Giurisprudenza - CORTE DI CASSAZIONE - Sentenza 22 aprile 2016, n. 8130

Tributi - Imposte sui redditi - Determinazione dei redditi di impresa

 

Svolgimento del processo

 

1. Sulla base delle risultanze di un p.v.c. redatto in data 31/3/2008 dalla Guardia di Finanza di Pesaro, all'esito di una verifica fiscale presso la sede in Pennabill) (Rimini) della V.I. S.p.A., l'Agenzia delle entrate, Ufficio di Pesaro, notificava a quest'ultima distinti avvisi di accertamento con i quali provvedeva a rettifica, ai fini Irpeg (dal 2004 Ires) e Irap, dei redditi dichiarati per gli anni 2003, 2004, 2005 e 2006, per la ritenuta indeduclbilità dei costi e componenti negativi di reddito qui dì seguito sinteticamente indicati:

i) in relazione a tutti e quattro gli anni predetti, era esclusa, ai sensi dell'art. 110, comma 7, T.U.I.R., la deducibilità - per la parte eccedente il valore normale commisurato nel 2% dei fatturato - dei costi (pari a € 443.691,69 per l'anno 2003; € 936.597,50 per l'anno 2004; € 893.191,58 per l'anno 2005; € 1. 561.182,80 per l'anno 2006) per «prestazioni di servizi infragruppo» rese da V. S.A. con sede in Serravalle (Repubblica di San Marino), avendo l'ufficio ritenuto configurabile nella fattispecie l'ipotesi da detta norma prevista del c.d. transfer pricing;

ii) con riferimento agli anni di imposta 2005 e 2006 l'ufficio riteneva inoltre illegittima la deduzione di costi per «consulenze tecniche» pari, rispettivamente, a € 47.066,67 e a € 85.723,33, in quanto riconducibili a quelli incrementativi del valore delle Immobilizzazioni immateriali {software), deducibili, ai sensi dell’art. 103 T.U.I.R., in misura non superiore a un terzo del costo;

iii) con riferimento poi al solo anno di imposta 2006 l'ufficio escludeva, ai sensi dell'art. 102, comma 6, T.U.I.R., la deducibiiità delle «spese di manutenzione, riparazione, ammodernamento e trasformazione» per la parte eccedente il 5% del costo complessivo di tutti i beni materiali ammortizzabili;

iv) in relazione allo stesso anno d'imposta era infine esclusa la deducibiiità dei costi per sopravvenienze passive per un ammontare di € 1.282.207,28, in quanto imputabili, ai sensi dell'art. 109, comma 1, T.U.I.R., per il principio di competenza, all'esercizio successivo.

I ricorsi avverso detti avvisi separatamente proposti dalla società - con i quali essa contestava la fondatezza di ciascuno dei suindicati rilievi oltreché la legittimità e l'omessa motivazione dell'aumento della sanzione applicabile per l'anno 2005 - erano respinti dalla adita C.T.P. di Pesaro con altrettante sentenze depositate tra il 6/3/2009 e il 7/4/2010.

2. I gravami separatamente interposti, con i quali la società iterava le medesime contestazioni, erano poi rigettati, previa riunione, dalla C.T.R. della Marche, con sentenza n. 71/7/2012 depositata in data 22/5/2012.

2.1. In particolare, quanto ai costi sostenuti per prestazioni rese dalia società sanmarinese V. S.A., riteneva ia C.T.R. legittima la riconduzione delle transazioni al fenomeno del transfer pricing, reputando sussistenti nella fattispecie entrambi i presupposti richiesti dall'art. 110, comma 7, T.U.I.R. e, segnatamente, sta l'esistenza di una situazione di controllo societario (nel caso di specie esercitato dalla società estera), sia il superamento del valore normale delle prestazioni rese (determinato ai sensi dell'art. 9 del medesimo Testo Unico).

2.1.1. Sotto il primo profilo, richiamata la circolare del Ministero delle Finanze n. 32/1980, reputava la C.T.R. non vincolante, ai finì in esame, la nozione civilistica di controllo societario quale dettata dall'art. 2359 cod. civ. e che, piuttosto, avuto riguardo alte finalità della norma fiscale - tesa a contrastare il trasferimento degli utili da paesi ad elevata fiscalità a paesi nei quali la pressione fiscale è meno aggressiva, ricorrendo a valori (prezzi) alterati rispetto a quelli normali e determinati nell'ambito di transazioni infragruppo - essa postulasse un più ampio concetto di controllo nel quale ben poteva essere ricondotto il caso di specie.

Valorizzava in tal senso il fatto che, per espressa previsione contrattuale, la contribuente, priva di per sé di alcuna struttura commerciale, aveva affidato alla società estera, titolare del 24% del capitale della prima, l'Incarico di provvedere in esclusiva alla commercializzazione dei propri prodotti, risultando con ciò realizzata l'ipotesi contemplata nella citata interpretazione ministeriale che, fra le circostanze ritenute sintomatiche dell'influenza anche solo potenziale di una società sulle decisioni imprenditoriali di altra società, indica anche la vendita di prodotti fabbricati dall'altra impresa e l'impossibilità di funzionamento dell'impresa senza il capitale, i prodotti e la cooperazione dell'altra.

2.1.2. Quanto poi al presupposto oggettivo (eccedenza dei costi dichiarati rispetto al valore normale delle prestazioni rese) la C.T.R. respingeva (a tesi difensiva secondo cui i dati messi a confronto dal l'ufficio erano eterogenei e non erano pertanto idonei a giustificare la valutazione di anormalità della provvigione riconosciuta alla società estera nella percentuale del 10% del fatturato.

Osservava al contrario che quelle prese a raffronto (contratti di commercializzazione tra V. S.a. e la società siriana A.T., e tra V. S.A. e R. S.p.a.) erano transazioni fra loro certamente comparabili In quanto attinenti alla commercializzazione di prodotti farmaceutici e che la fatturazione da parte di A.T. S.p.a. di commissioni di extra o over price non poteva concorrere alla comparazione riguardando essa prestazioni ulteriori.

Quanto infine alla commisurazione del valore normale delle prestazioni in questione, la C.T.R. reputava corretto il riferimento da parte dell'ufficio alla percentuale del 2% a tal fine indicata nella circolare ministeriale quale parametro utilizzabile per le cessioni di beni immateriati, atteso che nel p.v.c. si dava atto che la provvigione pattuita tra V.I. e V.S.A. era qualificata anche come royalty e considerato che, comunque, la detta percentuale non appariva irragionevole o Incoerente.

3. Avverso tale decisione propone ricorso per cassazione la V.I. sulla base di sette motivi; resiste l'Agenzia delle entrate depositando controricorso.

La società ha depositato «memoria e contestuale istanza per la sollecita fissazione dell'udienza».

 

Motivi della decisione

 

4. Con il primo motivo la società ricorrente deduce - ai sensi dell’art. 360, comma primo n. 3, cod. proc. civ. - violazione o falsa applicazione dell'art. 110, comma 7, T.U.I.R. in relazione alla ritenuta sussistenza dei presupposti soggettivi richiesti per l'applicazione della disciplina sul c.d. transfer pricing.

Sostiene al riguardo che, benché la norma del testo unico non richiami espressamente l'art. 2359 cod. civ., la nozione di controllo cui essa fa riferimento debba da quest'ultima comunque desumersi e che di contro nessun rilievo possa attribuirsi alla Interpretazione ministeriale di cui alla circolare n. 32 del 22 settembre 1980, anche perché condizionata dalla diversa indicazione normativa allora esistente che richiedeva al riguardo l'esistenza di una «influenza dominante», presupposto poi sostituito da quello del controllo societario. Rileva quindi che nel caso di specie non sussiste alcuna delle condizioni richieste dalla norma codicistica per ia configurabilità di una situazione di controllo.

Soggiunge che, comunque, diversamente da quanto affermato nella sentenza impugnata, essa ricorrente aveva fatto riferimento anche alla sopra citata circolare per contestare la sussistenza nella specie di alcuna delle situazioni sintomatiche di controllo societario in essa considerate. Rileva al riguardo che la stessa agenzia aveva nel caso di specie espressamente riconosciuto l'indipendenza di V.I. rispetto a V.S.A.

5. Con il secondo motivo di ricorso la V.I. deduce - ai sensi dell'art. 360, comma primo n. 3, cod. proc. civ. - violazione o falsa applicazione dell’art. 110, comma 7, T.U.I.R. in relazione alla ritenuta sussistenza dei presupposti oggettivi richiesti per l'applicazione della disciplina suddetta.

Lamenta che i giudici di secondo grado; non hanno correttamente valutato che i contratti presi a raffronto, stipulati dalla consociata V.S.A. con i singoli clienti, attengono a transazioni differenti e non sovrapponibili all'accordo commerciale concluso nel 2002 con V.I. (in particolare, mentre il contratto tra R. S.p.a. e V.S.A. aveva ad oggetto i trasferimenti a M.G. delle registrazioni relative ad un dato prodotto, quello concluso tra V.I. e V.S.A. concerneva la fornitura a M.G. di un prodotto medicinale diverso); hanno omesso di rilevare gli errori di valutazione commessi dall'ufficio nella individuazione della natura delle prestazioni oggetto dell'accordo predetto, ritenendo che lo stesso afferisse a cessioni di beni immateriali per le quali la V.I. avrebbe dovuto corrispondere a V.S.A. delle royalties (come tali regolabili sulla base delle indicazioni contenute net capitolo V - punto 6 della menzionata circolare n. 32 del 1980) e non considerando che invece tale accordo aveva ad oggetto una specifica attività di procacciamento di affari svolta da V.S.A. in favore di V.I. (come tale regolabile secondo te indicazioni contenute nel capitolo Vi - servizi infragruppo - della medesima circolare); non hanno valutato che, in ogni caso, le percentuali applicate nei confronti di A.T. e R. S.p.a. dovevano essere sommate, ai fini della predetta comparazione, a quelle relative ai compensi corrisposti a titolo di extra o over price, dal che sarebbe emerso la piena comparabilità dei prezzi praticati.

6. Con il terzo motivo di ricorso la V.I. deduce - ai sensi dell’art. 360, comma primo n. 3, cod. proc. civ. - violazione o falsa applicazione dell’art. 112 cod. proc. civ. e del principio di tipicità dell'avviso di accertamento, per avere la C.T.R, respinto la censura con la quale, nell'atto d'appello, si denunciava vizio di ultra petizione della sentenza appellata per avere i giudici di primo grado fondato il proprio convincimento su fatti diversi rispetto a quelli posti a base degli avvisi di accertamento e segnatamente sul difetto dei requisiti di inerenza e di certezza dei costi, oltre che di contiguità degli stessi.

7. Con il quarto motivo di ricorso la V.I. deduce - ai sensi dell'art. 360, comma primo n. 3, cod. proc. civ. - violazione o falsa applicazione dell'art. 103 T.U.I.R. in relazione alla confermata valutazione degli interventi di consulenza tecnica sul software aziendale eseguiti negli anni 2005 e 2006 alla stregua di «migliorie tese all'aumento significativo dell'utilità del software» e alla ritenuta conseguente deducibilità dei costi relativi in quote annuali costanti pari ad un terzo del costo complessivo, a fronte dell’opposta tesi difensiva secondo cui si era trattato invece di interventi unicamente finalizzati a mantenere l'utilità medesima offerta da! software di base e come tali da considerarsi quali spese correnti, in quanto ripetitive da un esercizio all'altro, e quindi componenti negativi di reddito interamente deducibili nell’esercizio in cui essi vengono sostenuti.

Richiamati i principi contabili nazionali e internazionali rileva la ricorrente che le prestazioni contrattualmente previste dalle parti non prevedevano significativi miglioramenti del software originariamente acquistato (S.A.P. e D.O.).

8. Con il quinto motivo la ricorrente deduce - sempre ai sensi dell'art. 360, comma primo n. 3, cod. proc. civ. - violazione o falsa applicazione dell'art. 12, comma 5, d.lgs. 18 dicembre 1997, n. 472, In relazione alta ritenuta legittimità dell'applicazione di una sanzione aumentata del 75% su quella base applicabile, nel caso di concorso di violazioni e continuazione.

Premesso che tale aumento era motivato, nell'avviso di accertamento relativo all'anno 2005, oltre che in ragione della applicazione del cumulo giuridico delle sanzioni irrogabili per le violazioni contestate con riferimento anche agli anni precedenti (2003 e 2004) e della rilevanza degli importi accertati, anche con il rilievo che la società aveva posto in essere un comportamento artificioso, lamenta che i giudici d'appello, nel respingere la censura proposta sul punto specifico, hanno omesso di indicare quale sia stato il comportamento artificioso a tal fine valorizzarle.

Osserva al riguardo che, posto che negli avvisi di accertamento relativi ai precedenti anni l'ufficio non ha operato alcun aumento della sanzione base, quello applicato nell'avviso relativo all'anno 2005 deve presumersi riferito al solo ulteriore rilievo ivi contenuto concernente la deduzione dei costi sostenuti per consulenze tecniche: rilievo, questo, per il quale - assume - non si giustifica la valutazione in termini di artificiosità del comportamento tenuto.

Lamenta comunque al riguardo anche la carenza nell'atto impositivo di alcuna motivazione esauriente accettabile, in violazione dell'art. 7 legge 27 luglio 2000, n. 212.

9. Con il sesto motivo la ricorrente deduce ancora - ai sensi dell'art. 360, comma primo n. 3, cod. proc. civ. - violazione o falsa applicazione di norme di diritto e, segnatamente, dell'art. 109 T.U.l.R. in relazione alla ritenuta illegittimità del recupero a tassazione nell'anno 2006 di una sopravvenienza passiva dall'ufficio invece ritenuta imputabile, per il principio di competenza, all'esercizio successivo.

Trattandosi di componente negativa di reddito, per un complessivo importo di euro 1.282.207,28, derivante dalla definizione di una controversia tra V.I. e la cliente M.P.C., ha rilevato la C.T.R. che la stessa può considerarsi definita soltanto in virtù degli accordi sottoscritti nell'anno 2007, essendosi in quello precedente le parti «scambiate corrispondenze e semplici bozze di accordo, sviluppatosi secondo un iter imposto non soltanto dalla rilevanza della posta ma anche dal fatto che la contestazione ha investito in un secondo momento un'ulteriore quantità di prodotti ("lotti fallati")»-, soltanto nel 2007, dunque - secondo la C.T.R. - «si è formato il titolo giuridico che tale componente ha reso certa ... nell'an e nel quantum».

Rileva di contro la ricorrente, passate in rassegna le tappe della vicenda, che già nel dicembre 2006, attraverso uno scambio di e-mail e con l'approvazione da parte del consiglio di amministrazione, si era perfezionato l'accordo con la controparte e che in tale contesto corretta doveva ritenersi la contabilizzazione della sopravvenienza negativa già in quello esercizio, secondo un principio di prudenza imposto dall’art. 2423-bis, primo comma, n. 1, cod. civ. e secondo anche quanto chiarito dei principi contabili nazionali e da autorevole dottrina aziendalistica.

Rimarca, al riguardo, che la certezza richiesta dalla norma non implica la definitività dell'elemento reddituale, né, quindi, l'incasso o il pagamento del corrispettivo.

Evidenzia infine di avere chiesto, sin dal primo grado di giudizio, dichiararsi l'estinzione dell’obbligazione tributaria per compensazione ai sensi dell’art. 8, comma 1, legge 27 luglio 2000, n. 212 e che su tale richiesta i giudici di merito non si sono pronunciati.

10. Con il settimo motivo la ricorrente deduce infine - ai sensi dell’art. 360, comma primo n. 3, cod. proc. civ. - violazione o falsa applicazione dell'art. 102, comma 6, T.U.I.R. in relazione alla ritenuta indeducibilità integrale dei costi relativi all'utilizzo di manodopera interna per la manutenzione di beni.

Secondo i giudici d'appello correttamente l'ufficio ha escluso che tali spese riguardino il personale, chiara essendo la diversa qualificazione delle stesse risultante dagli atti societari ed essendo comunque Indifferente che, ai fini degli esposti Interventi di manutenzione, sia stato in qualche misura, peraltro non provata, impiegato personale dipendente.

La C.T.R. ha altresì escluso la sussistenza dei dedotto errore di calcolo per mancata ricomprensione dei costi di acquisto dei beni rilevando che la percentuale di deducibilità è «esattamente rapportata al costo complessivo dei beni materiali ammortizzabili quale risultante all'inizio dell'esercizio daI registro dei beni ammortizzabili».

Entrambe tali valutazioni sono censurate nei termini detti dalla contribuente che: quanto alla prima, rileva che non esiste norma che giustifichi l'inserimento del costo della manodopera interna, impiegati anche nell'attività di riparazione manutenzione dei beni dell'impresa e di proprietà di terzi, tra quelli il cui limite di deduclbilità è pari al 5% (rimarcando come i verificatori, a sostegno della ripresa fiscale, citino esclusivamente la circolare 4 marzo 1982, n. 11, riguardante il diverso settore dell’autotrasporto per conto terzi); quanto alla seconda lamenta l'omessa considerazione tra i richiamati costi anche di quelli sostenuti per l'acquisto di beni effettuato nel corso del l'esercizio.

11. Nella sopra citata «memoria e contestuale istanza per la sollecita fissazione dell'udienza» la ricorrente, oltre a insistere nei motivi di ricorso, ha altresì eccepito la nullità dell'atto impositivo perché sottoscritto da funzionario delegato da altro funzionario privo del necessario potere in quanto posto a capo dell'ufficio in virtù di nomina illegittima, poiché effettuata ai sensi dell'articolo 8, comma 24, d.l. 2 marzo 2012, n. 16, convertito con modificazioni dalla legge 26 aprile 2012, n. 44, dichiarato illegittimo dalla Corte costituzionale con sentenza n. 37 del 25 febbraio 2015.

12. Va preliminarmente rilevata l'inammissibilità e, comunque, l'infondatezza dell'eccezione di nullità degli avvisi impugnati per la prima volta sollevata dalla contribuente nel corso del presente giudizio, con memoria del 10/9/2015.

12.1. Sotto il primo profilo appare preliminare e assorbente il rilievo per cui - come questa Corte ha avuto modo di ribadire di recente proprio in relazione alla questione in questa sede prospettata - è inammissibile il motivo di ricorso con il quale il contribuente deduce per la prima volta in Cassazione, senza aver presentato il motivo nel ricorso originario, davanti alla C.T.P., che l'atto è firmato da un incaricato con funzioni dirigenziali e non da un dirigente a seguito di concorso pubblico in quanto «quand'anche si trattasse di argomenti deducibili, indipendentemente dalle preclusioni che regolano il rito tributario, essi sarebbero stati comunque introdotti in violazione dei principi che regolano il rito in Cassazione, non potendo in nessun caso la Corte apprezzare le circostanze di fatto che costituiscono il presupposto sostanziale degli assunti del contribuente, il cui onere di allegazione e prova in ordine a detti fatti appare comunque manifesto e imprescindibile» (Cass. 20 ottobre 2015 n. 21307).

A fortiori tale inammissibilità deve predicarsi con riferimento a censura che, come nella specie, non è introdotta con il ricorso per cassazione ma con successiva memoria.

Al riguardo è utile anche rammentare che - come pure questa Corte ha in più occasioni evidenziato, da ultimo anche con riferimento alla questione qui in esame - «alla sanzione della nullità comminata dal d.P.R. n. 600 del 1973, art. 42, comma 3, all'avviso di accertamento privo di sottoscrizione, delle indicazioni e della motivazione di cui al precedente comma 2, o al quale non risulti allegata la documentazione non anteriormente conosciuta dal contribuente, al pari delle altre norme che prevedono analoghe ipotesi di nullità degli atti tributari nelle diverse discipline d'imposta, non è direttamente applicabile il regime normativo di diritto sostanziale e processuale dei vizi di nullità dell'atto amministrativo - che hanno trovato riconoscimento positivo nella legge n. 241 del 1990, art. 21-septies e sistemazione processuale nel d.lgs. 2 luglio 2010, n. 104, art. 31, comma 4, (C.P.A.) nell’autonoma azione di accertamento della nullità sottoposta a termine dì decadenza, oltre che nella attribuzione del potere di rilevazione ex officio da parte del Giudice amministrativo - atteso che l'ordinamento tributario costituisce un sottosistema del diritto amministrativo, con il quale è in rapporto di species ad genus, potendo pertanto trovare applicazione le norme generali sugli atti del procedimento amministrativo soltanto nei limiti in cui non siano derogate o non risultino incompatibili con le norme speciali di diritto tributario che disciplinano gli atti del procedimento impositivo, ostando, alta generale estensione de! regime normativo di diritto amministrativo, la scelta operata dal legislatore, nella sua piena discrezionalità politica, di ricomprendere nella categoria unitaria della nullità tributarla indifferentemente tutti i vizi ritenuti tali da inficiare la validità dell'atto tributario, riconducendoli, indipendentemente dalia peculiare natura di ciascuno, nello schema della invalidità-annullabilità, il dovendo essere gli stessi tempestivamente fatti valere dal contribuente mediante impugnazione da proporsi, con ricorso, entro il termine di decadenza di cui al d.lgs. n. 546 del 1992, art. 21, in difetto del quale il provvedimento tributario - pure se affetto da vizio nullità - si consolida, divenendo definitivo e legittimando l'Amministrazione finanziaria alla riscossione coattiva della imposta. Consegue che si pone in oggettivo conflitto con il sistema normativo tributario l'affermazione secondo cui, in difetto di tempestiva impugnazione dell'atto impositivo affetto da nullità, tale vizio possa comunque essere fatto valere per la prima volta dal contribuente con la impugnazione dell'atto consequenziale, ovvero che, emergendo il vizio dagli stessi atti processuali, possa, comunque, essere rilevato di ufficio dal Giudice tributario, anche in difetto di norma di legge che attribuisca espressamente tale potere» (v. Cass., Sez. 5, n. 22803 del 09/11/2015; Sez. 5, n. 18448 del 18/09/2015, Rv. 636451).

12.2. In ogni caso il rilievo deve considerarsi Infondato anche nel merito, atteso che - come questa Corte ha avuto modo di chiarire - in ordine agli avvisi di accertamento In rettifica e agli accertamenti d'ufficio, il d.P.R. n. 600 del 1973, art. 42, impone sotto pena di nullità che l'atto sia sottoscritto dal <<capo dell'ufficio» o <<da altro impiegato della carriera direttiva da lui delegato», senza richiedere che il capo dell'ufficio o ii funzionario delegato abbia a rivestire anche una qualifica dirigenziale, ancorché una simile qualifica sia eventualmente richiesta da altre disposizioni.

In esito alla evoluzione legislativa e ordinamentale, sono impiegati della carriera direttiva, ai sensi della norma evocata, i «funzionari della terza area» di cui al contratto del comparto agenzie fiscali per il quadriennio 2002-2005. In questo senso la norma individua l’agente capace di manifestare la volontà della amministrazione finanziaria negli atti a rilevanza esterna, identificando quale debba essere la professionalità per legge idonea a emettere quegli atti (v. Sez. 5, n. 22800 del 09/11/2015; Sez. 5, n. 22810 del 09/11/2015).

13. È infondato il primo motivo di ricorso.

13.1. La normativa sul transfer pricing ha la finalità di consentire all'Amministrazione finanziaria un controllo dei corrispettivi applicati alle operazioni commerciali e/o finanziarie intercorse tra società collegate e/o controllate residenti In nazioni diverse, al fine di evitare che vi siano aggiustamenti artificiali dì tali prezzi, determinati dallo scopo di ottimizzare il carico fiscale di gruppo, ad esempio, canalizzando il reddito verso le società dislocate in aree o giurisdizioni caratterizzate da una fiscalità più mite.

La disciplina italiana del transfer pricing è contenuta nell'articolo 110, 7 comma, T.U.I.R. a tenore del quale «; componenti del reddito derivanti da operazioni con società non residenti nel territorio dello Stato, che direttamente o indirettamente controllano l'impresa, ne sono controllate o sono controllate dalla stessa società che controlla l'impresa, sono valutati in base ai valore normale dei beni ceduti, dei servizi prestati e dei beni e servizi ricevuti, determinato a norma del 20 comma, se ne deriva aumento del reddito; la stessa disposizione si applica anche se ne deriva una diminuzione del reddito, ma soltanto in esecuzione degli accordi conclusi con le autorità competenti degli Stati esteri a seguito delle speciali "procedure amichevoli" previste dalle convenzioni internazionali contro le doppie imposizioni sui redditi.

La presente disposizione si applica anche per i beni ceduti e i servizi prestati da società non residenti nel territorio dello Stato per conto delle quali l’impresa esplica attività di vendita e collocamento di materie prime o merci o di fabbricazione o lavorazione di prodotti».

La norma costituisce - in conformità con le linee guida fissate dall’art. 9 del modello di convenzione fiscale OCSE (Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico) sulla determinazione dei prezzi di trasferimento per le imprese multinazionali e per le amministrazioni finanziarie (1995-2010) - una deroga al principio per cui, nel sistema di imposizione sul reddito, questo viene determinato sulla base dei corrispettivi pattuiti dalle parti della singola transazione commerciale.

Nelle Convenzioni contro le doppie imposizioni stipulate dall'Italia, che seguono il Modello OCSE, invero, il fenomeno del transfer pricing è affrontato nell'art. 9, il quale, nell'obiettivo di coordinare le concorrenti potestà fiscali degli Stati rispetto alle fattispecie con elementi di estraneità, onde evitare la doppia imposizione internazionale, attribuisce agli Stati contraenti la possibilità di assoggettare a tassazione anche gli utili che sarebbero stati realizzati se le imprese residenti nei due stati avessero regolato le loro relazioni commerciali o finanziarie in base alle condizioni che sarebbero state convenute tra imprese indipendenti.

Nelle ipotesi In cui tali corrispettivi risultino, dunque, scarsamente attendibili e possano essere manipolati in danno del Fisco italiano, come nel caso degli scambi transnazionali tra soggetti i cui processi decisionali sono condizionati, poiché funzionali ad un unitario centro di interessi, i corrispettivi medesimi sono sostituiti, per volontà di legge, dal «valore normale» del beni o dei servizi oggetto dello scambio, qualora tale sostituzione ricada, in concreto, a vantaggio del Fisco Italiano.

Più precisamente, al verificarsi di determinati presupposti soggettivi (impresa residente ed impresa non residente e legame di controllo tra le due), il legislatore prevede la sostituzione del prezzo praticato con il valore normale, ossia con un valore non alterato dalle strategie fiscali del gruppo e calcolato tenendo conto del prezzi di mercato.

13.2. Fondamentale per l'applicazione della disciplina in esame è, dunque, il fatto che l'operazione sia posta in essere tra imprese in rapporto di controllo.

Di tale concetto, però, né la norma interna né quella contenuta nel Modello OCSE forniscono una definizione.

Per colmare tale lacuna parte della dottrina e della giurisprudenza di merito fanno riferimento alla nozione civilistica di controllo di cui all'articolo 2359, primo comma, cod. civ., in relazione alla quale possono considerarsi controllate solamente: «i) le società in cui un'altra società dispone della maggioranza dei voti esercitabili nell'assemblea ordinaria; 2) le società in cui un'altra società dispone di voti sufficienti per esercitare un'influenza dominante nell'assemblea ordinaria; 3) le società che sono sotto influenza dominante di un'altra società in virtù di particolari vincoli contrattuali con essa».

Altra parte della dottrina e - come sopra s'è detto - la sentenza qui impugnata considerano, invece, questa nozione troppo limitativa sia sotto il profilo soggettivo, sia sotto quello oggettivo.

Reputa questa Corte che quest'ultima opzione interpretativa meriti di essere condivisa e che quindi infondate siano le censure sui punto svolte dalla ricorrente.

Militano in favore della tesi estensiva ragioni di carattere testuale e soprattutto teleologiche, legate allo scopo antielusivo della norma fiscale.

Sotto il primo profilo varrà anzitutto rimarcare che, come detto, la norma fiscale non rinvia per la definizione del concetto all'articolo 2359 del codice civile: circostanza questa che non può apparire casuale e priva di significato ove si consideri che numerose sono invece le norme, in ambito fiscale ed anche nello stesso T.U.I.R., che, nel richiamare il concetto di controllo, lo definiscono espressamente: a volte per rinvio espresso all’art. 2359 del codice civile [v. art. 38-bis comma 5, d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, in tema di rimborso dei credito Iva in ambito di gruppo- v. anche, all'interno dello stesso T.U.I.R., l'art. 73 comma 5-quater; 98, ora abrogato, in tema di thin capitalization; l'art. 155; l'art. 167, in tema di società estere controllate (CFC); l'art. 175] ; altre volte con limitato riferimento al comma 1, n. 1 del predetto art. 2359 [v. T.U.I.R. art. 96, comma 2, come modificato dall'art. 4, comma 1, lett. a), d.lgs. 14 settembre 2015, n. 147; artt. 117, comma 1, e 130, comma 1, in tema di consolidato; artt. 177 e 178 in tema di scambi di partecipazioni infragruppo]; altre volte ancora ne danno una autonoma e specifica definizione [art. 73, ult. co., d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633], Manca dunque una nozione generale di controllo, ai fini fiscali, a cui riferirsi e, d'altro canto, lo stesso non sempre integrale richiamo all'art. 2359 cod. civ., le volte in cui a questo il legislatore fa esplicito rinvio, impediscono di considerarlo quale sicuro riferimento sussidiario.

Il silenzio serbato nella ipotesi in esame appare, dunque, espressivo di una precisa scelta della volontà del legislatore di non vincolare la nozione di controllo fiscale a quella civilistica.

Indice testuale in tal senso è del resto anche rappresentato dal fatto che, per la identificazione del soggetto interno cui applicare la disciplina di contrasto al fenomeno del transfer pricing in presenza di una situazione di controllo, la norma usa il termine «impresa» (concetto ovviamente più ampio e comprensivo di società, cui mai si attaglierebbe dunque il concetto di controllo quale definito dall'art. 2359 cod. civ., facendo questo riferimento esclusivamente a rapporti tra due o più società).

La scelta appare poi sicuramente funzionale ai fini perseguiti dai legislatore fiscale, certamente diversi e non sovrapponibili a quelli della norma civilistica e rispetto ai quali non può non tenersi conto nella interpretazione della norma dell’esigenza di assegnare alla stessa un tasso di elasticità che la renda capace di attagliarsi alle varie ipotesi in cui, indipendentemente dalla ricorrenza dei rigidi requisiti civilistici, possa apprezzarsi l'influenza di un'impresa sulle decisioni imprenditoriali di un'altra.

In tale prospettiva appare evidente che un concetto dì controllo circoscritto a vincoli contrattuali od azionari risulta troppo riduttivo, non permettendo di sconfinare in considerazioni di fatto di carattere meramente economico essenziali per disciplinare un fenomeno fiscale come quello del transfer pricing.

Condivisibile appare in tal senso il richiamo da parte della C.T.R. alle indicazioni fornite dalla Circolare ministeriale n. 32 del 22 settembre 1980 che, ancorché ovviamente non vincolante per l'interprete, offre tuttavia una chiave di lettura della norma che appare da un lato non smentita dal dato testuale e dall'altro coerente alle sue finalità antielusive.

Secondo tale circolare «il concetto di controllo deve essere esteso ad ogni ipotesi di influenza economica potenziale o attuale desumibile da singole circostanze» tra le quali - per quel che in questa sede interessa - «a) vendita esclusiva di prodotti fabbricati dall'altra impresa; b) impossibilità di funzionamento dell'impresa senza il capitale, i prodotti e la cooperazione tecnica dell'altra impresa; ... i) controllo di approvvigionamento o di sbocchi; ... m) in generale tutte le ipotesi in cui venga esercitata potenzialmente o attualmente un'influenza sulle decisioni imprenditoriali».

13.3. Ciò posto non resta che rilevare che la C.T.R. ha adeguatamente motivato il convincimento espresso circa la ricorrenza, nella specie, di una situazione di controllo alla luce in particolare della previsione contrattuale In virtù della quale la contribuente, priva di per sé di alcuna struttura commerciale, aveva affidato alla società estera, titolare del 24% del capitale della prima, l'Incarico di provvedere in esclusiva alla commercializzazione dei propri prodotti, ragionevolmente vedendo in ciò realizzata l'ipotesi contemplata nella citata interpretazione ministeriale che, fra le circostanze ritenute sintomatiche dell’influenza anche solo potenziale di una società sulle decisioni Imprenditoriali di altra società, indica - come detto - anche la vendita di prodotti fabbricati dall'altra impresa e l'impossibilità di funzionamento dell'impresa senza il capitale, t prodotti e la cooperazione dell'altra.

La C.T.R. ha anche espressamente considerato al riguardo l'obiezione opposta dalla ricorrente circa la riconosciuta (dall’ufficio) esistenza di una «indipendenza tecnica» rispetto alla società consociata, rilevando che «tale indipendenza ... è stata apprezzata, in sede di verifica, unicamente sotto il profilo tecnico dichiarato dalle parti e non è dunque estensibile ... all'aspetto decisionale e concretamente gestionale dell'attività di impresa».

Trattasi con ogni evidenza di un accertamento in fatto congruamente argomentato sotto il profilo logico come tale non sindacabile in questa sede, tantomeno sotto il profilo della violazione di legge, l'unico specificamente dedotto dal ricorrente con la censura in esame.

14. È invece inammissibile il secondo motivo di ricorso.

La censura omette di indicare specificamente l'affermazione in diritto contenuta nella sentenza gravata che si assume in contrasto con le norme che si pretendono violate.

Le contestazioni mosse dalla ricorrente afferiscono per vero più propriamente alfa giustificazione offerta in sentenza circa la determinazione del valore normale delle prestazioni rese dalla società estera controllante, muovendo esse pertanto non già sul piano della interpretazione della norma e della corretta ricognizione della fattispecie astratta da essa prevista, quanto piuttosto su quello della ricognizione della fattispecie concreta quale emersa dalle risultanze di causa e, dunque, impingendo il diverso tema della coerenza e adeguatezza della motivazione.

Peraltro anche sotto tale versante, a prescindere dalla sua incoerenza rispetto alla tipologia del vizio dedotto, le critiche svolte si risolvono nella mera reiterazione di argomenti difensivi già specificamente considerati dai giudici d'appello e posti ad oggetto di una valutazione esaustiva e congruamente motivata, alla quale il ricorrente si limita a ben vedere a inammissibilmente contrapporre in termini sostanzialmente assertivi un diverso giudizio di parte.

15. Anche il terzo motivo di ricorso è inammissibile, poiché non si confronta con la effettiva ratio decidendi della sentenza impugnata.

L'accertamento impugnato, siccome desumibile dalla motivazione trascritta nello stesso ricorso per cassazione (pag. 66) non contestava l'inerenza dei costi ma solo la loro congruità. In questa linea si è coerentemente mosso anche il giudice d'appello che, emendando l'erroneo (e peraltro solo incidentale e comunque aggiuntivo) riferimento al requisito dell'inerenza contenuto nella sentenza di primo grado, ha confermato la legittimità dell'operato dell'amministrazione proprio in quanto fondato sulla divisata sussistenza dei presupposti del c.d. transfer pricing, senza dunque attribuire - ma anzi espressamente escludendo - alcun rilievo al difetto del requisito di inerenza dei costì. Donde l'evidente inconferenza della censura della ricorrente che postula una inesistente concorrente incidenza nella decisione impugnata di considerazioni legate a tale requisito.

16. È altresì inammissibile il quarto motivo per difetto di specificità.

A supporto della insistita tesi difensiva della riconducibilità degli interventi eseguiti nel 2005 e nel 2006 sugli applicativi in uso alla contribuente a mera manutenzione degli stessi, questa sì limita a richiamare i principi contabili, nazionali e internazionali, senza tuttavia calarli nella fattispecie concreta, quale accertata in sentenza, e senza dunque spiegare le ragioni per le quali questa andrebbe ricondotta a quelle categorie di intervento in astratto considerate di carattere meramente manutentivo e non migliorativo o implementativo del software di base già acquisito.

Al riguardo la C.T.R. motiva adeguatamente il proprio opposto convincimento, tra l'altro rimarcando la mancanza di emergenze idonee a fornire riscontri del dedotto carattere ripetitivo delle spese, donde anche sotto tale profilo (propriamente motivazionale, estraneo dunque al dedotto vizio di violazione di legge) un rilievo possibile di aspeciflcità della censura, in quanto omette di confrontarsi appieno con la motivazione della sentenza ma si risolve, inammissibilmente, nella mera assertiva proposizione di una valutazione opposta a quella espressa nella sentenza impugnata.

17. È anche inammissibile II quinto motivo di ricorso.

Con esso invero la ricorrente denuncia come violazione di legge quello che Invece costituisce una tipica valutazione discrezionale affidata al giudice del merito, senza che parte ricorrente formuli un'adeguata critica in punto di motivazione che possa superare (altrimenti inammissibile revisione del relativo giudizio. Risulta nuova e comunque palesemente infondata la denuncia di violazione dell'art. 7 st. contr.

18. È invece fondato e merita accoglimento il sesto motivo di ricorso.

Ai sensi dell'art. 109, comma 1, T.U.I.R. «I ricavi, le spese e gli altri componenti positivi e negativi, per i quali le precedenti norme del presente capo non dispongono diversamente, concorrono a formare il reddito nell'esercizio di competenza; tuttavia i ricavi, le spese e gli altri componenti di cui nell'esercizio di competenza non sia ancora certa l'esistenza o determinabile in modo obiettivo l'ammontare concorrono a formarlo nell'esercizio in cui si verificano tali condizioni».

Si ricava da tale disposizione che, ai fini della imputazione dei componenti negativi di reddito, in mancanza di diverse disposizioni specifiche, la regola è rappresentata dal principio di competenza e che la stessa può essere derogata, in favore del principio di cassa, solo laddove vi sia incertezza nell'an o indeterminabilità nel quantum.

In altri termini, i componenti negativi che concorrono a formare il reddito possono essere imputati all’anno di esercizio in cui ne diviene certa l’esistenza - o determinabile in modo obiettivo l'ammontare - qualora di tali qualità fossero privi nel corso dell'esercizio di competenza (Sez. 5, n. 3368 del 12/02/2013, Rv. 625271).

La giurisprudenza di questa Corte ha però al riguardo costantemente evidenziato che tale determinabilità non può essere rimessa alla mera volontà delle parti, con una scelta discrezionale dell’esercizio cui imputare il costo (Cass. Sez. 5, n. 24526 del 20/11/2009, Rv. 610765), ma può essere desunta, oltre che dall’indicazione contrattuale del corrispettivo, da strumenti ed elementi diversi (cfr., da ultimo, Cass. n. 13252 dei 26/06/2015; Sez. 5, n. 9068 del 06/05/2015; v. anche Sez. 6 - 5, n. 18237 del 24/10/2012, Rv. 624228; Sez. 5, n. 24526 del 2009, cit.; Sez. 5, n. 10988 del 14/05/2007, che - in una fattispecie in cui la ricorrente assumeva che il costo ed il titolo giuridico dell'utilizzazione di macchinari nel periodo 1985-1992 era stato determinato solo con una transazione intervenuta nel 1992, sicché non essendo il detto costo assolutamente determinabile prima di allora, in difetto di accordo tra le parti, correttamente era stato correlato all'esercizio del 1992, quando cioè era divenuto oggettivamente determinato - nell'enunciare il principio sopra riportato ha Invece ritenuto che l'obbiettiva determinabilità sancita dalla legge non è collegata o collegabile alla manifestazione della volontà delle parti sul costo, essendo, altrimenti, ad esse demandata la scelta di stabilire a quale esercizio di competenza Imputare la relativa componente del reddito d'impresa, sicché il mancato accordo delle parti non significa necessariamente che il costo non sia, prima dell'accordo stesso, obbiettivamente determinabile, potendo a tal fine soccorrere strumenti diversi, quale la parametrazione ad altre operazioni simili, al valore di mercato dei beni utilizzati in rapporto al numero delle ore di utilizzo del medesimi).

La sentenza impugnata, nel confermare la legittimità della ripresa a tassazione degli oneri imputati dalla società all'esercizio 2006 rappresentati dal debito restitutorio e risarcitorio sorto in dipendenza della vendita di prodotti difettosi, ha adottato una regola di giudizio (e quindi di valutazione degli elementi acquisiti) non coerente con l'accolta esegesi della norma quale sopra illustrata, avendo essa infatti, da un lato, considerato irrilevante l'ipotesi che la sopravvenienza passiva potesse ritenersi certa nell'an e determinata nel quantum già nel 2006 in ragione dello scambio tra le parti di corrispondenza e di bozze dell'accordo transattivo, declinando per tal motivo il relativo accertamento sulla base delle emergenze processuali («quand'anche potesse darsi per sicura l'esistenza di una componente negativa dei reddito dall'altro, attribuito decisiva rilevanza alla formazione del titolo giuridico («... soltanto nell'anno successivo (il 2007) si è formato il titolo giuridico così delineando una direzione argomentativa esattamente opposta a quella invece indicata dalla norma che, per esigenze di corretta e non strumentale contabilizzazione e Imputazione fiscale, lega il presupposto di deducibilità alla certezza e determinabilità dei costo e non necessariamente ad una formale e definitiva manifestazione di volontà delle parti.

19. È infine inammissibile il settimo motivo di ricorso.

Anche in tal caso, invero, viene prospettata come violazione di legge una mera contestazione di quello che emerge dalla sentenza impugnata come un accertamento di fatto su base documentate circa l'identificazione della causale di spesa, senza che parte ricorrente, anche in ossequio ai principio di autosufficienza, formuli un'adeguata critica in punto di motivazione che possa superare l’altrimenti inammissibile revisione del merito.

20. In accoglimento pertanto del sesto motivo di ricorso la sentenza impugnata va cassata con rinvio alla C.T.R. delle Marche che, in diversa composizione, dovrà provvedere, nella determinazione dell'esercizio cui imputare le sopravvenienze passive ivi descritte, a nuova valutazione dei dati fattuali acquisiti al processo alla luce del principio sopra enunciato.

Al giudice di rinvio è demandato anche il regolamento delle spese del presente giudizio di legittimità.

 

P.Q.M.

 

Rigetta il primo motivo di ricorso; dichiara inammissibili il secondo, il terzo, il quarto, il quinto e il settimo; accoglie il sesto motivo e per l'effetto, cassa la sentenza impugnata con rinvio alla C.T.R. delle Marche, in diversa composizione, anche per le spese del presente giudizio di legittimità.