Giurisprudenza - CORTE DI CASSAZIONE - Sentenza 22 aprile 2016, n. 8180

Licenziamento - Aggressione fisica sul lavoro - Diritto di difesa del lavoratore - Termine - Provvedimento disciplinare prima della scadenza dei 5 giorni

 

Svolgimento del fatto

 

1. La Corte d'Appello di Bologna, con la sentenza n. 1178 del 2014, depositata il 12 settembre 2014, decidendo sull'impugnazione proposta da O.N.V., nei confronti della società E. srl, in ordine alla sentenza emessa tra le parti dal Tribunale di Modena, n. 164 del 2014, la rigettava.

2. Il Tribunale di Modena con la suddetta sentenza, emessa ai sensi dell'art. 1, comma 57, della legge n. 92 del 2012, aveva rigettato la domanda del lavoratore di declaratoria di nullità o illegittimità del licenziamento irrogatogli, con condanna del datore di lavoro alla reintegra e al risarcimento dei danni.

3. Per la cassazione della sentenza resa in grado di appello ricorre O.N.V. prospettando sei motivi di ricorso.

4. Resiste la società E. srl con controricorso.

5. Il ricorrente ha depositato memoria in prossimità dell'udienza pubblica. Sempre in prossimità dell'udienza pubblica ha depositato il CCNL di settore.

 

Motivi della decisione

 

1. Il ricorrente, prima di illustrare i motivi di ricorso, ha esposto, in fatto, di essere stato assunto in data 12 gennaio 2004, con contratto a tempo determinato, poi trasformato in tempo indeterminato con decorrenza dall'11 luglio 2004, alle dipendenze della società E. srl, in qualità di operaio di 2° livello, con passaggio al 3° successivamente, con mansioni di "sbavatore da banco a mula". Entrava a far parte della RSU della E. srl in quota FIOM il 12 febbraio 2006.

In data 25 gennaio 2013 la società datrice di lavoro contestava al lavoratore che nella giornata del 25 gennaio 2013 "... Lei in data odierna, alle ore 11, 40 circa, durante l'orario di lavoro ed all'interno dei locali aziendali (nello spogliatoio antecedente ai servizi igienici) veniva sorpreso dal dipendente sig. M.P. (che stava accedendo ai servizi igienici), durante un alterco con il lavoratore sig. F.G., con passaggio alle vie di fatto e violenze. Il sig. P. avvisava immediatamente il capo reparto, sig. L.R. il quale, entrato nello spogliatoio, scongiurava il ricorso ad ulteriori vie di fatto, tenendo Lei ed il sig. F. separati e distanti", e lo sospendeva in via cautelativa.

Esso ricorrente con comunicazione del 26 gennaio 2013, ricevuta il 28 gennaio 2013, forniva le proprie giustificazioni dichiarando di non aver usato alcuna violenza contro il sig. G. F. e di essere stato, piuttosto, lui stesso vittima di una aggressione fisica molto violenta.

La società E. srl, con lettera del 7 febbraio 2013, intimava ad esso lavoratore il licenziamento per giusta causa, con effetto dalla data della contestazione disciplinare, attribuendogli la responsabilità e l'iniziativa dell'alterco.

1.1. Espone il ricorrente che il giorno 25 gennaio 2013, nello svolgimento della propria attività lavorativa alla sbavatrice, veniva colpito all'occhio da una scheggia, che ivi rimaneva, e trovandosi in difficoltà chiedeva aiuto al capo reparto, L.R., il quale gli consigliava di farsi soccorrere da M.P.

Esso ricorrente andava a chiamare il P., il quale rispondeva che lo avrebbe aiutato presso il punto di pronto soccorso, situato vicino alla macchinetta del caffè, dove lo invitava ad andare. Mentre esso lavoratore attendeva l'arrivo del P., presso detto punto di pronto soccorso, veniva raggiunto da G. F., il quale lo aggrediva, prima verbalmente, chiedendogli che cosa stesse facendo gironzolando per il reparto senza lavorare. Esso lavoratore replicava di aver avuto un infortunio e di essere in attesa di collega, addetto al pronto soccorso, che lo potesse aiutare e invitava il sig. F. a non interessarsi della propria presenza in loco, in quanto il rimprovero era del tutto illegittimo. Il F., quindi, lo colpiva con un pugno e una forte spinta, così che esso O. cadeva addosso al P. che era sopravvenuto.

Il F. non cessava il suo comportamento e lo trascinava all'interno dello spogliatoio. Il P., quindi, andava a cercare aiuto dal R..

2. Tanto premesso, sempre in via preliminare, va esaminata l'eccezione di improcedibilità del ricorso per il mancato deposito del testo integrale del CCNL richiamato, nelle censure, dal ricorrente. La stessa deve essere disattesa atteso che ciò che viene in rilievo è l'interpretazione dell'art. 7, comma 5, della legge n. 300 del 1970, effettuata dalla Corte d'Appello, in ragione della quale il giudice di secondo grado conformava l'interpretazione dell'art. 69 del CCNL di analogo contenuto.

3. Con il primo motivo di ricorso è dedotta violazione e falsa applicazione degli artt. 1362, 1363, 1367, 1369 cc, dell'art. 69 del CCNL per i dipendenti dell'industria metalmeccanica - piccola e media industria - del 25 gennaio 2008 (art. 360, n. 3, cpc), per aver interpretato l'art. 69 cit. in palese violazione dei citati artt. 1362, 1363, 1366, 1367, 1369 cc, affermando che il termine per adottare il provvedimento disciplinare decorre dalla scadenza dei 5 giorni concessi al lavoratore per le giustificazioni e non dal momento in cui questi ha pienamente esercitato il proprio diritto di difesa, che può essere precedente la scadenza del termine di 5 giorni, concesso la lavoratore per le giustificazioni.

Ad avviso del ricorrente detto termine doveva decorrere dalla ricezione delle giustificazioni (lunedì 28 gennaio 2013) e, quindi, essendo stato, invece, il licenziamento irrogato (giovedì 7 febbraio 2013), nei cinque giorni dopo la scadenza del termine di cinque giorni per presentare le giustificazioni (condotta contestata venerdì 25 gennaio 2013, con termine di cinque giorni lavorativi per giustificazioni), lo stesso era illegittimo.

Assume il ricorrente, riproponendo l'argomento attraverso più considerazioni dialettiche, che il termine per le giustificazioni attiene al diritto di difesa del lavoratore, per cui, quando quest'ultimo è stato esercitato, non vi sono ragioni per i cui non cominci a decorrere il termine per l'irrogazione del provvedimento espulsivo.

La Corte d'Appello si era limitata a richiamare l'art. 69 del CCNL, violando i criteri interpretativi del contratto, la cui corretta applicazione avrebbe portato a conclusione analoga a quella prospettata con l'odierno motivo di ricorso.

3.1. Il motivo non è fondato e deve essere rigettato.

La Corte d'Appello ha ricordato come l'art. 7, comma 5, della legge n. 300 del 1970, disciplina di riferimento del cd. diritto di difesa, prevede: "In ogni caso, i provvedimenti disciplinari più gravi del rimprovero verbale non possono essere applicati prima che siano trascorsi cinque giorni dalla contestazione per iscritto del fatto che vi ha dato causa".

Thema decidendum è se l'utilizzo da parte del lavoratore di un numero minore di giorni rispetto a quelli a cui ha diritto per offrire le proprie giustificazioni, si riverberi o meno sul termine entro cui deve essere irrogato il licenziamento, di fatto, abbreviandoli.

Questa Corte, con la sentenza a Sezioni Unite n. 3965 del 1994, confermata dalla sentenza a Sezioni Unite n. 6900 del 2003 (cui adde Cass., n. 1884 del 2012), ha affermato il principio secondo cui il termine di cinque giorni dalla contestazione dell'addebito, prima della cui scadenza è preclusa, ai sensi dell'art. 7, comma 5 della legge 20 maggio 1970, n. 300, la possibilità di irrogazione della sanzione disciplinare, ivi compreso il licenziamento, è funzionale soltanto ad esigenze di tutela dell'incolpato, in quanto tende ad impedire, in quest’ultimo caso, che la sua estromissione dal luogo di lavoro possa avvenire senza che egli abbia avuto la possibilità di raccogliere e fornire le prove e gli argomenti a propria difesa. Ne consegue che, ove il lavoratore abbia fornito le sue giustificazioni prima della scadenza suddetta, senza manifestare alcuna esplicita riserva di ulteriori produzioni documentali o motivazioni difensive, nulla più osta qualora il datore di lavoro ritenga di doversi in tal senso determinare, all'immediata irrogazione della sanzione, senza che sia, a tal fine, necessario attendere il decorso della residua parte del termine.

Le Sezioni Unite hanno rilevato che il termine in questione non rientra propriamente nella categoria dei termini ne ante quem, ma in quella dei termini post quem, rivolta cioè non ad impedire che un determinato atto sia compiuto prima del decorso di un dato tempo, ma ad impedire che ciò avvenga senza che una determinata attività sia stata possibile, e, pertanto, soltanto al compimento della stessa.

Ciò si desume dalla ratio della disposizione, che è rivolta ad impedire che la irrogazione della sanzione possa avvenire senza che l'incolpato abbia avuto la possibilità di raccogliere e di fornire le prove e gli argomenti a propria giustificazione: il valore che si intende tutelale non è l'esistenza, in sé e per sé, di un intervallo di tempo tra contestazione ed irrogazione, ma di tempo massimo che si ritiene presuntivamente idoneo a consentire le difese.

Pertanto, come correttamente ritenuto dalla Corte d'Appello, la possibilità per il datore di lavoro di irrogare il licenziamento anche prima della scadenza del termine di cinque giorni, non costituisce per lo stesso un obbligo, attesa la presenza di un termine fisso e non mobile nella previsione contrattuale.

Tale regola iuris conforma l'interpretazione dell'art. 69 del CCNL richiamato dal ricorrente, che a sua volta, prevede che il provvedimento disciplinare deve essere comminato entro cinque giorni lavorativi dalla scadenza del termine assegnato per le giustificazioni che non può essere inferiore a cinque giorni lavorativi.

4. Con il secondo motivo di ricorso, è dedotto omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio oggetto di discussione ex art. 360, n. 5, cpc, costituito dall'asserito incontro in data 4 febbraio 2014, ritenuto comprovato dal giudice di prima istanza in quanto non contestato, ma non esaminato dal giudice di appello.

Il giudice di primo grado aveva ritenuto come ammessa, in quanto non contestata, una asserita, ma in effetti insussistente, richiesta del lavoratore di un incontro per fornire ulteriori giustificazioni in data 4 febbraio 2012, per cui decorrerebbe, comunque, dalla data di detto incontro, il termine per l'applicazione del provvedimento disciplinare.

Il giudice di secondo grado non aveva esaminato tale punto, ritenendo esaustiva e, comunque, assorbente la propria interpretazione dell'art. 69 del CCNL, senza fornire, però, alcuna motivazione sul punto, per cui la motivazione deve ritenersi insussistente. Il ricorrente, quindi, espone di non aver mai chiesto o partecipato a un incontro per fornire ulteriori giustificazioni, come era stato dedotto dall' avversa difesa.

4.1. Il motivo è inammissibile.

In primo luogo, in ragione del rigetto del primo motivo di ricorso, lo stesso è privo di decisività.

In secondo luogo, occorre rilevare che la sentenza di appello impugnata è stata pubblicata dopo rii settembre 2012.

Trova dunque applicazione il nuovo testo dell'art. 360 cpc, comma 1, n. 5, come sostituito dal decreto-legge 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, comma 1, lettera b), convertito, con modificazioni, nella legge 7 agosto 2012, n. 134, il quale prevede che la sentenza può essere impugnata per cassazione "per omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti". A norma dell'art. 54, comma 3, del medesimo decreto, tale disposizione si applica alle sentenze pubblicate dal trentesimo giorno successivo a quello di entrata in vigore della legge di conversione (pubblicata sulla G.U. n. 187 dell'11 agosto 2012).

Nel sistema l'intervento di modifica dell'art. 360 cpc, comma 1, n. 5 come recentemente interpretato dalle Sezioni Unite di questa Corte, comporta un'ulteriore sensibile restrizione dell'ambito di controllo, in sede di legittimità, sulla motivazione di fatto.

Con la sentenza del 7 aprile 2014 n. 8053, le Sezioni Unite hanno chiarito che la riformulazione dell'art. 360 cpc, comma 1, n. 5, disposta dal d.l. n. 83 del 2012, art. 54 convertito dalla legge n. 134 del 2012, deve essere interpretata, alla luce dei canoni ermeneutici dettati dall'art. 12 preleggi, come riduzione al "minimo costituzionale" del sindacato di legittimità sulla motivazione.

Pertanto, è denunciabile in cassazione solo l'anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all'esistenza della motivazione in sé, purché il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali. Tale anomalia si esaurisce nella "mancanza assoluta di motivi sotto l'aspetto materiale e grafico", nella "motivazione apparente", nel "contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili" e nella "motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile", esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di "sufficienza" della motivazione.

Nella specie, la censura non è sussumibile nella disciplina novellata sopra richiamata, atteso che, come assume lo stesso ricorrente, la Corte d'Appello non esaminava la doglianza circa l'insussistenza di un ulteriore incontro per fornire giustificazioni, in ragione del carattere assorbente ed esaustivo dell'interpretazione della disciplina del termine per l'irrogazione del licenziamento.

5. Con il terzo motivo di ricorso è dedotta la violazione e falsa applicazione dell'art. 246 cpc (art. 360, n. 3), avendo la Corte d'Appello ritenuto il teste G. F. capace di deporre ai sensi del citato art. 246 cpc, quando invece lo stesso era incapace ai sensi della medesima norma essendo legittimato a partecipare al giudizio sia come interventore principale sia come interventore ad adiuvandum, e comunque, vi sarebbe stata mancanza di motivazione su questo punto.

Assume il ricorrente che in ragione della disciplina della incapacità a testimoniare, il F. non poteva essere assunto quale teste, in quanto quest'ultimo in data 25 gennaio 2013 aveva presentato nei confronti di esso lavoratore una denuncia querela nella quale asseriva che quando si erano svolte le vicende che avevano dato luogo al licenziamento, aveva ricevuto un pugno al volto da parte di O.. In ragione di tale denuncia querela il F. poteva intervenire nel giudizio in via principale, per il risarcimento del danno subito, o ad adiuvandum, poiché sulla circostanza oggetto della querela la società datrice di lavoro aveva fondato il licenziamento.

D'altro canto l'attendibilità del teste doveva ritenersi nulla, atteso che lo stesso non potrebbe che confermare quanto oggetto della denuncia.

5.1. Nel richiamare quanto già esposto circa la nuova disciplina dell'art. 360, n. 5, cpc, che rende inammissibile la generica censura svolta di vizio di motivazione, il Collegio rileva che il motivo, per le restanti doglianze, non è fondato.

La Corte d'Appello ha posto in evidenza come il F. non fosse titolare dì alcun interesse giuridico (e non fattuale) che avrebbe legittimato la sua partecipazione al giudizio, determinandone l'incapacità a testimoniare. Né può rilevare in proposito la presentazione di querela.

La correttezza della statuizione della Corte d'Appello trova conferma nella recente sentenza di questa Corte n. 21418 del 2015, che ribadisce come secondo la giurisprudenza di legittimità l’interesse che determina l’incapacità a testimoniare, ai sensi dell’art. 246 cpc, è solo quello giuridico, personale, concreto ed attuale, che comporta o una legittimazione principale a proporre l’azione ovvero una legittimazione secondaria ad intervenire in un giudizio già proposto da altri cointeressati.

Tale interesse non si identifica con l’interesse di mero fatto, che un testimone può avere a che venga decisa in un certo modo la controversia in cui esso sia stato chiamato a deporre, pendente fra altre parti, ma identica a quella vertente tra lui ed un altro soggetto ed anche se quest'ultimo sia, a sua volta, parte del giudizio in cui la deposizione deve essere resa. Neanche l'eventuale riunione delle cause connesse (per identità di questioni) può fare insorgere l'incapacità delle rispettive parti a rendersi reciproca testimonianza, potendo tale situazione soltanto incidere sulla attendibilità delle relative disposizioni (tra le altre, cfr. altresì, Cass. n. 11034 del 2006; Cass. n. 9650 del 2003; Cass. n. 2618 del 1999; Cass. n. 32 del 1994; Cass. n. 6932 del 1987).

Come chiarito da Cass., n. 11314 del 2010, l’incapacità a testimoniare di cui all’art. 246 cpc è correlabile soltanto ad un diretto coinvolgimento della persona chiamata a deporre nel rapporto controverso, tale da legittimare una sua assunzione della qualità di parte in senso sostanziale o processuale nel giudizio, e non già alla ravvisata sussistenza di un qualche interesse di detta persona in relazione a situazioni ed a rapporti diversi da quello oggetto della vertenza, anche in qualche modo connessi (cfr. anche Cass. 3051 del 2011, secondo cui l'art. 246 cpc ricollega l’incapacità a testimoniare, come affermato dalla Corte Cost. nelle sentenze n. 248 del 1974, n. 62 del 1995 e nell’ordinanza n. 143 del 2009, non solo alla posizione di parte formale o sostanziale del giudizio, ma anche alla titolarità di situazione giuridica dipendente da quella dedotta in giudizio da altro soggetto).

Nella specie, in ragione dei richiamati principi di legittimità, atteso che il presente giudizio verte tra il lavoratore e il datore di lavoro ed ha ad oggetto l'impugnazione del licenziamento, non può trovare applicazione con riguardo al F. l'art. 246 cpc, non ravvisandosi in capo allo stesso un interesse giuridico alla partecipazione al giudizio.

Inoltre, come ricordato nella citata sentenza n. 21418 del 2015, la nullità della testimonianza resa da persona incapace deve essere eccepita subito dopo l’espletamento della prova, ai sensi dell'art. 157 cpc, comma 2, (salvo il caso in cui il procuratore della parte interessata non sia stato presente all'assunzione del mezzo istruttorio, nella quale ipotesi la nullità può essere eccepita nell'udienza successiva), sicché, in mancanza di tale tempestiva eccezione, la nullità deve intendersi sanata (in tal senso, tra le tante, Cass. n. 16116 del 2003; Cass. n. 6555 del 2005; Cass. n. 403 del 2006), senza che la preventiva eccezione d'incapacità a testimoniare, proposta a norma dell'art. 246 cpc, possa ritenersi comprensiva dell'eccezione di nullità delle testimonianze comunque ammesse ed assunte nonostante quella previa opposizione (Cass. n. 9553 del 2002 e Cass. n. 15308 del 2004).

Alla stregua di tale principio, parte ricorrente avrebbe dovuto dedurre e dimostrare di avere eccepito la nullità delle contrastate deposizioni testimoniali all'atto stesso della loro assunzione (o immediatamente dopo) (Cass. n. 8358 del 2007; più di recente: Cass. n. 17713 del 2013), senza limitarsi ad invocare la peraltro inesistente violazione dell'art. 246 cpc.

6. Con il quarto motivo di ricorso è dedotta violazione e falsa applicazione dell'art. 252, primo comma, cpc, in materia di identificazione dei testimoni non avendo il testimone G. F. risposto alla richiesta del giudicante se aveva rapporti di parentela, affinità, affiliazione o dipendenza con alcune delle parti o interessi in causa.

Ad avviso del ricorrente ferma l'incapacità a deporre del F., era evidente l'inattendibilità dello stesso, in ragione dei principi enunciati in materia dal giudice di legittimità.

Il F. era lavoratore dipendente, in qualità di lavoratore somministrato, della E. srl, ed era il cognato di un componente della famiglia che aveva l'intera titolarità delle quote sociali della E. srl.

Pertanto, il F. aveva interesse a compiacere la società sia per divenire dipendente a tempo indeterminato, sia per il rapporto di affinità, nonché in quanto presentatore di denuncia - querela nei confronti dell'O.

6.1. Il motivo è inammissibile.

Occorre precisare che, benché nella rubrica si deduce la lesione dell'art. 252, comma 1 cpc, nell’esposizione del motivo ci si duole della ritenuta attendibilità del teste F.

Tanto precisato occorre rilevare che (Cass. n. 16529 del 2004) la valutazione in ordine all'attendibilità di un teste deve avvenire soprattutto in relazione, al contenuto della dichiarazione e non aprioristicamente per categorie, in quanto in quest'ultima ipotesi il giudizio sull'attendibilità sfocerebbe impropriamente in quello sulla capacità a testimoniare in rapporto a categorie di soggetti che sarebbero, di per sé, inidonei a fornire una valida testimonianza, laddove la capacità a testimoniare differisce dalla valutazione sull'attendibilità del teste, operando su piani diversi, atteso che l'una, ai sensi dell'art. 246 cod. proc. civ., dipende dalla presenza in un interesse giuridico (non di mero fatto) che potrebbe legittimare la partecipazione del teste al giudizio, mentre la seconda afferisce alla veridicità della deposizione che il giudice deve discrezionalmente valutare alla stregua di elementi di natura oggettiva (la precisione e completezza delle dichiarazione, le possibili contraddizioni, ecc.) e di carattere soggettivo (la credibilità della dichiarazione in relazione alle qualità personali, ai rapporti con le parti ed anche all'eventuale interesse ad un determinato esito della lite (Cass. 21.8.2004 n. 16529).

Inoltre, un tale apprezzamento compete al giudice del merito e non è censurabile in sede di legittimità se congruamente motivato. Ed infatti la valutazione delle risultanze delle prove ed il giudizio sull' attendibilità dei testi, come la scelta, tra le varie risultanze probatorie, di quelle ritenute più idonee a sorreggere la motivazione, involgono apprezzamenti di fatto riservati al giudice di merito, il quale è libero di attingere il proprio convincimento da quelle prove che ritenga più attendibili (cfr., Cass., n. 11511 del 2014).

Nella specie, tuttavia, la Corte d'Appello pur escludendo l'incapacità a testimoniare del F., ha affermato che ove pure si fosse dovuto giudicare inattendibile il F., l'accaduto, sulla base degli ulteriori elementi di prova, doveva essere ricostruito comunque nel modo in cui risultava dalla sentenza del Tribunale.

Quindi, il ricorrente nell'esporre le ragioni di inattendibilità della deposizione del F., non coglie la ratio deciderteli della pronuncia di appello, che prescinde dalla testimonianza di quest'ultimo, e fonda la propria decisione sulla deposizione del teste P. e del teste R.

7. Con il quinto motivo di ricorso è dedotta violazione o falsa applicazione degli artt. 2727 e 2729 cc, ex art. 360, n. 3, cc, e conseguente inesistenza della motivazione o presenza di una motivazione, comunque, solo apparente. Ciò sia con riguardo all'esame delle prove testimoniali che con riguardo all'esame delle presunzioni semplici.

Il licenziamento in questione era illegittimo, non essendo assistito da giusta causa o da giustificato motivo soggettivo, poiché esso ricorrente non aveva posto in essere i fatti addebitatigli, in quanto era stato aggredito dal F. senza ragione.

Quest'ultimo lo aveva colpito, facendolo cedere a terra e lo aveva trascinato sul pavimento fino allo spogliatoio, come risultava dalle testimonianze rese dai testi P. e R..

Il ricorrente dopo aver richiamato i principi enunciati dal giudice di legittimità in materia, nel ripercorrere gli accadimenti, inframmezzando frasi estrapolate dalle testimonianze, assume che la discussione intervenuta tra esso lavoratore e il F., che lo spingeva a terra, non poteva costituire presunzione della circostanza che esso O. avesse dato un pugno al F.; né era stato accertato quando e come il F. si fosse procurato la tumefazione all'occhio; né la circostanza che tale tumefazione si fosse "materializzata" solo dopo la discussione con l'O., portava a ritenere che fosse stato quest'ultimo a sferrare il pugno. Il ricorrente prospettava, quindi, proprie ricostruzioni presuntive degli eventi contrapposte a quella della Corte d'Appello.

Il ricorrente deduce che l'unico testimone dei fatti M.P. aveva confermato una dinamica degli stessi che vedeva l'O. aggredito dal F. ed in particolare: che il F. era già presente alla macchinetta del caffè e chiedeva all'O. cosa stava facendo; che il F. aveva spinto indietro l'O., con una spinta abbastanza forte che determinava una caduta; che il F. dopo la caduta trascinava l'O. nello spogliatoio. Il teste R. riferiva che l'O. era a terra cosciente e non aveva segni di lesione sul corpo, era impaurito o, forse, solo meravigliato di quello che era successo.

Pertanto, mentre dalle risultanze testimoniali emergeva che l'O. aveva subito violenza dal F., e non viceversa, i giudici del merito ricavavano la prova di un comportamento violento del ricorrente da presunzioni semplici, di cui agli artt. 2727 e 2729 cc, del tutto prive dei requisiti della gravità, della precisione e della concordanza.

7.1. Il motivo non è fondato.

Occorre rilevare che la censura relativa alla mancanza di giusta causa si sostanzia nella censura della valutazione delle risultanze istruttorie effettuata dal giudice di merito, escludendo il ricorrente che fosse risultata provata la condotta ascrittagli posta a fondamento del licenziamento.

La sentenza è, dunque, impugnata in ordine alla valutazione delle prove per testi e delle risultanze istruttorie come operata dal giudice di merito, nonché alle circostanze ritenute in via presuntiva.

Va, in proposito, sottolineato che l'esame dei documenti esibiti e delle deposizione dei testimoni, nonché la valutazione dei documenti e delle risultanze della prova testimoniale, il giudizio sull'attendibilità dei testi e sulla credibilità di alcuni invece che di altri, come la scelta, tra le varie risultanze probatorie, di quelle ritenute più idonee a sorreggere la motivazione, involgono apprezzamenti di fatto riservati al giudice del merito, il quale, nel porre a fondamento della propria decisione una fonte di prova con esclusione di altre, non incontra altro limite che quello di indicare le ragioni del proprio convincimento, senza essere tenuto a discutere ogni singolo elemento o a confutare tutte le deduzioni difensive, dovendo ritenersi implicitamente disattesi tutti i rilievi e circostanze che, sebbene non menzionati specificamente, sono logicamente incompatibili con la decisione adottata.

Nella specie, la Corte d'Appello ha escluso che l'O. potesse avere colpito il F. dopo aver ricevuto la spinta e non un pugno da quest'ultimo, atteso che era caduto a terra investendo anche il P. così sospinto nello spogliatoio; ha rilevato che l'occhio tumefatto del F., che lo bagnava presso il lavandino, rimproverando l'O. e nel silenzio di questi, notato dal P. uscendo dallo spogliatoio nell'immediatezza dei fatti, era ragionevole conseguenza della condotta dell'O. o prima di aver ricevuto la spinta o in contemporanea con essa; ha affermato che non era dirimente la circostanza che l'O. avesse una scheggia nell'occhio, poiché il P. riferiva che al proprio arrivo agli spogliatoi i due stavano discutendo e non faceva cenno a condizioni di particolare malessere o incapacità dell'O.; non vi era alcun dato che potesse far ricondurre la tumefazione del F. ad un momento anteriore al litigio.

Tali statuizioni si fondano su fatti, come provati all'esito delle prove testimoniali, e si avvalgono di argomentazioni logiche e presunzioni che non sono incise dalle suddette censure.

Quest'ultime, peraltro, riportano solo alcuni stralci delle risultanze testimoniali, così ledendo il principio di autosufficienza del motivo, e non contestano in modo specifico le circostanze in fatto riferite dai testi come riportate nella sentenza, ma contrappongono alla complessiva e congrua ricostruzione della vicenda effettuata dal giudice di secondo grado, anche in ragione della prova presuntiva, una propria prospettazione.

Come questa Corte ha già avuto modo di affermare (Cass. 2632 del 2014), da un lato, per la configurazione di una presunzione giuridicamente valida non occorre che l'esistenza del fatto ignoto rappresenti l'unica conseguenza possibile di quello noto, secondo un legame di necessarietà assoluta ed esclusiva (sulla scorta della regola della inferenza necessaria), ma è sufficiente che dal fatto noto sia desumibile univocamente quello ignoto, alla stregua di un giudizio di probabilità basato sull' "id quod plerumque accidit" (in virtù della regola dell’inferenza probabilistica), sicché il giudice può trarre il suo libero convincimento dall'apprezzamento discrezionale degli elementi indiziari prescelti, purché dotati dei requisiti legali della gravità, precisione e concordanza, mentre è da escludere che possa attribuirsi valore probatorio ad una presunzione fondata su dati meramente ipotetici; dall'altro, la valutazione della prova presuntiva esige che il giudice di merito esamini tutti gli indizi di cui disponga non già considerandoli isolatamente, ma valutandoli complessivamente ed alla luce l’uno dell'altro, senza negare valore ad uno o più di essi sol perché equivoci, così da stabilire se sia comunque possibile ritenere accettabilmente probabile l'esistenza del fatto da provare (Cass., n. 5787 del 2014).

A tali principi si è attenuta la Corte d'Appello laddove ha ritenuto provata la condotta contestata disciplinarmente al lavoratore.

8. Con il sesto motivo di ricorso è prospettato il vizio di violazione o falsa applicazione di norme di diritto, art. 132 n. 4, cpc, ai sensi dell'art. 360, n. 3, cpc, ovvero omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio oggetto di discussione fra le parti ai sensi dell'art. 360, n. 5, cpc, non avendo in alcun modo motivato le ragioni di fatto e di diritto della decisione in ordine al carattere sproporzionato della sanzione applicata. La Corte d'Appello, ritenendo che le vie di fatto erano state significative e tali da creare scompiglio in azienda, richiedendo l'intervento di altro personale per tenere separati i due lavoratori, non avrebbe effettuato un esame approfondito della fattispecie concreta. Se ciò avesse fatto, avrebbe rilevato che il licenziamento per un comportamento provocato da altri o posto in essere per difendersi da altri era sproporzionata.

8.1. Anche con riguardo al suddetto motivo occorre richiamare quanto già affermato in ordine al novellato art. 360, n. 5, cpc, palesandosi con riguardo al vizio di motivazione, per come formulato, l'inammissibilità dello stesso.

Per la restante censura il motivo non è fondato.

Occorre premettere che il ricorrente non contesta l'interpretazione del CCNL di settore effettuata dalla Corte d'Appello. Quest'ultima, nel ritenere legittima la sanzione espulsiva ha richiamato le previsioni del CCNL, statuendo che la valutazione di gravità operata dallo stesso si attagliava perfettamente al caso di specie.

La Corte d'Appello, comunque, in aderenza al principio secondo il quale anche se la disciplina collettiva preveda un determinato comportamento come giusta causa o giustificato motivo soggettivo di recesso, il giudice investito dell'impugnativa della legittimità del licenziamento deve comunque verificare l'effettiva gravità della condotta addebitata al lavoratore (Cass., n. 21633 del 2013), correttamente ha effettuato, con motivazione congrua che si sottrae censura, tale verifica, rilevando, in particolare che le circostanze di fatto, che ripercorre, escludevano una legittima difesa, che non erano emersi elementi processuali atti a suffragare una provocazione, che eventuali precedenti contrasti tra i due lavoratori avrebbero dovuto indurre a un maggiore controllo delle reazioni, che le vie di fatto erano significative creando scompiglio e rendendo necessario l'intervento di altri lavoratori.

9. Il ricorso deve essere rigettato.

10. Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate come in dispositivo.

11. Ai sensi dell'art. 13, comma 1 - quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, si dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1 -bis, dello stesso articolo 13.

 

P.Q.M.

 

Rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento delle spese di giudizio che liquida in euro tremilacinquecento per compensi professionali, oltre euro cento per esborsi, oltre spese generali nella misura del 15 per cento e accessori di legge.

Ai sensi dell'art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, si dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1 - bis, dello stesso articolo 13.