Giurisprudenza - CORTE DI CASSAZIONE - Sentenza 21 aprile 2016, n. 8081

Previdenza - Dirigente - Pensione integrativa - Riliquidazione - Computo

 

Fatto

 

La Corte d'appello di Roma, in riforma della sentenza di primo grado, di accertamento del diritto di A.F. (dipendente Inps con qualifica di ispettore generale cui la sentenza del Tribunale di Roma n. 23223/03 aveva riconosciuto lo svolgimento di funzioni dirigenziali e attribuito la relativa retribuzione) alla riliquidazione della pensione integrativa a carico del Fondo di Previdenza del personale Inps rapportato alla retribuzione di dirigente e di condanna dell'Istituto al pagamento, in suo favore a titolo di differenze sul trattamento di pensione integrativa, della somma di € 54.932,80, con sentenza 11 giugno 2012, rigettava la domanda del predetto, compensando tra le parti le spese dei due gradi.

A motivo della decisione, la Corte territoriale escludeva, in coerente applicazione dell'insegnamento di autorevole arresto di legittimità (Cass. s.u. 7158/2010), la computabilità (quale base del trattamento di quiescenza o di fine rapporto spettante ai dipendenti degli enti pubblici del c.d. parastato, a norma dell'art. 13 L. 70/1975 in vigore per i dipendenti in servizio al 31 dicembre 1995 non optanti per il T.f.r. ai sensi dell'art. 2120 c.c., in misura di tanti dodicesimi quanti gli anni di prestazione di servizio) nello stipendio tabellare, integrato dagli scatti di anzianità o da componenti retributive simili (quali, nella specie, l'indennità di funzione ai sensi dell'art. 15, secondo comma L. 88/1989, il salario di professionalità o assegno di garanzia retribuzione e l'indennità per particolari compiti di vigilanza per i dipendenti Inps), di voci retributive diverse e l'applicabilità di previsioni regolamentari, come quelle dell'Inps di computo in genere, a fini del trattamento di fine rapporto o di quiescenza comunque denominato, delle competenze a carattere fisso e continuativo: e così, a fortiori, delle maggiori competenze per svolgimento di fatto di mansioni superiori, in quanto elementi né fissi né continuativi della retribuzione, in quanto collegate a detto svolgimento e neppure di natura retributiva per la loro spettanza a norma dell'art. 52 D.lg. 165/2001, di riconoscimento di una somma a conguaglio della retribuzione percepita in virtù della qualifica, commisurata alla retribuzione della qualifica superiore.

Con atto notificato l'11 dicembre 2012, A.F. ricorre per cassazione con due motivi, cui resiste l'Inps con controricorso; entrambe le parti hanno comunicato memoria ai sensi dell'art. 378 c.p.c.

 

Motivi della decisione

 

Con il primo motivo, il ricorrente deduce violazione e falsa applicazione degli artt. 36 Cost., 56, comma dal primo al quinto d.lg. 29/1993, in riferimento agli artt. 5 e 27 del Regolamento per il trattamento di previdenza e quiescenza del personale Inps approvato con delib. C.d.A dell'Inps n. 25 del 18 marzo 1971 e succ. mod., 2909 c.c., in relazione all'art. 360, primo comma, n. 3 c.p.c., per l'erronea individuazione della retribuzione dovuta ai fini del computo pensionistico diretto in quella corrispondente alla qualifica di ispettore generale, anziché dirigenziale coerente alle superiori mansioni di fatto svolte, come accertato invece spettargli dal Tribunale di Roma con sentenza n. 23223/03, confermata dalla n. 6945/09 della Corte d'appello di Roma: in aderenza al significato letterale e logico della disposizione regolamentare (art. 27), e pertanto a titolo sia di stipendio che di indennità per incarichi espletati, ed al principio costituzionale di sufficienza e proporzionalità della retribuzione alla quantità e qualità del lavoro prestato, anche secondo recente indirizzo della Corte capitolina richiamato.

Con il secondo, il ricorrente deduce violazione e falsa applicazione dell'art. 12 prel. c.c. e dei principi di ermeneutica riguardo agli artt. 5 e 27 del Regolamento per il trattamento di previdenza e quiescenza del personale Inps approvato con delib. C.d.A. dell'Inps n. 25 del 18 marzo 1971, in relazione all'art. 360, primo comma, n. 3 c.p.c., per non corretta interpretazione delle voci di composizione (stipendio, eventuali assegni personali e altre competenze di carattere fisso e continuativo) della retribuzione e della sua spettanza, significativa di quella effettivamente percepita, senza alcun riferimento alla corrispondente qualifica del lavoratore, per arbitrario ricorso all'art. 33 del Regolamento citato, pure abrogato nel 1997, come evincibile dal raffronto con la previsione dell'art. 2 del previgente Regolamento Inps approvato nel 1947, esplicitamente menzionante grado, ruolo e categoria di appartenenza.

Il primo motivo (violazione e falsa applicazione degli artt. 36 Cost., 56, comma dal primo al quinto D.lg. 29/1993, in riferimento agli artt. 5 e 27 del Regolamento Inps approvato con delib. C.d.A. n. 25 del 18 marzo 1971 e succ. mod., 2909 c.c., per erronea individuazione della retribuzione spettante ai fini del computo pensionistico nella corrispondente alla qualifica di ispettore generale, anziché dirigenziale coerente alle superiori mansioni di fatto svolte), può essere congiuntamente esaminato con il secondo (violazione e falsa applicazione dell'art. 12 prel. c.c. e dei principi di ermeneutica riguardo agli artt. 5 e 27 del Regolamento Inps approvato con delib. C.d.A. n. 25 del 18 marzo 1971, per non corretta interpretazione delle voci di composizione della retribuzione e della sua spettanza, da riferire a quella effettivamente corrisposta, senza alcun riferimento alla qualifica del lavoratore) per la loro stretta connessione.

Essi sono infondati.

Dal coordinato esame degli artt. 5 (che illustra la composizione della retribuzione con stipendio lordo ed eventuali assegni personali ed altre competenze di carattere fisso e continuativo) e 27 (che, nell'indicare la misura della pensione diretta, fa riferimento all'ultima retribuzione spettante) del Regolamento Inps approvato con delib. C.d.A. n. 25 del 18 marzo 1971 si trae una composizione a base di voci retributive, come tali aventi natura di emolumento corrisposto in misura fissa e continuativa.

In tali voci non rientra, tuttavia, la previsione dell'art. 52, quinto comma d.l.g. 165/2001, di nullità dell'assegnazione al lavoratore, al di fuori delle ipotesi del secondo comma (di vacanza di posto in organico per non più di sei mesi, prorogabili fino a dodici qualora siano state avviate le procedure per la copertura dei posti vacanti, ovvero di sostituzione di altro dipendente assente con diritto alla conservazione del posto, con esclusione dell'assenza per ferie, per la durata dell'assenza), di mansioni superiori, con corresponsione allo stesso, non già del "trattamento previsto per la qualifica superiore" come previsto dal quarto comma dello stesso articolo (in riferimento alle citate ipotesi del secondo comma), ma della differenza di trattamento economico con la qualifica superiore".

Né sul preteso diritto di A.F. alla retribuzione da dirigente per le mansioni dirigenziali a suo tempo svolte si è formato alcun giudicato, come infondatamente affermato dal medesimo (a pg. 13 del suo ricorso), per la pendenza di tempestivo ricorso per cassazione avverso la sentenza della Corte d'appello di Roma n. 6945/2009, di conferma in parte qua della sentenza del Tribunale di Roma n. 23223/2003, rubricato R.G. 4552/2001 (come indicato dall'Istituto a pg. 6 del suo controricorso e chiamato all'odierna udienza di discussione davanti a questo collegio).

Sicché, ben si giustifica l'indirizzo interpretativo di legittimità, assolutamente consolidato, secondo cui, in tema di previdenza integrativa aziendale, benché il regolamento per il trattamento di previdenza e quiescenza del personale impiegatizio - che costituisce atto di formazione secondaria ed è pertanto interpretabile direttamente dalla Cassazione - preveda che le pensioni a carico del Fondo in corso di godimento siano riliquidate, assumendo come base la nuova retribuzione prevista per la qualifica e la posizione in cui l'impiegato si trovava all'atto della cessazione dal servizio, le maggiori competenze spettanti in seguito allo svolgimento di fatto di mansioni superiori (in quanto emolumenti né fissi né continuativi) non possono essere considerate utili e, di conseguenza, non vanno assoggettati a contribuzione (Cass. 14 luglio 2008, n. 19296).

E pertanto con una commisurazione sulla retribuzione corrispondente all'ultima qualifica legittimamente rivestita dall'interessato all'atto della cessazione del servizio, non riferibile a quella della superiore qualifica di cui esercitate le mansioni, soltanto di fatto, bensì a quella di corrispondente all’inferiore qualifica di appartenenza (Cass. 11 giugno 2008, n. 15498; Cass. S.u. 14 maggio, n. 10413; Cass. 7 luglio 2015, n. 14038).

Nello stesso senso, il principio di diritto affermato dall’arresto di legittimità (Cass. S.u. 25 marzo 2010, n. 7154) invocato a proprio supposto favore da A.F. nella sua memoria ai sensi dell’art. 378 c.p.c. (secondo cui: "In tema di base di calcolo della pensione integrativa dei dipendenti dell’INPS, ai sensi dell’art. 5 del Regolamento per il trattamento di previdenza e di quiescenza dell’ente, adottato con delibera del 12 giugno 1970 e successivamente modificato con deliberazione del 30 aprile 1982, ai fini della commutabilità nella pensione integrativa già erogata dal fondo istituto dell’ente - e ancora transitoriamente prevista a favore dei soggetti già iscritti al fondo, nei limiti dettati dall’art. 64 della legge 17 maggio 1999, n. 144 - è sufficiente che le voci retributive siano fisse e continuative, dovendosi escludere la necessità di una apposita deliberazione che ne disponga l’espressa inclusione.

Non osta che l’elemento retributivo sia attribuito in relazione allo svolgimento di determinate funzioni o mansioni, anche se queste, e la relativa indennità, possano in futuro venire meno, mentre non può ritenersi fisso e continuativo un compenso la cui erogazione sia collegata ad eventi specifici di durata predeterminata oppure sia condizionata al raggiungimento di taluni risultati e quindi sia intrinsecamente incerto"), è stato ritenuto inapplicabile all’ipotesi, qui in esame, dell’elemento retributivo percepito per l’esercizio di mansioni di fatto corrispondenti a qualifica superiore a quella di appartenenza (Cass. 4 gennaio 2016, n. 4; Cass. 10 dicembre 2014, n. 25950, in continuità con Cass. S.u. 25 marzo 2010, n. 7158).

Dalle superiori argomentazioni discende allora coerente il rigetto del ricorso, con la regolazione delle spese di giudizio secondo il regime di soccombenza.

 

P.Q.M.

 

Rigetta il ricorso e condanna A.F. alla rifusione, in favore del controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in € 100,00 per esborsi e € 4.000,00 per compensi professionali, oltre rimborso per spese generali in misura del 15% e accessori di legge.