Giurisprudenza - CORTE DI CASSAZIONE - Sentenza 02 maggio 2016, n. 8607

Sussistenza di un rapporto di subordinazione - Mansioni di addetto al banco bar - Orario di lavoro - Continuità della prestazione

 

Svolgimento del processo

 

1. La Corte d'Appello di Lecce, con la sentenza n. 1574/11, depositata il 13 giugno 2011, non definitivamente pronunciando sull'appello proposto da Q.O. nei confronti del Bar T. di Q.P. e M.S. s.n.c., avverso la sentenza emessa tra le parti il 19 giugno 2009 dal Tribunale di Lecce, accoglieva l'appello e, per l'effetto, dichiarava che tra Q.O. ed il Bar T. di Q.P. e M.S. s.n.c., era intercorso un rapporto di lavoro subordinato dal 5 marzo 1998 all’11 novembre 2000, regolato dal CCNL settore turismo e pubblici servizi, con espletamento di mansioni riconducibili al 6° livello, per otto ore al dì, per sei giorni settimanali.

2. Con la sentenza definitiva n. 1123/12, depositata il 4 aprile 2012, la Corte d'Appello di Lecce condannava il Bar T. di Q.P. e M.S. s.n.c., a pagare in favore di Q.O. la somma di euro 35.000,00, oltre interessi legali sul capitale periodicamente rivalutato dal dovuto al saldo.

3. Q.O. si era rivolto al Tribunale di Lecce, che aveva rigettato la domanda, per ottenere l'accertamento della sussistenza di un rapporto di subordinazione con la suddetta società, assumendo di aver lavorato come barista dal 5 marzo 1998 all'11 novembre 2000, chiedendo la condanna al pagamento della somma di euro 94.156, 33, oltre accessori.

4. Per la cassazione della sentenza parziale e della sentenza definitiva, rese in grado di appello, ricorrono Q.P. e M.S. in proprio, nonché quali soci e legali rappresentanti del Bar T. di Q.P. e M.S. s.n.c., prospettando due motivi di ricorso.

5. Resiste con controricorso Q.O.

 

Motivi della decisione

 

1. Preliminarmente va rilevato che, ratione temporis, non trova applicazione, nella fattispecie in esame, il nuovo testo dell'art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c., come sostituito dal decreto-legge 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, comma 1, lettera b), convertito, con modificazioni, nella legge 7 agosto 2012, n. 134, il quale prevede che la sentenza può essere impugnata per cassazione "per omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti", poiché le sentenze in esame sono state pubblicate prima dell'11 settembre 2012.

2. Con il primo motivo di ricorso è dedotta, ai sensi dell'art. 360, n. 3, c.p.c., violazione e falsa applicazione dell'art. 2094 cc, anche in relazione all'art. 2697 cc.

Ripercorrendo le risultanze istruttorie, parte ricorrente espone che la Corte d'Appello avrebbe disatteso i principi giurisprudenziali che, in materia di riconoscimento di un rapporto di lavoro subordinato, pongono in evidenza la necessità della sussistenza di una serie di indici sintomatici, quali l'assoggettamento del lavoratore al potere direttivo, disciplinare e di controllo del datore di lavoro.

Non sarebbe stato provato da parte del lavoratore il potere direttivo e di controllo.

I testi escussi (M.V., B.L., M.M., L.G., G.A.) avevano genericamente confermato la presenza di Q.O. presso il Bar T., ma nessuno di essi era stato in grado di fornire elementi idonei a qualificare il rapporto di lavoro come subordinato.

Quanto dichiarato da Q.O. in sede di interrogatorio formale deponeva nel senso della insussistenza di un rapporto di lavoro subordinato.

La volontà delle parti era stata, sin dall'inizio, e per tutta la durata della collaborazione, quella di stipulare un accordo di tipo societario e paritario, senza alcun vincolo di subordinazione, e secondo il libero schema dell'attività autonoma.

3. Con il secondo motivo di ricorso è dedotto vizio di motivazione circa un punto decisivo della controversia.

II ricorrente censura l'affermazione della Corte d'Appello che il venir meno della causa contrattuale (accordo intercorso tra le parti per l'acquisizione da parte di Q.O. della qualità di socio) portava ad escludere automaticamente la configurabilità di una prestazione lavorativa autonoma.

4. I suddetti motivi devono essere trattati congiuntamente in ragione della loro connessione. Gli stessi non sono fondati e devono essere rigettati.

4.1. Occorre premettere che la denuncia di un vizio di motivazione, nella sentenza impugnata con ricorso per cassazione (ai sensi dell'art. 360 c.p.c., n. 5), non conferisce al giudice di legittimità il potere di riesaminare autonomamente il merito della intera vicenda processuale sottoposta al suo vaglio, bensì soltanto quello di controllare, sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico - formale, le argomentazioni - svolte dal giudice del merito, al quale spetta in via esclusiva l'accertamento dei fatti, all'esito della insindacabile selezione e valutazione della fonti del proprio convincimento.

Dunque, il motivo di ricorso per cassazione, con il quale la sentenza impugnata venga censurata per vizio della motivazione, non può essere inteso a far valere la rispondenza della ricostruzione dei fatti operata dal giudice del merito al diverso convincimento soggettivo della parte e, in particolare, non si può proporre con esso un preteso migliore e più appagante coordinamento dei molteplici dati acquisiti, atteso che tali aspetti del giudizio, interni all'ambito della discrezionalità di valutazione degli elementi di prova e dell'apprezzamento dei fatti, attengono al libero convincimento del giudice e non ai possibili vizi del percorso formativo di tale convincimento rilevanti ai sensi della disposizione dì cui all'art. 360, comma primo, n. 5, c.p.c.; in caso contrario, questo motivo di ricorso si risolverebbe in una inammissibile istanza di revisione delle valutazioni e dei convincimenti del giudice di merito, e, perciò, in una richiesta diretta all’ottenimento di una nuova pronuncia sul fatto, sicuramente estranea alla natura e alle finalità del giudizio di cassazione (Cass., n. 9233 del 2006).

Ed infatti, in tema di procedimento civile, sono riservate al giudice del merito l'interpretazione e la valutazione del materiale probatorio, nonché la scelta delle prove ritenute idonee alla formazione del proprio convincimento (Cass., n. 13054 del 2014).

Pertanto, la valutazione delle risultanze delle prove ed il giudizio sull'attendibilità dei testi, come la scelta,.tra le varie risultanze probatorie, di quelle ritenute più idonee a sorreggere la motivazione, involgono apprezzamenti di fatto riservati al giudice di merito, il quale è libero di attingere il proprio convincimento da quelle prove che ritenga più attendibili (Cass., sentenza n. 11511 del 2014).

Nei suddetti limiti, dunque, può essere vagliato il dedotto vizio di motivazione.

4.2. Ancora va osservato che, come la giurisprudenza di legittimità ha posto in evidenza, la sussistenza dell'elemento della subordinazione nell'ambito di un contratto di lavoro va correttamente individuata sulla base di una serie di indici sintomatici, comprovati dalle risultanze istruttorie, quali la collaborazione, la continuità della prestazione lavorativa e l'inserimento del lavoratore nell'organizzazione aziendale, da valutarsi criticamente e complessivamente, con un accertamento in fatto insindacabile in sede di legittimità (Cass., n. 14434 dei 2015).

4.3. Tanto premesso, occorre considerare che il suddetto principio va inverato nella fattispecie in esame tenendo presente che la stessa è caratterizzata dalla relazione tra l'accordo che era intercorso tra le parti circa la partecipazione di Q.O. alla società, che non si realizzava (l'affermazione che si legge nel primo motivo di ricorso, alla sesta pagina del ricorso, che Q.O. "era entrato a far parte della compagine societaria", non è suffragata da alcun elemento di riscontro), e l'attività lavorativa prestata da quest'ultimo presso il Bar T.

Assume, dunque rilievo l'interpretazione della volontà delle parti, come, peraltro, dedotto nel primo motivo di ricorso.

4.4. La Corte d'Appello ha correttamente applicato la disciplina del rapporto dì lavoro subordinato e del riparto dell'onere della prova, con accertamento di merito congruamente motivato.

4.5. Nella sentenza n. 1574/11, il giudice di secondo grado, premette che non è contestato che il contatto tra le parti era originato dall'accordo, tra loro intervenuto nel 1998 (concretizzatosi con la dazione, a mezzo assegno, di dieci milioni di lire, a titolo di acconto), in base al quale Q.O. doveva diventare socio, rilevando la quota della moglie di Q.P.

Afferma la Corte d'Appello che l'ingresso di Q.O. nella compagine sociale era finalizzato all'afflusso di capitale corrente, alla possibilità di emettere effetti cambiari, ed all'apertura di una nuova linea di credito, posto che la società non era più commercialmente affidabile; l'acquisizione della quota, per altro verso, realizzava il desiderio di Q.O. di gestire un esercizio bar, avendo in passato, il medesimo, espletato compiti di rappresentante di prodotti e attrezzature del settore.

Il contrasto tra le parti era relativo alle modalità di pagamento della restante parte della quota sociale da parte di Q.O.

Secondo quanto riferito da Q.O. detta differenza doveva essere corrisposta attraverso la prestazione di lavoro gratuito per due anni. Mentre per P.Q., legale rappresentante della società, il valore residuo della quota, pari a cinquanta milioni di lire, doveva essere pagato entro un anno, con la somma che Q.O. avrebbe dovuto riscuotere da una assicurazione.

Il giudice di secondo grado rilevava che quanto riferito da Q.P., ricadeva in danno dello stesso, atteso che l'incidente a cui era collegato il risarcimento si verificava solo nel 2000, e non poteva ipotizzarsi nel 1998, epoca dell'accordo (sul punto l'odierna censura del ricorrente è del tutto generica, affermandosi in ricorso che ci si intendeva riferire ad un incidente "occorso al sig. Q.O. in epoca precedente all'inizio del rapporto per cui è causa", senza alcuna precisazione, peraltro anche in relazione all’allegazione di una tale circostanza nel giudizio di merito).

Inoltre, a riscontro della imputazione della retribuzione al versamento della quota sociale, vi era la circostanza che quando nel 2000, per l'incidente, Q.O. non aveva più potuto prestare l'attività lavorativa, era stato sostituito dai genitori. La cessione della quota, tuttavia, non si perfezionava né nel tempo stabilito, né successivamente fino al novembre 2000.

Proprio dalla mancata concretizzazione dell'accordo, che non è contestata in modo adeguato con gli odierni motivi di ricorso, la Corte d'Appello, tenuto conto delle risultanze istruttorie, rilevava che era venuta meno la causa contrattuale che giustificava il proficuo utilizzo del lavoro prestato continuativamente da Q.O., per cui la prestazione lavorativa non poteva considerarsi resa in completa autonomia.

Q.O. aveva lavorato per oltre due anni, rispettando orari coincidenti con l'apertura al pubblico dell'esercizio, adempiendo a mansioni di addetto al banco bar, secondo turni alternati nel rispetto delle intese raggiunte con Q.P.

Il proprio impegno lavorativo si era protratto oltre le 40 ore settimanali, tuttavia alcuni testi riferivano di averlo visto servire i clienti nell'arco della intera giornata, altri secondo turni alternati di durata non inferiore a 8 ore, altri che egli lavorava anche dopo l'orario di chiusura in alcune occasioni.

Le mansioni dedotte (barista 6° livello) non erano state contestate, e comunque l'espletamento di tale tipo di prestazione era stato suffragato coralmente da tutti i testi.

Tali circostanze non sono contraddette dalle risultanze delle prove testimoniali riportate in ricorso, che dunque, sono prive di decisività, atteso, peraltro, che la stessa Corte d'Appello riferisce dell' accordo relativo alla partecipazione alla società.

4.6. Come questa Corte ha già avuto modo di affermare, al fini della distinzione tra lavoro autonomo e subordinato, quando l’elemento dell'assoggettamento del lavoratore alle direttive altrui non sia agevolmente apprezzabile occorre fare completo riferimento a criteri sintomatici e sussidiari, nonché ove il rapporto nel suo concreto esplicarsi presenti elementi tali da essere compatibile sia con l'autonomia che con la subordinazione del lavoratore, alla volontà delle parti come espressasi sia nel momento genetico che, eventualmente, nei momenti successivi - che, privi ciascuno di valore decisivo, possono essere valutati globalmente come indizi probatori della subordinazione, assumendo il giudizio relativo alla qualificazione del rapporto carattere sintetico in relazione all'insieme degli indici significativi e alle specificità del caso concreto (Cass., n. 11207 del 2009).

Nella specie, quindi, proprio la volontà delle parti di non perfezionare l'accordo inizialmente voluto, la conseguente mancata assunzione della qualità di socio, e dunque, il venir meno della prevista imputazione dell'attività lavorativa di Q.O., e del valore economico della stessa, alla quota sociale, in presenza di un'attività lavorativa prestata con continuità, svolgendo specifiche mansioni, in ragione delle intese preventive raggiunte con P.Q. (tale statuizione non è stata adeguatamente censurata da parte ricorrente, né è contraddetta dagli stralci delle testimonianze riprodotte in ricorso), è stata posta, correttamente e adeguatamente, dalla Corte d'Appello a fondamento della decisione di sussistenza del rapporto di lavoro subordinato, in conformità ai principi sopra richiamati.

Occorre rilevare, altresì, che il fatto che Q.O. si comportava come socio (pur non avendone la qualità) nei rapporti con i terzi, i fornitori e il personale, non offre argomenti volti a sostenere che lo stesso svolgesse la propria attività lavorativa in modo autonomo.

Ciò, tenuto conto, altresì, che, come questa Corte ha avuto modo di affermare, anche nelle società di persone è configurabile un rapporto di lavoro subordinato tra la società e uno dei soci sempreché la prestazione del socio non integri un conferimento previsto dal contratto sociale e l'attività lavorativa sia prestata sotto il controllo gerarchico di un altro socio munito di poteri di supremazia.

Il compimento di atti di gestione o la partecipazione alle scelte più o meno importanti per la vita della società non sono, in linea di principio, incompatibili con la suddetta configurabilità, sicché, anche quando essi ricorrano, è comunque necessario verificare la sussistenza delle suddette due condizioni (Cass., n. 14906 del 2010).

5. Il ricorso deve essere rigettato.

6. Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate come in dispositivo.

7. Ai sensi dell'art. 13, comma 1 -quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1 -bis, dello stesso articolo 13.

 

P.Q.M.

 

Rigetta il ricorso.

Condanna parte ricorrente al pagamento delle spese di giudizio che liquida in euro cento per esborsi, euro tremilacinquecento per compensi professionali, oltre spese generali in misura del 15 per cento e accessori di legge.

Ai sensi dell'art. 13, comma 1-quater, dei d.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1-bis, dello stesso articolo 13.