demansionare la lavoratrice costituendo l'assunzione a termine di altro dipendente espressione della libertà di scelta imprenditoriale tutelata dall'art. 41 Cost.; in questa prospettiva ha a ritenuto non sorrette da giusta causa le dimissioni date dalla dipendente ed evidenziato come, al momento nel quale le stesse erano state rassegnate, la lavoratrice era assente per malattia dal lavoro da ben nove mesi.

2. Per la cassazione della decisione ha proposto ricorso L.C. sulla base di tre motivi.

2.1. La parte intimata ha resistito con tempestivo controricorso.

 

Ragioni della decisione

 

1. Si premette che il Collegio ha deliberato la redazione della motivazione della sentenza in forma semplificata, ai sensi del decreto del primo Presidente in data 14/9/2016.

2. Con il primo motivo di ricorso si deduce violazione e falsa applicazione degli artt. 2, 32 e 41 comma 2, Cost., dell'art. 2087 cod. civ. della legge n. 300 del 1970 e del d.lgs n. 626 del 1994.

Si censura la decisione per avere verificato la fondatezza della domanda azionata solo in relazione alla fattispecie del mobbing, senza considerare che con tale domanda si era inteso denunziare la violazione del più generale obbligo di tutela psico-fisica posto dall'art. 2087 cod. civ., a carico della parte datoriale, violazione configurabile anche in presenza di singoli comportamenti datoriali, ancorché non complessivamente accumulabili. In relazione alla esclusione di condotte datoriali mobbizzanti si assume il vizio della decisione per non avere dato atto di avere ancorato la relativa verifica ai parametri all'uopo indicati dal giudice di legittimità e per avere trascurato alcuni elementi della prova orale significativi delle condotte denunziate (crisi di pianto, riunione di lavoro intesa ad evitare possibili incontri con il datore di lavoro ecc.).

3. Con il secondo motivo si deduce omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia costituito dall'esistenza di presunzioni gravi, precise e concordanti circa la condotta lesiva attuata dalla parte datoriale. Si deduce - sulla base del richiamo a Cass. 05/11/2012 n. 18927 - la necessità da parte del giudicante della considerazione di tutti i fatti noti emersi dall'istruzione e della loro valutazione complessiva e ci si duole del fatto che la Corte di appello aveva arrestato la propria verifica alla circostanza che i testi avevano escluso di avere sentito il datore di lavoro adoperare determinate espressioni.

4. Con il terzo motivo di ricorso si deduce omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia costituito dall'esistenza di presunzioni gravi, precise e concordanti con riguardo alla sussistenza della giusta causa di dimissioni. Si censura la decisione per avere omesso di considerare che l'assenza dal lavoro della dipendente era stata determinata da malattia che costituiva il sintomo principale della dedotta intollerabilità alla prosecuzione del rapporto di lavoro e non, come ritenuto, una causa di esclusione di essa; le dimissioni, infatti, erano state rassegnate allorché la malattia era terminata e la lavoratrice avrebbe dovuto fare rientro in azienda.

5. I motivi di ricorso, trattati congiuntamente in quanto connessi, sono da respingere. E' innanzitutto infondata la censura secondo la quale il giudice di appello avrebbe verificato la pretesa attorea solo con riferimento alla fattispecie integrante mobbing senza considerare la possibile violazione dell'obbligo di protezione ex art. 2087 cod. civ. realizzata attraverso singoli comportamenti datoriali; la sentenza impugnata ha, infatti, respinto la originaria domanda non per difetto di sistematicità e reiterazione degli episodi denunziati ed accertati, come richiesto in relazione alla fattispecie "mobbing" (v., tra le altre, Cass. 06/08/2014 n. 17698; Cass. 06/03/2006 n. 4774) ma escludendo in radice che detti episodi travalicassero la normale conflittualità presente in ogni ambito lavorativo, in questo caso accentuata dalla recriminazioni scaturite dalla rottura del legame sentimentale tra la C. e lo S.. Tale valutazione, in quanto frutto di accertamento di fatto, logicamente e congruamente motivato, si sottrae al sindacato di legittimità sollecitato dall'odierna ricorrente con il secondo motivo di ricorso con il quale si denunzia vizio di motivazione ai sensi dell'art. 360 n. 5 cod. proc. civ.. A riguardo è da evidenziare che l'articolazione della censura non è formulata in termini coerenti con la configurazione del vizio di motivazione, risultante dal testo attualmente vigente dell'art. 360 n. 5 cod. proc. civ., applicabile ratione temporis in ragione della data di pubblicazione - il 29.4.2015 - della decisione impugnata. Come ripetutamente chiarito da questa Corte, infatti, il controllo previsto dal nuovo n. 5) dell’art. 360 cod. proc. civ. concerne l’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario (che la parte è tenuta a indicare nel rigoroso rispetto delle previsioni di cui agli artt. 366, primo comma, n. 6), cod. proc. civ. e 369, secondo comma, n. 4) ), la cui esistenza risulti dal testo della sentenza (rilevanza del dato testuale) o dagli atti processuali (rilevanza anche del dato extratestuale), che abbia costituito oggetto di discussione e abbia carattere decisivo (vale a dire che se esaminato avrebbe determinato un esito diverso della controversia) (Cass. ss.uu. 07/04/2014 n. 8053).

5.1. Parte ricorrente non individua alcuno specifico fatto storico decisivo il cui esame sarebbe stato omesso dal giudice di appello, ma si limita a denunziare, in termini del tutto generici, l'omessa considerazione "di tutti i dati fattuali concomitanti, istruttorii ed indiziari, acquisiti e vagliati in primo grado", senza precisare quali siano tali dati e senza illustrarne il carattere di decisività; né tale fatto può ravvisarsi nel mancato ricorso al ragionamento presuntivo che costituisce attività riservata al giudice di merito non sindacabile in sede di legittimità ove, come avvenuto nel caso di specie, la relativa la censura per vizio di motivazione in ordine all’utilizzo o meno del ragionamento presuntivo si sia limitata ad affermare un convincimento diverso da quello espresso dal giudice di merito senza fare emergere l’assoluta illogicità e contraddittorietà del ragionamento decisorio, restando peraltro escluso che la sola mancata valutazione di un elemento indiziario possa dare luogo al vizio di omesso esame di un punto decisivo (Cass. 02/04/2009 n. 8023; Cass. 21/10/2003 n. 5737).

5.2. Analoghe considerazioni impongono il rigetto delle censure articolate con il terzo motivo, che si rivelano inammissibili per il profilo in cui viene denunziata insufficienza e contraddittorietà di motivazione,vizi non deducibili alla luce del testo vigente dell'art. 360 n. 5 cod. proc. civ., e invece infondate per il profilo residuo, con il quale ci si duole, in sintesi, della mancata considerazione che la malattia costituiva il sintomo principale della dedotta intollerabilità della prosecuzione del rapporto di lavoro. Quest'ultima doglianza tende, infatti, a sollecitare un controllo sul mancato utilizzo del ragionamento presuntivo da parte del giudice di merito, sindacato, come visto, precluso al giudice di legittimità laddove, come nel caso di specie, affidato a considerazioni che non evidenzino l'assoluta illogicità e contraddittorietà del percorso motivazionale seguito dal giudice di merito.

6. Le spese di lite sono regolate secondo soccombenza.

 

P.Q.M.

 

Rigetta il ricorso. Condanna parte ricorrente alla rifusione delle spese di lite che liquida in € 4.000,00 per compensi professionali, € 200,00 per esborsi, oltre spese forfettarie nella misura del 15%, oltre accessori di legge.

Ai sensi dell'art. 13 comma 1 quater del d.p.r. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1 bis dello stesso articolo 13.