Giurisprudenza - CORTE DI CASSAZIONE - Sentenza 21 aprile 2016, n. 8079

Rapporto di lavoro - Dipendente Inps - Indennità di buonuscita - Pensione integrativa - Calcolo

 

Svolgimento del processo

 

Con sentenza depositata il 18.12.09 la Corte d'appello di Roma, in parziale riforma della sentenza emessa il 25.2.05 dal Tribunale di Latina, rigettava le domande proposte da M.A.G. - dipendente dell’INPS - volte all’accertamento del diritto all'inclusione, nell'indennità di buonuscita e nella pensione integrativa, dell'indennità di professionalità e di ogni altro compenso di carattere fisso e continuativo.

La Corte di merito rigettava altresì la domanda intesa ad ottenere la declaratoria di illegittimità dell’applicazione del contributo di solidarietà del 2% sulla retribuzione, essendo la lavoratrice ancora in servizio.

M.A.G. ricorre per la cassazione della sentenza affidandosi a tre motivi.

L'INPS resiste con controricorso, poi ulteriormente illustrato con memoria ex art. 378 c.p.c.

 

Motivi della decisione

 

1 - Con il primo motivo la ricorrente denunzia violazione dell’art. 112 cod. proc. civ., perché la sentenza di prime cure aveva riconosciuto il suo diritto all'inclusione dei compensi fissi sia nell’indennità di buonuscita, sia nella pensione integrativa, di guisa che, avendo l'INPS proposto appello solo in relazione all'indennità di buonuscita, doveva considerarsi ormai passata in giudicato la statuizione di primo grado sul diritto della lavoratrice al maggior computo della pensione integrativa.

Il motivo è infondato, perché risulta dalle conclusioni dell'appellante INPS, come riportate dalla sentenza impugnata, che l'Istituto aveva proposto appello contro tutte le statuizioni ad esso contrarie adottate in primo grado.

Quindi aveva impugnato la pronuncia di prime cure sia in relazione alla pensione integrativa sia in relazione all'indennità di buonuscita, per cui non sussiste la violazione dell'art. 112 cod. proc. civ.

2 - Con il secondo mezzo si censura la sentenza per avere la Corte territoriale escluso dalla pensione integrativa l'indennità di professionalità e ogni altro compenso di carattere fisso e continuativo.

Il motivo è fondato.

Con sentenza n. 7154/10 le S.U. di questa Corte hanno statuito che in tema di base di calcolo della pensione integrativa dei dipendenti dell’INPS, ai sensi dell'art. 5 del Regolamento per il trattamento di previdenza e quiescenza dell'ente, adottato con Delib. 12 giugno 1970 e successivamente modificato con Delib. 30 aprile 1982, ai fini della computabilità nella pensione integrativa già erogata dal fondo istituito dall'ente (e ancora transitoriamente prevista a favore dei soggetti già iscritti al fondo, nei limiti dettati dalla L. 17 maggio 1999, n. 144, art. 64) è sufficiente che le voci retributive siano fisse e continuative, dovendosi escludere la necessità di un'apposita deliberazione che ne disponga l’espressa inclusione. A ciò non è di ostacolo il rilievo che l'elemento retributivo sia attribuito in relazione allo svolgimento di determinate funzioni o mansioni, anche se queste, e la relativa indennità, possano in futuro venire meno, mentre non può ritenersi fisso e continuativo un compenso la cui erogazione sia collegata ad eventi specifici di durata predeterminata oppure sia condizionata al raggiungimento di taluni risultati e, quindi, sia intrinsecamente incerto (la fattispecie decisa era relativa all'indennità mensile della L. n. 88 del 1989, ex art. 15, comma 2, e al salario di professionalità o assegno di garanzia retribuzione).

A tale giurisprudenza va data continuità, come già avvenuto con successive pronunce di questa Corte (cfr. Cass. n. 20524/15; Cass. n. 19289/15; Cass. n. 3775/12).

3 - Con il terzo motivo la ricorrente si duole della ritenuta legittimità dell'applicazione del contributo di solidarietà sulla retribuzione.

La censura è infondata.

La L. 17 maggio 1999, n. 144, art. 64, comma 2, ha disposto, a decorrere dall’1.10.99, la soppressione dei fondi per la previdenza integrativa dell'assicurazione generale obbligatoria per i dipendenti degli enti di cui alla L. 20 marzo 1975, n. 70 (ossia gli enti pubblici come Inps ed Inail, facenti parte del c.d. parastato) con contestuale cessazione delle corrispondenti aliquote contributive previste per il finanziamento dei fondi medesimi; il successivo comma 3 ha poi riconosciuto agli iscritti ai fondi soppressi "il diritto all'importo del trattamento pensionistico calcolato sulla base delle normative regolamentari in vigore presso i predetti fondi che restano a tal fine confermate anche ai fini di quiescenza e delle anzianità contributive maturate alla data del 1.10.1999".

Attraverso questa disposizione, anche coloro che - alla data della soppressione (1°.10.99) - non avevano ancora conseguito i requisiti prescritti dalla normativa del Fondo e, quindi, non avrebbero avuto alcun diritto nei suoi confronti, finiscono con l’acquisire comunque la prestazione integrativa; in altri termini, tutti i dipendenti di questi enti maturano la pensione integrativa nella misura conseguita al 1°.10.99, ancorché la sua concreta erogazione competa poi solo a coloro che hanno già acquisito la pensione obbligatoria, secondo la regola ormai generalizzata (L. 27 dicembre 1997, n. 449, ex art. 59, comma 3) per cui la pensione integrativa si consegue solo in presenza dei requisiti e con la decorrenza previsti per l'assicurazione generale obbligatoria di appartenenza.

Inoltre (v. parte finale del comma 3), gli importi maturati al 1°.10.99 vengono rivalutati annualmente sulla base degli indici Istat, di talché, al momento del conseguimento della pensione obbligatoria, i dipendenti in servizio avranno diritto alla pensione integrativa nel maturato al 1°.10.99, incrementato della rivalutazione per ciascuno degli anni che li separano dalla pensione.

Infine il comma 5, art. 64 introduce, dalla medesima data del 1°.10.99, un contributo di solidarietà del 2% su dette pensioni integrative, precisamente "sulle prestazioni integrative dell’assicurazione generale obbligatoria erogate o maturate presso i fondi...".

La questione che si pone è la seguente: se detto contributo di solidarietà del 2% debba gravare solo su coloro che percepiscono la pensione integrativa, oppure anche (attraverso ritenute sulla retribuzione) sui dipendenti in servizio, i quali, pur non ricevendola concretamente, la abbiano già maturata.

Con il D.L. 6 luglio 2011, n. 98 convertito in L. 15 luglio 2011, n. 111, art. 18, comma 19 si è previsto che "Le disposizioni di cui alla L. 17 maggio 1999, n. 144, art. 64, comma 5, si interpretano nel senso che il contributo di solidarietà sulle prestazioni integrative dell'assicurazione generale obbligatoria è dovuto sia dagli ex - dipendenti già collocati a riposo che dai lavoratori ancora in servizio. In questo ultimo caso il contributo è calcolato sul maturato di pensione integrativa alla data del 30 settembre 1999 ed è trattenuto sulla retribuzione percepita in costanza di attività lavorativa".

La verifica della conformità a Costituzione di questa norma va compiuta alla luce dei principi enunciati dalla sentenza della Corte Costituzionale n. 257/2011 in tema di legge interpretativa, concernente in quel caso la materia pensionistica (si trattava della L. n. 191 del 2009, art. 2, comma 153, che interpretava autenticamente la L. n. 457 del 1972, art. 3, in tema di pensioni degli operai agricoli a tempo determinato).

La Corte cost. ha ribadito non essere decisiva la verifica sul carattere effettivamente interpretativo oppure innovativo con efficacia retroattiva, perché il divieto di retroattività della legge non è stato elevato a dignità costituzionale, salva, per la materia penale, la previsione dell’art. 25 Cost., per cui il legislatore, nel rispetto di tale previsione, può emanare sia disposizioni di interpretazione autentica, che determinano la portata precettiva della norma interpretata, fissandola in un contenuto plausibilmente già espresso dalla stessa, sia norme innovative con efficacia retroattiva, purché la retroattività trovi adeguata giustificazione sul piano della ragionevolezza e non contrasti con altri valori ed interessi costituzionalmente protetti.

Ciò premesso, il giudice delle leggi ha confermato che la norma che deriva dalla legge di interpretazione autentica non può dirsi irragionevole qualora si limiti ad assegnare alla disposizione interpretata un significato già in essa contenuto, riconoscibile come una delle possibili letture del testo originario.

Sempre la Corte cost. ha poi negato la fondatezza della questione di legittimità costituzionale di quella disposizione interpretativa, sollevata con riferimento all'art. 111 Cost. (interpretato alla luce dell'art. 6 CEDU, in quanto la previsione della sua applicabilità ai giudizi in corso violerebbe il principio del giusto processo, in particolare sotto il profilo della parità delle parti, da ritenere leso a causa di un intervento del legislatore diretto ad imporre una determinata soluzione ad una circoscritta e specifica categoria di controversie) e all'art. 117 Cost., comma 1 (per violazione degli obblighi internazionali dello Stato e, in particolare, dell'art. 6 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, ratificata e resa esecutiva con L. 4 agosto 1955, n. 848, come interpretato dalla Corte europea dei diritti dell'uomo).

La Corte cost. ha così deciso "In premessa, si deve ricordare che questa Corte, con le sentenze nn. 348 e 349 del 2007, ha chiarito i rapporti tra il citato art. 117 Cost, comma 1, e le norme della CEDU, come interpretate dalla Corte europea dei diritti dell'uomo. I principi illustrati nelle menzionate sentenze devono ritenersi in questa sede richiamati. Alla luce di essi si deve, dunque, verificare: a) se vi sia contrasto, non suscettibile di essere risolto in via interpretativa, tra la disciplina censurata e le norme della CEDU, come interpretate dalla Corte di Strasburgo ed assunte quali fonti integrataci dell'indicato parametro costituzionale; b) se le norme della CEDU, invocate come integrazione del parametro (cosiddette norme interposte), nell'interpretazione ad esse data dalla medesima Corte, siano compatibili con l'ordinamento costituzionale italiano (sentenza n. 348 del 2007, citata). Orbene, con riguardo all'art. 6 della CEDU, si deve osservare che la Corte di Strasburgo, pur censurando in numerose occasioni indebite ingerenze del potere legislativo degli Stati sull'amministrazione della giustizia (per una ricognizione dei casi trattati, sentenza di questa Corte n. 311 del 2009), non ha inteso enunciare un divieto assoluto d'ingerenza del legislatore, dal momento che in varie occasioni ha ritenuto non contrari al menzionato art. 6 particolari interventi retroattivi dei legislatori nazionali. La regola di diritto, affermata anche di recente con sentenza della seconda sezione in data 7 giugno 2011, in causa Agrati ed altri c/ Italia, è che "Se, in linea di principio, il legislatore può regolamentare in materia civile, mediante nuove disposizioni retroattive, i diritti derivanti da leggi già vigenti, il principio della preminenza del diritto e la nozione di equo processo sancito dall'art. 6 ostano, salvo che per ragioni imperative d'interesse generale, all'ingerenza del legislatore nell'amministrazione della giustizia allo scopo di influenzare la risoluzione di una controversia. L'esigenza della parità delle armi comporta l'obbligo di offrire ad ogni parte una ragionevole possibilità di presentare il suo caso, in condizioni che non comportino un sostanziale svantaggio rispetto alla controparte". Anche secondo la detta regola, dunque, sussiste lo spazio per un intervento del legislatore con efficacia retroattiva (fermi i limiti di cui all'art. 25 Cost.). Diversamente, se ogni intervento del genere fosse considerato come indebita ingerenza allo scopo d'influenzare la risoluzione di una controversia, la regola stessa sarebbe destinata a rimanere una mera enunciazione priva di significato concreto".

Nel caso in esame - sulla base di questi principi - il D.L. n. 98 del 2011, art. 18, comma 19, convertito in L. n. 111 del 2011, sopra riportato, non suscita dubbi di contrarietà a Costituzione, perché esso ha enucleato una delle possibili opzioni ermeneutiche dell'originario testo normativo; ha superato una situazione di oggettiva incertezza derivante dal suo ambiguo tenore, evidenziata da diversi indirizzi interpretativi adottati a riguardo; non ha inciso su situazioni giuridiche definitivamente acquisite, non ravvisabili in mancanza di una consolidata giurisprudenza dei giudici nazionali.

Non è sostenibile, dunque, che la disposizione de qua abbia inteso realizzare un'illecita ingerenza del legislatore nell'amministrazione della giustizia, allo scopo d'influenzare la risoluzione di controversie. Essa, in realtà, ha fatto propria una soluzione già adottata da molti giudici di merito nell'esercizio di un potere discrezionale in via di principio spettante al legislatore e nel quale non è dato ravvisare profili di irragionevolezza. La finalità di superare un conclamato contrasto di giurisprudenza, destinato peraltro a riproporsi in un gran numero di giudizi, essendo diretta a perseguire un obiettivo d'indubbio interesse generale quale la certezza del diritto, è configurabile come ragione idonea a giustificare l'intervento interpretativo del legislatore. Nello stesso senso ha deciso la Sez. 6 - L, Ordinanza n. 1497 del 2.2.12, con cui si è affermato "In materia di contribuzione previdenziale, la questione di legittimità costituzionale del D.L. n. 98 del 2011, art. 18, comma 19, convertito nella L. n. 111 del 2011, secondo il quale le disposizioni di cui alla L. n. 144 del 1999, art. 64, comma 5, si interpretano nel senso che il contributo di solidarietà sulle prestazioni integrative dell'assicurazione generale obbligatoria è dovuto anche dai lavoratori in servizio, è manifestamente infondata - oltre che con riferimento ai principi del giusto processo ex art. 6 CEDU, artt. 111 e 117 Cost, trattandosi di intervento legislativo che, nel fare proprio un plausibile significato della norma, ne realizza effettivamente l'interpretazione autentica ex art. 70 Cost. - anche con riferimento agli artt. 3 e 53 Cost, atteso che la sottoposizione delle retribuzioni dei lavoratori in servizio sia all'imposta sui redditi che al contributo speciale è giustificata in relazione al carattere differenziato della loro posizione previdenziale rispetto a quella della generalità dei cittadini e dei lavoratori".

4 - In conclusione, devono essere rigettati il primo e il terzo motivo di ricorso, mentre deve accogliersi il secondo. La sentenza impugnata va cassata in relazione al motivo accolto, con rinvio, anche per le spese, alla Corte d'appello di Roma in diversa composizione.

 

P.Q.M.

 

Accoglie il secondo motivo di ricorso, rigetta il primo e il terzo, cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e rinvia, anche per le spese, alla Corte d'appello di Roma in diversa composizione.