Giurisprudenza - CORTE DI CASSAZIONE - Sentenza 27 aprile 2016, n. 8376

Lavoro - Qualificazione del rapporto di lavoro - Natura subordinata - Accertamento - Continuità della prestazione - Ruolo del dipendente

 

Fatto

 

Con sentenza 28 maggio 2013, la Corte d'appello di Milano respingeva l'appello proposto da (...) avverso la sentenza di primo grado, che ne aveva rigettato le domande di accertamento di un rapporto di lavoro subordinato nei confronti di (...) in liquidazione dal 5 luglio 2004, di illegittimità del licenziamento intimatole il 7 aprile 2009 e di condanna della società datrice al pagamento, in proprio favore, della complessiva somma di € 91.488,54 a titolo di differenze retributive, con applicazione della tutela reale e riconoscimento della facoltà di optare per l'indennità prevista dall'art. 18, quinto comma L. 300/1970, in luogo della reintegrazione nel posto di lavoro.

In esito a critico ed argomentato esame delle risultanze istruttorie, la Corte territoriale escludeva la ricorrenza di un rapporto di lavoro subordinato tra le parti, in assenza dei peculiari indici sintomatici, paratamente verificati, così da dover ritenere la prestazione resa per il periodo suindicato da (...) laureata in architettura ed esperta in disegno di interni, in favore della società così come dalle medesime liberamente qualificata: in virtù della scrittura privata 1 luglio 2007 avente ad oggetto una collaborazione libero professionale "per l'elaborazione e realizzazione di progetti architettonici e per l'attività di controllo e coordinamento dei cantieri edili", analoga ad altra precedente sottoscritta il 1° dicembre 2004, dopo alcuni mesi di collaborazione iniziata nel luglio 2004, con (...) cedente in data 28 giugno 2007 a (...) in liquidazione il ramo d'azienda, cui accedente anche il rapporto giuridico con la predetta.

Con atto notificato il 24 luglio 2013, M.B. ricorre per cassazione con cinque motivi, illustrati da memoria ai sensi dell’art. 378 c.p.c., cui resiste (...) in liquidazione con controricorso.

 

Motivi della decisione

 

Con il primo motivo, la ricorrente deduce violazione e falsa applicazione dell’art. 2094 c.c., in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3 c.p.c., per l'irrilevanza ai fini dell'accertamento dalla natura subordinata o autonoma del contratto di lavoro della qualificazione pattizia e della volontà delle parti, prive di un effetto vincolante, ma soltanto uno degli elementi valutabili ai detti fini, contrariamente a quanto ritenuto dalla Corte territoriale.

Con il secondo, la ricorrente deduce violazione dell’art. 429 c.p.c. e nullità della sentenza, in relazione all'art. 360, primo comma, n. 3 e n. 4 c.p.c., per omessa esposizione delle ragioni di diritto in ordine alla particolare rilevanza della volontà della lavoratrice di mantenere un rapporto autonomo.

Con il terzo, la ricorrente deduce violazione dell'art. 429 c.p.c. e nullità della sentenza, in relazione all'art. 360, primo comma, n. 3 e n. 4 c.p.c., per omessi esame di fatti e motivazione in ordine alla circostanza, erroneamente ritenuta, della propria volontà di mantenere un rapporto di lavoro autonomo per la percezione di un maggior compenso.

Con il quarto, la ricorrente deduce violazione e falsa applicazione degli artt. 2094 c.c. e 116 c.p.c., in relazione all'art. 360, primo comma, n. 3 c.p.c., in riferimento ai principi in materia di valutazione degli indici di subordinazione qualora, come nella specie, attenuata, con omessa considerazione dalla Corte territoriale di una serie di elementi sussidiari specificamente indicati, di essa sintomatici.

Con il quinto, la ricorrente deduce violazione degli artt. 429, 115, primo comma, seconda parte e 116 c.p.c. e nullità della sentenza, in relazione all'art. 360, primo comma, n. 3 e n. 4 c.p.c., per omessi esame di fatti e motivazione in ordine agli indici di subordinazione dedotti e non contestati e di quelli provati documentalmente o per testi e pertanto nell’inosservanza delle regole di diritto sull'obbligo di fondare fa decisione su fatti non contestati e di prudente apprezzamento delle prove.

Il primo motivo, relativo a violazione e falsa applicazione dell'art. 2094 c.c., per l'irrilevanza ai fini dell'accertamento dalla natura subordinata o autonoma del contratto di lavoro della qualificazione pattizia e della volontà delle parti, è infondato.

Ed infatti, è principio di diritto consolidato quello secondo cui, ai fini della qualificazione di un rapporto di lavoro come autonomo o subordinato, occorra far riferimento ai dati fattuali emergenti dal concreto svolgimento della prestazione, piuttosto che alla volontà espressa dalle parti al momento della stipula del contratto di lavoro (Cass. 15 giugno 2009, n. 13858); e pure che la formale qualificazione operata dalle parti in sede di conclusione del contratto individuale, sebbene rilevante, non sia determinante, posto che le parti, pur volendo attuare un rapporto di lavoro subordinato, potrebbero aver simulatamente dichiarato di volere un rapporto autonomo al fine di eludere la disciplina legale in materia (Cass. 19 agosto 2013, n. 19199; con riferimento alla non vincolatività della qualificazione del rapporto di lavoro come contratto di collaborazione coordinata e continuativa: Cass. 8 aprile 2015, n. 7024).

E la Corte territoriale si è attenuta ai principi suenunciati avendo attribuito alla qualificazione, in termini di collaborazione autonoma (coerente con la qualità professionale di architetto della lavoratrice), del rapporto tra le parti, non già valore decisivo, ma di "particolare rilevanza", giustificata sulla base di argomentazioni risultanti da accertamenti in fatto (ai primi due capoversi di pg. 7 della sentenza), quali la comune libertà di selezione dello strumento di regolazione della prestazione lavorativa ("in mancanza di qualsiasi deduzione in senso contrario") e la preferenza della stessa lavoratrice per la forma adottata ("come risulta dalle deposizioni ... esaminate"), ma soprattutto valutata, sotto il profilo sostanziale, nel contesto probatorio, in base al quale la Corte meneghina ha accertato che "le risultanze istruttorie in atti non consentono di ritenere provata la effettiva natura subordinata dei rapporto in questione" (cosi al quarto capoverso di pg. 7 della sentenza), procedendo quindi al loro più analitico scrutinio.

Il secondo motivo (violazione dell'art. 429 c.p.c. e nullità della sentenza, per omessa esposizione delle ragioni di diritto della particolare rilevanza della volontà della lavoratrice di mantenere un rapporto autonomo) può essere congiuntamente esaminato, per ragioni di stretta connessione, con il terzo (violazione dell'art. 429 c.p.c. e nullità della sentenza, per omessi esame di fatti e motivazione in ordine alla preferenza della lavoratrice per un rapporto di lavoro autonomo per la percezione di un maggior compenso).

Essi sono inammissibili, per la sostanziale irrilevanza della circostanza che ne costituisce il comune oggetto, in quanto la volontà della lavoratrice e la ragione della sua determinazione (peraltro giustificata dalla Corte territoriale sulla scorta delle scrutinate dichiarazioni testimoniali di (...) a pg. 8 della sentenza) non hanno assunto (né lo avrebbero potuto, in ragione delle argomentazioni sopra svolte) una rilevanza in sé decisiva, dovendo piuttosto essere valutate nel più ampio contesto probatorio acquisito.

Ma soprattutto la ragione di inammissibilità risiede nella sottesa, ma evidente, finalità di introduzione di un’istanza di sostanziale rivisitazione critica del merito, palesata dalla sostanziale contestazione della valutazione probatoria del giudice di merito, cui spetta, in via esclusiva, il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di controllarne l'attendibilità e la concludenza e di scegliere, tra le complessive risultanze del processo, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad essi sottesi, dando così libera prevalenza all'uno o all'altro dei mezzi di prova acquisiti, salvo i casi tassativamente previsti dalla legge; secondo un esercizio insindacabile dal giudice di legittimità, al quale solo pertiene la facoltà di controllo, sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico-formale, delle argomentazioni svolte dal giudice di merito (Cass. 16 dicembre 2011, n. 27197; Cass. 18 marzo 2011, n. 6288; Cass. 19 marzo 2009, n. 6694).

E tale finalità, ridondante in una pari inammissibilità, è pure presente nel quarto (violazione e falsa applicazione degli artt. 2094 c.c. e 116 c.p.c., in riferimento ai principi in materia di valutazione degli indici di subordinazione attenuata) e nei quinto motivo (violazione degli artt. 429, 115, primo comma, seconda parte e 116 c.p.c. e nullità della sentenza, per omessi)esame di fatti e motivazione in ordine agli indici di subordinazione dedotti e non contestati e di quelli provati documentalmente o per testi), congiuntamente esaminabili per stretta connessione.

Premesso, in ordine al primo dei due, il non appropriato richiamo, in funzione di valorizzazione degli indici sintomatici sussidiari ai fini qualificatori del rapporto di lavoro, della nozione di subordinazione attenuata, correttamente applicabile alle diverse ipotesi (non ricorrenti, né allegate, in riferimento alla prestazione lavorativa di architetto di M.B.) del lavoro dirigenziale (Cass. 1 agosto 2013, n. 18414; Cass. 15 maggio 2012, n. 7517) o, al contrario, della prestazione dedotta in contratto estremamente elementare, ripetitiva e predeterminata (Cass. 31 ottobre 2013, n. 24561; Cass. 19 aprile 2010, n. 9251), i due mezzi tendono in realtà ad una contestazione della valutazione probatoria della Corte territoriale, in particolare sotto il profilo della selezione degli elementi di prova da valorizzare, contrapponendo all'interpretazione del fatto, così come accertato dal giudice, quella della parte.

Appare così evidente come, al di là della denuncia dei vizi formalmente enunciata in rubrica, non si verta nell'ipotesi di violazione di legge (per quella di nullità della sentenza, neppure essendo stato allegato un error in procedendo ai sensi dell'art. 360, primo comma, n. 4 c.p.c.). Essa, infatti, non è integrata dagli appropriati requisiti di erronea sussunzione della fattispecie concreta in quella astratta regolata dalla disposizione di legge, mediante specificazione delle affermazioni in diritto contenute nella sentenza impugnata che motivatamente si assumano in contrasto con le norme regolatrici della fattispecie e con l'interpretazione delle stesse fornita dalla giurisprudenza di legittimità o dalla prevalente dottrina (Cass. 26 giugno 2013, n. 16038; Cass. 28 febbraio 2012, n. 3010; Cass. 31 maggio 2006, n. 12984): risolvendosi, alla fine, la denuncia piuttosto in una di omessa motivazione {sub specie di fatti non considerati).

Ora, la distinzione tra i due vizi è chiara, posto che la violazione o falsa applicazione di norma di diritto, ai sensi dell'art. 360, primo comma, n. 3 c.p.c., ricorre o non ricorre a prescindere dalla motivazione (che può concernere soltanto una questione di fatto e mai di diritto) posta dal giudice a fondamento della decisione (id est: del processo di sussunzione), per l’esclusivo rilievo che, in relazione al fatto accertato, la norma non sia stata applicata quando doveva esserlo, ovvero che lo sia stata quando non si doveva applicarla, ovvero che sia stata male applicata (Cass. 15 dicembre 2014, n. 26307; Cass. 24 ottobre 2007, n. 22348). Sicché, il processo di sussunzione, nell'ambito del sindacato sulla violazione o falsa applicazione di una norma di diritto, presuppone la mediazione di una ricostruzione del fatto incontestata; al contrario del sindacato di legittimità ai sensi dell’art. 360, primo comma n. 5 c.p.c., che invece postula un fatto ancora oggetto di contestazione tra le parti.

Ciò che appunto si verifica nel caso di specie, in cui si controverte, non tanto di esatta interpretazione di norme né di corretto esercizio del processo di sussunzione della fattispecie concreta in quella astratta regolata dalle disposizioni di legge denunciate, quanto piuttosto di accertamento della concreta ricorrenza, nel fatto dedotto in giudizio, degli elementi che integrano il parametro normativo e le sue specificazioni e della loro concreta attitudine a costituire rapporto di lavoro subordinato o meno.

E la ragione di inammissibilità è tanto più vera alla luce dell'indeducibilità di un vizio di motivazione, se non nel limitato cono dell'attuale testo dell'art. 360, primo comma, n. 5 c.p.c. (di denuncia "per omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti"), applicabile ratione temporis per la pubblicazione della sentenza impugnata in data posteriore (28 maggio 2013) al trentesimo giorno successivo a quella di entrata in vigore della legge 7 agosto 2012, n. 134, di conversione del decreto legge 22 giugno 2012, n. 83 (12 agosto 2012), secondo la previsione dell'art. 54, terzo comma del decreto legge citato.

Esso ha, infatti, introdotto nell'ordinamento un vizio specifico denunciabile per cassazione, relativo all'omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (nel senso che, qualora esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia). Ne consegue che, nel rigoroso rispetto delle previsioni degli artt. 366, primo comma, n. 6 e 369, secondo comma, n. 4 c.p.c., il ricorrente deve indicare il "fatto storico", il cui esame sia stato omesso, il "dato", testuale o extratestuale, da cui esso risulti esistente, il "come" e il "quando" tale fatto sia stato oggetto di discussione processuale tra le parti e la sua "decisività"; fermo restando che l'omesso esame di elementi istruttori non integra, di per sé, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorché la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie. Sicché, detta riformulazione deve essere interpretata, alla luce dei canoni ermeneutici dettati dall'art. 12 delle preleggi, come riduzione al "minimo costituzionale" del sindacato di legittimità sulla motivazione.

Ed è pertanto denunciatale in cassazione solo l’anomalia motivazionale che si tramuti in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sé, purché il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali. Tale anomalia si esaurisce nella "mancanza assoluta di motivi sotto l'aspetto materiale e grafico", nella "motivazione apparente", nel "contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili" e nella "motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensiblle", esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di "sufficienza" della motivazione (Cass. s.u. 7 aprile 2014, n. 8053).

Né l'omesso esame di elementi istruttori integra in sé il suddetto vizio, qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorché la sentenza non abbia dato conto di tutte !e risultanze probatorie (Cass. 10 febbraio 2015, n. 2498): con la conseguente preclusione nel giudizio di cassazione dell'accertamento dei fatti ovvero della loro valutazione a fini istruttori (Cass. 21 ottobre 2015, n. 21439).

Dalle superiori argomentazioni discende coerente il rigetto del ricorso con la regolazione delle spese del giudizio secondo il regime di soccombenza.

 

P.Q.M.

 

Rigetta il ricorso e condanna (...) alla rifusione, in favore della controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in € 100,00 per esborsi e € 3.000,00 per compensi professionali, oltre rimborso per spese generali in misura del 15% e accessori di legge.

Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater d.p.r. 115/2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1-bios dello stesso articolo 13.