Giurisprudenza - CORTE DI CASSAZIONE - Sentenza 14 aprile 2016, n. 7421

Licenziamento - Dirigente - Simulazione della malattia - Certificazioni mediche - Prova - Accertamento

 

Svolgimento del processo

 

Con sentenza n. 1268/2013, notificata il 21.5.2013, la Corte d'Appello di Torino, respingeva l'appello proposto da G.V. s.p.a., avverso la sentenza di primo grado del Tribunale di Alba che accogliendo parzialmente la domanda del lavoratore aveva dichiarato illegittimo il licenziamento intimato a V.D., per simulazione della malattia, condannando la datrice di lavoro al pagamento dell'indennità sostitutiva del preavviso, dell'indennità supplementare prevista dall'art. 19 del CCNL dirigenti aziende industriali, al pagamento di altre somme dovute al lavoratore a titolo di premio M80, spese di trasferta non documentabili, spese mediche, oltre accessori e spese nella misura liquidata in dispositivo.

La sentenza di primo grado in accoglimento parziale della domanda riconvenzionale della G.V. s.p.a aveva per contro condannato il lavoratore al risarcimento del danno in favore della società per l'importo di euro 26.911,66 in conseguenza degli inadempimenti descritti nella lettera di contestazione 2.3.2009; mentre aveva respinto la domanda riconvenzionale relativa alla condanna al risarcimento del danno derivante da totale inerzia del lavoratore nella conduzione delle trattative con le agenzie di comunicazioni esterne per cercare di ottenere riduzioni dei costi di pubblicità, oggetto della contestazione disciplinare del 3.2.2009.

Contro la prima sentenza G.V. s.p.a. presentava appello asserendo l'erroneità del giudizio sotto vari profili.

La Corte d'Appello di Torino ribadiva invece le tesi già sostenute dal giudice del primo grado sostenendo che la sentenza di primo grado fosse corretta laddove, sulla scorta delle prove in atti, aveva invalidato il licenziamento intimato per simulazione di malattia che aveva tenuto assente dal lavoro il V. per circa sei mesi; e la cui esistenza era stata positivamente accertata in giudizio anche a seguito di ctu. La Corte rigettava pure l'appello incidentale del lavoratore avverso la condanna al risarcimento del danno.

Per la cassazione di questa sentenza, ricorre la datrice di lavoro G.V. s.p.a. affidandosi a sei motivi.

Resiste V.D. con controricorso.

Entrambe le parti hanno depositato memoria ex art. 378 c.p.c.

 

Motivi della decisione

 

1. - Il primo motivo di ricorso lamenta la violazione dell'art. 2110 c.c. sostenendo che il concetto medico legale di malattia, rilevante nell'ambito del lavoro, è solo quello che si concreta in una incapacità lavorativa che sia seria, concreta ed attuale, mentre tale non poteva essere quella denunciata dal V. costituente sindrome e stato d'ansia, per come eccepito dal proprio consulente di parte dott. P.

Si sostiene, inoltre, che il lavoratore avesse lamentato attraverso colloqui riportati nei certificati medici, sintomi soggettivi non sorretti da veri accertamenti diagnostici.

Tutti i certificati prodotti valevano perciò solo come certificati anamnestici, ma non accertavano l'esistenza di un'infermità idonea ad impedire l'attività lavorativa.

La Corte d'Appello avrebbe inoltre sbagliato, laddove ha affermato che la contestazione posta a base del licenziamento riguardasse solo la simulazione della malattia e non la sua gravità; ed i giudici di merito sarebbero incorsi in errore allorché avevano respinto la richiesta di approfondimento peritale allo scopo di accertare la misura di tale gravità.

1.2. - Il motivo è inammissibile perché non conferente rispetto alla ratio decidendi.

La Corte d'appello ha esaustivamente argomentato che la contestazione datoriale verteva sull'inesistenza della malattia, all'opposto accertata come esistente nel giudizio, anche attraverso la ctu.

Ed ha affermato che perciò "esule dall'oggetto del giudizio l'approfondimento ancor oggi invocato dall'appellante, sull'entità della malattia, atteso che la contestazione non aveva ad oggetto la maggiore o minore gravità della malattia e la sua incidenza sulla possibilità di prestare o meno l'attività lavorativa, bensì l'affermata insussistenza della malattia medesima, sostanzialmente inventata dal dipendente per giustificare la protratta assenza dall'aprile al settembre 2009". Né il ricorso deduce un travisamento del tenore della contestazione disciplinare, rispetto al quale il ricorso medesimo non sarebbe neppure autosufficiente. Per contrastare tale affermazione sotto il profilo del vizio di motivazione di cui al n. 5 dell'art. 360 la ricorrente avrebbe dovuto riprodurre almeno il testo della contestazione che invece risulta omesso in ricorso.

Il motivo incorre perciò nella violazione del principio di autosufficienza del ricorso nei termini declinati da questa Corte fin dalla sentenza 5656/1986 (ed in seguito puntualizzati dalle S.U. 8077/2012; e da Cass. SS. UU., 20 giugno 2007, n. 14297; e Cass., SS.UU., 23 dicembre 2009, n. 27210) ed ora accolti nell'art. 366 n.6 e nell'art. 369 n. 4 c.p.c.; ed in base ai quali il ricorrente per Cessazione che deduca un vizio di motivazione, ma anche una violazione o falsa applicazione di legge, ha l'onere di indicare in ricorso - a pena di inammissibilità - in modo adeguato e specifico, gli atti e i documenti cui ha fatto riferimento nell'esporre la propria censura. Senza che sia possibile al giudice procedere ad integrazioni che vadano aldilà della semplice verifica delle deduzioni contenute nell'atto.

2. - Il secondo motivo denuncia la violazione dell'art. 360 n. 5 per omesso esame di fatti decisivi per il giudizio oggetto di discussione tra le parti idonei a confermare la simulazione della malattia e la giusta causa di licenziamento.

Si sostiene in proposito che i giudici abbiano omesso di valutare una serie di circostanze quali: la genericità dei certificati medici attestanti semplici colloqui; la mancanza di accertamenti diagnostici; la mancata contestazione della condotta di vita descritta dagli investigatori e confermata dai Valle; la data di insorgenza del morbo; la data del certificato del 263.2009; il contenuto delle relazioni investigative; il fatto che in seguito al licenziamento la malattia scomparve e che dopo poche settimane il V. riprese l'attività lavorativa; il rifiuto di sottoporsi ad accertamento tecnico preventivo a richiesta della datrice di lavoro.

Il motivo va disatteso perché si risolve in una sollecitazione di nuovo apprezzamento nel merito delle risultanze processuali. Né esso risponde ai requisiti dell'art. 360 comma 1 n. 5 c.p.c. nuovo testo (applicabile ratione temporis al caso di specie), come puntualizzati da Cass. Sez. Unite n. 8053/2014, che richiede che si tratti di un fatto storico nella sua accezione fenomenica (e non la sua valutazione) e che venga indicato espressamente il dato testuale o extratestuale da cui risulta la sua esistenza.

D'altra parte, nello stesso motivo il ricorrente mentre sostiene l'omessa valutazione di fatti, omette di indicare che la Corte ha invece escluso la simulazione della malattia a seguito di una ctu ritenuta "approfonditamente motivata e argomentata sui punti in discussione", in quanto il ctu dottor M. aveva proceduto all'esame diretto del periziando, attraverso due approfonditi colloqui clinici in presenza dei ctp abilitati a porre domande; aveva valutato le concordi certificazioni mediche, nonché i rimedi terapeutici apprestati, escluso la necessità di ulteriori accertamenti strumentali, confermata la "diagnosi di sindrome ansiosa depressiva reattiva, disturbo dell'adattamento con umore depresso e ansia"; "sottolineando che detti giudizi trovavano ulteriore conforto nelle certificazioni delle visite fiscali effettuate dall'INPS, redatte da personale medico non di parte"; lo stesso ctu aveva altresì commentato analiticamente le relazioni investigative prodotte dalla ricorrente, giungendo ad un giudizio di compatibilità dei comportamenti di vita con la patologia accertata e con la breve parentesi lavorativa del settembre 2009 (successiva al licenziamento).

Si tratta dunque di un motivo col quale viene messa complessivamente in discussione la valutazione di merito della sentenza, ma ciò non è possibile in sede di giudizio di legittimità (Cass. 17876/2013).

3. Col terzo motivo si denunzia che la violazione del principio di giustificatezza del licenziamento del dirigente (artt. 19 e 22 CCNL Dirigenti Industriali, artt. 1324 e 1363 c.c.) in relazione al contenuto sia della contestazione, sia della lettera di licenziamento che doveva essere interpretata nel suo significato complessivo. Mentre la Corte d'appello erroneamente aveva affermato che il dipendente fosse stato licenziato soltanto per un atteggiamento menzognero che non avrebbe trovato riscontro.

Il motivo viola il principio di autosufficienza siccome avrebbe dovuto provvedere alla trascrizione integrale della lettera di contestazione e di licenziamento nel corpo del ricorso onde consentire al giudice di legittimità di effettuare una diretta valutazione delle censure.

4. - Col quarto motivo si denuncia violazione degli artt. 112 e 115 c.p.c. a) per aver la sentenza pronunciato oltre la domanda, non potendo i giudici di merito addentrarsi nella valutazione delle sanzioni conservative irrogate al lavoratore prima del licenziamento non impugnate dal lavoratore "e poste alla base della richiesta di risarcimento dei danni avanzata con la domanda riconvenzionale". b) E per non aver pronunciato sulla domanda di liquidazione delle spese.

Il motivo è inammissibile perché non si intuisce a quale capo della sentenza faccia riferimento. Esso contraddice inoltre il contenuto del motivo n. 3 col quale si sostiene invece che anche il licenziamento fosse stato pronunciato per addebiti disciplinari e sanzioni precedenti, oltre a quello relativo all'insussistenza della malattia.

Anche il motivo riferito alle spese processuali è infondato avendo in realtà la Corte pronunciato sulle stesse confermando la liquidazione effettuata dal giudice di primo grado che aveva compensato per un quarto.

5. - Con il quinto motivo si denunzia l'omesso esame dei fatti decisivi per il giudizio in ordine alla subordinata domanda di giustificatezza del licenziamento (art. 360 n. 5 c.p.c.).

In realtà i giudici di merito non hanno omesso alcun esame sul punto, per l'assorbente ragione che essi, tenuto conto del tenore della contestazione, hanno invero ritenuto che il licenziamento fosse stato intimato in ragione di una circostanza del tutto infondata; e che proprio da ciò conseguiva non solo l'assenza della giusta causa, ma anche l'assenza della giustificatezza del licenziamento dirigenziale.

6. - Il sesto motivo denunzia la violazione degli artt. 2697 e 1218 c.c. con riferimento alla reiezione della domanda riconvenzionale lettera A) relativa alla condanna del dirigente al risarcimento del danno derivante da totale inerzia del lavoratore nella conduzione delle trattative con la agenzia di comunicazione I.M. s.p.a., oggetto della contestazione disciplinare del 3.2.2009. Si censura che "i giudici di merito" abbiano affermato che non vi fossero elementi sufficienti per confermare la contestazione, quando non era la società a dovere dare la prova del fatto che il dirigente avesse violato il regolamento aziendale incontestato che lo obbligava a condurre una serrata trattativa con i fornitori, ma era il dirigente a dover dar prova di aver rispettato il regolamento aziendale, soprattutto dopo aver accettato la contestazione di addebito e la sanzione disciplinare con sospensione dal lavoro e dalla retribuzione per due giorni; non aveva "quindi fondamento la risposta del primo giudice ove afferma 'non è emersa alcuna prova della inerzia contestata al lavoratore".

Il motivo è infondato perché la sentenza di appello si sofferma sulla domanda riconvenzionale in oggetto con una ampia motivazione da pag. 19 a pag. 22, in cui procede ad un autonomo ed articolato apprezzamento delle risultanze processuali, mettendo in rilievo una serie di fatti da cui emergeva anzitutto che non fosse il ricorrente a dover contattare la agenzia I.M. ma il lavoratore F.; che non fosse provata la contestata inerzia; che fosse provata invece una collaborazione tra il V. e il F.; il tutto in base ad una motivazione ampia e logica che va aldilà della mera valutazione di insufficienza della prova, di cui si fa menzione nella censura.

7. - Le considerazioni sin qui svolte impongono dunque di rigettare il ricorso e di condannare la società ricorrente, rimasta soccombente, al pagamento delle spese del giudizio di cassazione, liquidate in dispositivo.

Sussistono i presupposti di cui all'art. 13,comma 1-quater D.P.R. n. 115 del 2002 per il versamento da parte della ricorrente dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso.

 

P.Q.M.

 

Rigetta il ricorso e condanna parte ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità che liquida in € 100 per esborsi ed in € 3500 per compensi professionali, oltre accessori come per legge.

Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater D.P.R. n. 115 del 2002 si da atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1-bis, dello stesso art. 13.