Giurisprudenza - CORTE DI CASSAZIONE - Sentenza 22 aprile 2016, n. 8144

Tributi - Diritti di confine - Operazioni di importazione - Certificati EUR 1 inizialmente ritenuti validi dall’autorità doganale e successivamente ritirati - Richiesta di remissione degli atti alla Corte di Giustizia - Mancata statuizione del giudice nazionale - Revocazione della sentenza - Esclusione

 

Fatto

 

La s.p.a. I. Z., successivamente incorporata dalla odierna ricorrente, impugnò un avviso di accertamento suppletivo e di rettifica volto al recupero di maggiori diritti di confine dovuti per le operazioni d’importazione documentate dalle bollette indicate in atti.

In relazione alle relative dichiarazioni doganali, le quali prevedevano l’applicazione del regime preferenziale contemplato dal regolamento CE n. 2007/00 del 18 settembre 2000, l’ufficio competente aveva svincolato la polizza fideiussoria prestata a garanzia in caso di esito sfavorevole del controllo a posteriori, a fronte dell’assicurazione della regolarità dei certificati di origine Eur 1 da parte delle autorità doganali della Repubblica di Serbia-Montenegro, che attestavano l’origine jugoslava - recte, serbo-montenegrina - dello zucchero importato. Successivamente, tuttavia, a seguito di più approfondite indagini, l’autorità doganale serbo-montenegrina aveva ritirato una serie di certificati Eur 1, tra i quali anche quelli che corredavano le operazioni d’importazione in questione.

Di qui ebbe origine la revisione dell’accertamento, l’impugnazione dell’atto conclusivo del quale ha trovato definizione con la sentenza di questa Corte n. 5388 del 2012, con la quale, a fondamento dell’accoglimento del ricorso principale proposto dall’Agenzia delle Dogane e della decisione nel merito mediante rigetto dell’impugnazione originariamente proposta, si è stabilito che:

- lo svincolo della garanzia fideiussoria non comporta l’estinzione dell’obbligazione doganale;

- l’applicabilità dell’art. 220 del codice doganale comunitario, invocato dalla contribuente, è esclusa nel caso in esame per il fatto che, anteriormente alle operazioni d’importazione, la Commissione europea aveva pubblicato nella GUCE un avviso in cui segnalava dubbi sulla corretta applicazione del regime preferenziale, irrilevante essendo la condotta delle autorità doganali che avevano proceduto a svincolare la garanzia.

La società propone ricorso per ottenere la revocazione della suddetta sentenza, che affida a due motivi, cui l’Agenzia reagisce con controricorso. Entrambe le parti depositano memoria ex art. 378 c.p.c.

 

Diritto

 

1. - Col primo motivo, la ricorrente chiede la revocazione della indicata sentenza della Corte di Cassazione ex art. 395, n. 4 e 391 -bis c.p.c., denunciando che la Corte ha omesso di statuire sulla richiesta di rimessione degli atti alla Corte di giustizia, formulata in udienza dal sostituto procuratore generale. Qualora non si ritenga possibile ricorrere allo strumento dell’interpretazione conforme, chiede che la Corte formuli alla Corte di giustizia il seguente quesito:

"se l’art. 267 TFUE e l’art. 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, letto alla luce dell’art. 6 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, tenuto anche conto del principio di leale cooperazione fra gli Stati membri e l'Unione, debbano essere interpretati nel senso che ostano ad una norma processuale nazionale, quale l’art. 395 c.p.c., nella misura in cui tale norma processuale non consente di qualificare come vizio revocatorio della sentenza resa dal giudice di ultima istanza la fattispecie di omessa pronuncia in merito ad un mancato rinvio pregiudiziale ex art. 267 TFUE".

Il motivo è infondato.

L’errore di fatto revocatorio è l’erronea percezione degli atti dì causa, come la supposizione di un fatto, la cui verità è incontestabilmente esclusa, oppure la supposizione dell’inesistenza di un fatto la cui verità sia positivamente stabilita (tra varie, Cass., ord. 24 luglio 2012, n. 12962). In particolare, al cospetto dell’omessa pronuncia, l’errore di fatto presuppone l’esistenza di divergenti rappresentazioni dello stesso oggetto, emergenti una dalla sentenza e l’altra dagli atti e documenti di causa (tra varie, Cass., ord. 21 luglio 2011, n. 16003).

Nessun errore di fatto revocatorio è allora prospettabile nel caso in esame, in cui la Corte di Cassazione, nel corpo della sentenza, ha dato atto della richiesta del sostituto procuratore generale di rimessione degli atti alla Corte di giustizia e, pur non espressamente provvedendo a respingerla, l’ha implicitamente fatto, avendo esaminato le questioni poste al suo esame alla luce della normativa comunitaria e della sua applicazione ad opera della Corte di giustizia.

1.1. - Giova rilevare al riguardo, per un verso, che "spetta unicamente al giudice nazionale il compito di valutare se la corretta applicazione del diritto dell’Unione si imponga con un'evidenza tale da non lasciare adito ad alcun ragionevole dubbio e, di conseguenza, di decidere di astenersi dal sottoporre alla Corte una questione di interpretazione del diritto dell’Unione che è stata sollevata dinanzi ad esso" (Corte giust. 9 settembre 2015, causa C-160/14, F. D. S. c. Gov. Portogallo, punto 40) e che, per altro verso, la motivazione implicita di rigetto della richiesta di rimessione alla Corte di giustizia non viola l’art. 6 della CEDU (Corte dir.uomo, 8 settembre 2015, Wind telecomunicazioni spa c. Italia, ric.n.5159/14, punti 36-38).

Il che assume particolare pregnanza nell’odierno giudizio, in cui, anzitutto, non emerge a quale aspetto si riferisse la richiesta di rimessione formulata dal sostituto procuratore generale, al fine di verificare se essa cogliesse profili distinti da quelli compiutamente esaminati dalla Corte con la sentenza impugnata; inoltre, i profili in relazione ai quali la società deduce di aver prospettato in primo grado la necessità di rivolgersi alla Corte di giustizia non inducevano dubbio alcuno sulla corretta applicazione del diritto dell’Unione, come statuita dalla Corte con la sentenza impugnata.

Al riguardo, in risposta, implicita, ma inequivoca sull’insussistenza dell’obbligo di rimessione in ordine ai quesiti volti ad accertare, rispettivamente, "...se l’art. 78 del Codice doganale comunitario vada interpretato nel senso di escludere che le autorità doganali nazionali, una volta esperito con esito favorevole per l’importatore il cd "controllo a posteriori" ed adottati i conseguenti provvedimenti, ne possano eseguire un secondo" e "se l’art 199 del Codice doganale comunitario vada interpretato nel senso che la restituzione delle garanzie fideiussorie prestate implichi che le autorità doganali nazionali abbiano riconosciuto che l’obbligazione doganale si sia estinta e che pertanto non possa più sorgere in capo all’esportatore", la Corte ha fatto leva sul tenore della normativa comunitaria, suffragato dalla relativa giurisprudenza, dalla quale "...si rileva...la sola esistenza di un termine triennale di prescrizione per la comunicazione della contabilizzazione di un diverso importo dei dazi" (così si legge a pag. 5 della sentenza).

Del resto, sin da epoca ampiamente antecedente alla sentenza della quale si chiede la revocazione, la Corte di giustizia ha segnalato, in generale, che il debitore non può nutrire un legittimo affidamento quanto alla validità dei certificati EUR 1 per il fatto che essi siano stati ritenuti inizialmente veritieri dalla autorità doganale di uno Stato membro (Corte giustizia 9 marzo 2006 C 293/04, Beemsterboer Coldstore Services BV, punto 33). Principio, dal quale la Corte ha di recente tratto il corollario, dì segno opposto a quello auspicato dalla società, che, entro il termine di tre anni fissato dall’art. 221 del codice doganale comunitario alle autorità doganali per procedere alla comunicazione di una nuova obbligazione doganale, la normativa nazionale degli Stati membri deve consentire di procedere anche reiteratamemente alle revisioni o comunque ad ulteriori controlli, in quanto gli operatori economici non possono fare legittimamente affidamento sulla conservazione di una situazione esistente, modificabile nell’ambito del potere discrezionale delle autorità nazionali, salvo che provino il proprio legittimo affidamento determinato dal comportamento attivo delle autorità competenti (Corte giust. 10 dicembre 2015, causa C-427/14, Valsts ieijémumu dienests c. "Veloserviss" SIA"),

L’insussistenza della necessità di rimessione alla Corte di giustizia in ordine all’ulteriore profilo prospettato, pur sempre in primo grado, d’incompatibilità comunitaria, volto a verificare "se l’art. 220 del Codice doganale comunitario vada interpretato nel senso che in ipotesi di errore da parte dell’autorità doganale straniera, non cagionato da dichiarazione resa dall’esportatore, la buona fede dell’importatore sia non rilevante" trova anch’essa implicita, ma inequivocabile affermazione nell’esegesi della normativa comunitaria, anche stavolta confortata dalla relativa giurisprudenza della Corte di giustizia, di segno univoco, riportata alle pagine 8-10 della sentenza.

1.2.- Il quesito pregiudiziale prospettato in questa sede è dunque mal posto, perché non congruente con la decisione impugnata.

Il legislatore, difatti, vuole che l’errore di fatto non si risolva in un errato giudizio da parte del giudice e che la divergenza tra ciò che risulta dalla sentenza e la realtà (costituita dagli atti e documenti di causa) non sia il frutto di un erroneo apprezzamento della realtà medesima, non potendo poi integrare gli estremi dell’errore di fatto un errore nel giudizio di fatto derivante da un errore di diritto.

Diversamente opinando, d’altronde, il ricorso per revocazione della sentenza di cassazione renderebbe possibile qualcosa che non può chiedersi con tale impugnazione, ovvero il riesame del precedente giudizio di legittimità.

2. - Col secondo motivo di revocazione, proposto ex art. 395, n. 3 e 391-ter c.p.c., la ricorrente deduce di essere venuta a conoscenza successivamente alla conclusione del giudizio di legittimità che il Tribunale amministrativo serbo, con sentenze emesse nel periodo 24 agosto/19 settembre 2012, su ricorso della società esportatrice, ha annullato i provvedimenti con i quali la dogana serba aveva affermato di non poter confermare l’effettiva provenienza dello zucchero, annullando i relativi certificati Eur 1.

A tanto la società ha aggiunto che con le sentenze del 25 gennaio 2007 e del 16 febbraio 2007 della Suprema Corte serba, nonché con la sentenza del 25 marzo 2010 del tribunale amministrativo si è stabilito che a tali date le autorità doganali non avevano ancora emesso alcun provvedimento valido di non conferma o annullamento dei suddetti certificati Eur 1, insufficienti essendo al riguardo la comunicazione inviata dalle autorità doganali all’esportatore MK Commerce il 25 gennaio 2003 ed alle autorità italiane il 17 marzo 2005.

La ricorrente ha poi dedotto di non aver potuto produrre la documentazione in giudizio per causa di forza maggiore, giacché ne è venuta a conoscenza soltanto a seguito della lettera del Ministero delle Finanze del 6 novembre 2012.

Ha prospettato infine la necessità dell’interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 395, n. 3, c.p.c., nel senso che, anche quando il documento decisivo è successivo al giudizio, la forza maggiore ben può consistere proprio nel fatto che il documento sia successivo rispetto al giudizio. In subordine, ha chiesto che la Corte sollevi la questione di legittimità costituzionale dell’art. 395, n. 3, c.p.c., per violazione degli art. 3 e 24 cost., nella parte in cui non prevederebbero l’esperibilità della revocazione qualora il documento decisivo sia una sentenza pronunciata dopo la conclusione del giudizio.

La censura è infondata.

2.1. - Anzitutto sono del tutto irrilevanti le sentenze pronunciate successivamente alla conclusione del giudizio di legittimità.

La disposizione dell'art. 395, n. 3, c.p.c. individua come presupposto della revocazione il ritrovamento, dopo la sentenza, di "uno o più documenti decisivi che la parie non aveva potuto produrre in giudizio per causa di forza maggiore o per fatto dell'avversario".

La lettera della legge è chiara nel richiedere che si tratti di documenti che preesistevano alla sentenza della cui revocazione si tratta e che soltanto il loro ritrovamento sia successivo ad essa.

D'altronde, lo stesso impedimento alla produzione nel giudizio concluso con la sentenza della cui revocazione si tratta, individuato dal legislatore nella forza maggiore o nel fatto dell’avversario, in tanto si spiega, in quanto i documenti presi in considerazione fossero già venuti ad esistenza prima o nel corso di quel giudizio, ma essi non fossero nella disponibilità della parte per le ragioni appena dette (Cass. 7 maggio 2014, n. 9865).

Ciò che rileva è il documento, considerato nella sua materialità, non il fatto da esso rappresentato: pertanto, non consente la revocazione ai sensi della norma in questione l’esistenza di documenti formatisi, come nel caso in esame, dopo la sentenza, anche se il fatto in esso rappresentato fosse preesistente e, in sé, decisivo.

L’interpretazione fornita dalla Corte della norma è stata, d’altronde, sempre improntata al principio per il quale "il presupposto della domanda dì revocazione di cui all'art. 395 c.p.c., comma 3, è che il documento decisivo, non potuto produrre in giudizio per causa di forza maggiore o per fatto dell'avversario, preesista alla sentenza impugnata" (così, fra varie, Cass., sez.un., n. 16402/07, ma cfr. anche Cass. n. 10232/10 e Cass. n. 29385/11) e ciò "tenendo conto dell'uso dell'espressione "sono stati trovati" contenuta nel citato n. 3, alla quale fa riscontro il termine recupero adottato nei successivi articoli 396 e 398, ed essendo affatto insufficiente che anteriore alla decisione sia il fatto rappresentato nel documento" (Cass. n. 4610/96, nonché Cass. n. 8859/96). La ratio indicata, che impronta la norma e che risponde all’esigenza di garantire la certezza delle situazioni giuridiche, soprattutto se presidiate dal giudicato, comporta la manifesta infondatezza della questione d’illegittimità costituzionale prospettata.

Al riguardo, la Corte ha già avuto occasione di chiarire (Cass., sez.un., ord. 28 maggio 2013, n. 13181) che la Costituzione non impone al legislatore ordinario altri vincoli che quelli, previsti dall'art 111 Cost., della ricorribilità in cassazione per violazione di legge di tutte le sentenze ed i provvedimenti sulla libertà personale pronunciati dagli organi giurisdizionali ordinari e speciali, e che non appare irrazionale la scelta del legislatore di riconoscere ai motivi di impugnazione per revocazione, net complessivo sistema impugnatorio, una propria specifica funzione, escludendone gli errori di giudizio o valutazione, proponibili, invece, con l'appello e con il ricorso per cassazione (v. Cass. 30245/11, 18897/11, 862/11).

La disciplina tiene anche sul piano della normativa comunitaria: il diritto comunitario, difatti, riconosce la necessità che "le decisioni giurisdizionali divenute definitive dopo l'esaurimento delle vie di ricorso disponibili o dopo la scadenza, dei termini previsti per questi ricorsi non possano più essere rimesse in discussione" e ciò "al fine di garantire sia la stabilità del diritto e dei rapporti giuridici, sia una buona amministrazione della giustizia" (cfr. Corte giust. 3 settembre 2009, in causa C-2/08, Olimpiclub, intervenuta su questione pregiudiziale proposta proprio da questa Corte, e, altresì, Corte giust. 30.9.2003, in causa C-224/01, Kobler; Corte giust. 16 marzo 2006, in causa C-234/04, Kapferer); esso inoltre, in assenza di una normativa dell’Unione in materia, s'ispira al criterio dell'autonomia procedurale degli Stati membri, così rimettendo le modalità di formazione della cosa giudicata e quelle di attuazione del relativo principio alle disposizioni dell'ordinamento giuridico interno di detti Stati, purché esse non siano meno favorevoli di quelle che disciplinano situazioni simili di natura interna -principio di equivalenza-, né siano strutturate in modo da rendere in pratica impossibile o eccessivamente difficile T esercizio dei diritti conferiti dal l’ordinamento giuridico dell’Unione -principio di effettività (Corte giust. 11 novembre 2015, causa C-509/14, Klausner Holz Niedersachsen Gmbh, punto 40 e, nella giurisprudenza interna, tra varie, Cass. 29 luglio 2015, n. 16032; 15 ottobre 2010, n. 25320). Principi di equivalenza e di effettività che non risultano vulnerati dal diritto interno, considerando la previsione di più gradi deputati all’esame di errori di giudizio o di valutazione.

2.2. -Gli altri documenti su cui punta la Cooperativa sono irrilevanti, perché non decisivi per due concomitanti ordini di ragioni.

Anzitutto, ai fini della fattispecie revocatoria di cui all’art. 395, n. 3, c.p.c., il requisito della decisività del documento va escluso nel caso in cui questo non sia, per sua natura, destinato a costituire la prova di un determinato fatto (Cass. 20 dicembre 2011, n. 27832). Fatto che, nel caso in esame, va ravvisato nell’origine del prodotto, condizione di applicazione del regime preferenziale fruito, poi oggetto di revisione e rettifica.

Non sono quindi decisive le sentenze del 2007 e del 2010, le quali si sono limitate ad incidere sull’aspetto formale delle comunicazioni dell’autorità doganale serba di annullamento dei certificati EUR 1 per mancanza di conferma della provenienza dello zucchero, soltanto perché non di comunicazioni si sarebbe dovuto trattare, bensì di provvedimenti, da adottare sotto forma di delibera.

Ciò in quanto il certificato d’origine, così qualificato dal reg. Cee 2 luglio 1993 n. 2454, difatti, costituisce sì titolo di legittimazione per esercitare il diritto di fruizione dello specifico regime doganale previsto in relazione all’origine del prodotto, ma non ha efficacia di "prova legale assoluta" della effettiva origine della merce importata dal paese terzo che ha emesso il certificato, attesa, da un lato, l’assenza di obblighi di controllo in capo al paese terzo e, dall’altro, la possibilità, per il paese importatore, in presenza di ragionevoli dubbi, di contestare l’effettiva origine del prodotto importato e rifiutare, indipendentemente dalla regolarità formale del certificato, l’applicazione dello specifico regime doganale (Cass. 15 marzo 2013, n. 6637; conf., 30 ottobre 2013, n. 24439).

Dalle sentenze in questione, inoltre, non è dato inferire la sussistenza del legittimo affidamento che la Corte di Cassazione con la sentenza impugnata ha escluso e che, invece, la contribuente avrebbe dovuto dimostrare. Basti considerare il quarto comma del paragrafo b) dell’articolo 220 del codice doganale comunitario, secondo cui "la buona fede del debitore può essere invocata qualora questi possa dimostrare che, per la durata delle operazioni commerciali in questione, ha agito con diligenza per assicurarsi che sono state rispettate tutte le condizioni per il trattamento preferenziale". Si tratta, in questo caso, di una diligenza qualificata, da ragguagliare, giusta l’articolo 1176, 2° comma, del codice civile, alla "natura dell'attività esercitata"; e l’esercizio professionale dell’attività d’importatore da parte della società contribuente comporta ineludibilmente che lo sforzo diligente ad essa richiesto si estenda al controllo esigibile dell’esattezza delle informazioni fomite dall’esportatore allo Stato di esportazione (tra varie, Cass. 6 marzo 2013, n. 5531; 19 settembre 2012, n. 15780).

La società non deduce, difatti, che, di là dai vizi formali, le comunicazioni dell’autorità doganale serba fossero inesatte, oppure che, pur essendo esatte le comunicazioni, benché proceduralmente censurabili, essa avesse profuso lo sforzo diligente richiesto dalla norma.

3. -Il ricorso va in conseguenza respinto e le spese seguono la soccombenza.

 

P.Q.M.

 

Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente a rifondere le spese di lite, liquidate in euro 12.000,00 per compensi, oltre alle spese prenotate a debito.