Giurisprudenza - CORTE DI CASSAZIONE - Sentenza 12 aprile 2016, n. 7120

Inquadramento professionale - Congruità dei requisiti di appartenenza ad una categoria professionale - Insindacabilità - Natura sostanziale

 

Svolgimento del processo

 

Con sentenza n. 632 in data 15-28 giugno 2011 la Corte di Appello di Genova confermava la pronuncia emessa il due luglio 2010 dal locale giudice del lavoro dal giudice del lavoro, che aveva accolto in parte la domanda dell'attrice D.M.C.A., volta ad ottenere nei confronti della convenuta P.I. S.p.a. l'inquadramento come dirigente dal giugno 1995, richiesta respinta, mentre era stato riconosciuto soltanto il lamentato danno da demansionamento professionale per sostanziale inattività della ricorrente, da giugno 2008 al sette dicembre 2009, danno perciò liquidato nella misura di un terzo della retribuzione mensile corrisposta durante tale arco di tempo.

La D.M. ha proposto, quindi, ricorso per cassazione avverso la pronuncia della Corte distrettuale, affidato a tre motivi, peraltro dichiarando espressamente di non impugnare l'anzidetta liquidazione del danno, nei limiti in cui era stato riconosciuto.

P.I. Spa ha resistito con controricorso, instando per il rigetto dell'impugnazione avversaria, siccome inammissibile e/o infondata.

Le parti, quindi, sebbene ritualmente e tempestivamente avvisate della pubblica udienza fissata al 15-12-2015, non hanno depositato memorie ex art. 378 c.p.c.

 

Motivi della decisione

 

La ricorrente D.M., premesso: che aveva svolto in qualità di avvocato attività giudiziale e stragiudiziale per conto di P.I. S.p.A., in modo esclusivo ed in totale autonomia discrezionale professionale dall'8 giugno 1995 al 22 luglio del 2002; che aveva ricoperto il ruolo di responsabile delle relazioni industriali da luglio 2002 e di responsabili risorse umane territoriali per la Regione Liguria, giusta l'ordine di servizio in data 5 dicembre 2006; che era stata improvvisamente ed immotivatamente distolta dall'incarico con atto illegittimo, datato 20 giugno 2008; che era stata demansionata per effetto della collocazione professionale contenuta ed eseguita con l'atto di rimozione; che aveva subito danni sul piano professionale, nei rapporti con i colleghi, con i terzi, per la perdita di chances e nei rapporti familiari; tanto premesso, aveva chiesto il riconoscimento della categoria dirigenziale per entrambi i ruoli (avvocato e responsabile del personale territoriale) ricoperti dal 1995, senza soluzione di continuità.

Tale domanda venne respinta in primo e in secondo grado. Avverso la decisione della Corte distrettuale sono stati quindi proposti i seguenti motivi di ricorso.

Il motivo a) per il periodo 8 giugno 1995 - 20 luglio 2002, durante il quale erano stato disimpegnate mansioni di avvocato:

violazione o falsa applicazione degli articoli 2103 c.c., articolo 38 C.C.N.L. 26 novembre 94 per il personale di P.I., articolo uno C.C.N.L. 11 agosto 94 per il personale dirigente di P.I., articolo tre, ultimo comma b), RDL 1578/33 (ordinamento delle professioni di avvocato e procuratore), in relazione o con riferimento all’articolo 360 numeri 3 e 5 c.p.c.

I giudici di merito di Genova non avevano tenuto in alcun conto delle disposizioni di cui all’articolo 2103 e non avevano correttamente valorizzato il disposto del citato articolo 38 per il personale dipendente di P.I. piuttosto che articolo uno C.C.N.L. 11 agosto 1994 per il personale dirigente, tutte in combinato disposto con l’articolo tre comma 4 lett. B) RDL n. 1578, sicché gli avvocati interni dell’ente non potevano essere equiparati ai quadri, sebbene apicali dello stesso, operando i primo in un contesto oltre di alta responsabilità professionale in maniera autonoma indipendente da settori previsti in organico dall’ente medesimo, con esclusione di ogni attività di gestione, donde il diritto all’inquadramento nella qualifica dirigenziale in base alle citate disposizioni normative.

Per contro, i giudici di merito avevano diversamente ed erroneamente ritenuto che nessun sindacato poteva loro residuare a fronte dello specifico inquadramento degli avvocati interni di P.I. nella categoria quadri di primo livello.

Pur richiamando il principio affermato da Cass. N. 19955/09, tuttavia lo avevano erroneamente applicato, in quanto se era pur vero che laddove i requisiti di appartenenza categorie e qualifiche sono fissate dalla normativa collettiva criteri per l’inquadramento del personale non possono coincidere con quelli stabiliti dal contratto collettivo, tuttavia tale steccato veniva superato nell’ipotesi in cui detti criteri erano tali da sconvolgere la natura sostanziale delle categorie considerati.

Il citato precedente giurisprudenziale imponeva, quindi, al giudice di verificare se l'esercizio di tali mansioni, svolte secondo i requisiti della norma contrattuale, di fatto stravolgesse la natura sostanziale della categoria presa in considerazione, dovendo in tal caso il giudice andare oltre la norma pattizia e provvedere secondo le norme di legittimità sostanziale.

Il giudice di merito si era limitato ad affermare che le mansioni di avvocato interno di P. erano tecniche, anche se delicate complesse svolte in autonomia con riguardo alle strategie difensive conciliativa delle cause e con riguardo alla consulenza resa alle strutture aziendali.

Di conseguenza, le mansioni di avvocato interno rientravano appieno in quelle funzioni caratterizzanti la categoria dei quadri. Il giudice di merito si era limitato così ad un'operazione matematica e non aveva motivato la scelta di risultato, non aveva argomentato il motivo di questa scelta, non aveva motivato l'esclusione del riconoscimento della superiore categoria dirigenziale, anzi il profilo nemmeno era stato preso in esame nella parte motiva della sentenza, perciò viziata in quanto monca.

Pertanto la D.M., riportato stralcio del proprio ricorso (Invero senza chiarire se quello introduttivo del giudizio, ovvero quello di appello ex art. 434 c.p.c.), laddove tra l'altro era stata richiamata la procura generale alle liti, conferita con atto del 28 aprile 1998, quindi rinnovata in data 13 aprile 99 e 13 febbraio 2001), assumeva che, in base a tutti gli elementi caratterizzanti la qualifica dirigenziale contenuti nella declaratoria di contratto dirigenti P., ex articolo uno 11 agosto 1994, erano intrinseci ed esplicitati nell'attività di avvocato svolte da essa ricorrente: elevato grado di professionalità, autonomia, potere decisionale, potere di rappresentanza, potere di direzione. Un'attenta lettura sia degli atti di causa, che dei contratti collettivi interessati avrebbe dovuto portare i giudici di merito a ritenere che l'attività prestata non rientrava nel contratto collettivo nazionale dipendenti (articolo 45), bensì nel C.C.N.L. dirigenti (articolo uno), avendo svolto ella mansioni e ruolo di alter ego dell'imprenditore. Inoltre, nel caso in cui fosse stata sviluppata l'istruttoria, di fatto negata, già il giudice di primo grado avrebbe consapevolizzato la corrispondenza delle mansioni in concreto svolte con quelle dirigenziali previste dalla disciplina pattizia.

l motivo b) - periodo di avvocatura 8 giugno 1995 / 20 luglio 2002;

violazione e falsa applicazione degli articoli 2103 c.c., 38 c.c.n.l. 1994, art. 1 c.c.n.l. 11 agosto 1994 per il personale dirigente, della L. n. 70/1975 in tema di disposizioni sul riordino degli enti pubblici del rapporto di lavoro del personale dipendente, del d.P.R. 411/76 recante disciplina del rapporto di lavoro del personale degli enti pubblici di cui alla legge numero 70/1975, del decreto legislativo numero 29/1993, del decreto legislativo 161/2001 - in relazione o con riferimento all'articolo 360, nn. 3 e 5, c.p.c.

Secondo la ricorrente, i giudici di merito genovesi nemmeno avevano dato conto del ragionamento logico giuridico proposto dalla difesa di parte attrice in ordine alla normativa di settore pubblicistico riguardante l'inquadramento dirigenziale, nel cui ambito andavano disciplinati gli avvocati degli enti pubblici.

Infatti, gli articoli 15 e 16 della Legge numero 70/1975 e gli articoli 30 e 36 d.P.R. n. 411/76 stabilivano che gli avvocati di enti pubblici andavano contrattualmente inquadrati nella 10a qualifica professionale e che ad essi andavano attribuiti quota parte degli onorari vinti.

Inoltre, l'articolo 40 comma due del decreto legislativo stabiliva che professionisti degli enti pubblici, già 10a qualifica professionale, costituivano unitamente alla diligenza un'area contrattuale autonoma, ciò che comportava l'inquadramento nel ruolo della diligenza degli avvocati delle pubbliche amministrazioni. Sia la legge n. 70/75 che il decreto legislativo escludevano dal loro ambito gli enti pubblici economici e le società pubbliche, sicché restavano privi di tutela normativa e sindacale gli avvocati degli uffici legali degli enti societari trasformati, cioè degli enti pubblici economici trasformati in società per azioni, come nel caso di P.I.

Gli enti come P.I., in virtù della loro autonomia privatistica, riservavano agli avvocati dipendenti trattamenti normativi retributivi gravemente lesivi della dignità e del decoro professionale, di tutta evidenza ove comparati con quelli attribuiti ad altri avvocati, ad esempio dell’Inail, non solo in ordine alla retribuzione conseguente all’inquadramento e ai relativi benefit dirigenziali, ma pure riguardo alla ripartizione degli onorari di causa, da sempre negati ai professionisti di P.

Pertanto, la sentenza della Corte di Appello era gravemente erronea e andava riformata con la cassazione senza rinvio della stessa o in subordine con la decisione nel merito del ricorso ai sensi dell’articolo 384 c.p.c.

II motivo, riferito al periodo 20 luglio 2002 - 20 giugno 2008, durante il quale era stato ricoperto l’incarico di responsabile delle risorse umane territoriale per la Liguria:

violazione o falsa applicazione degli articoli 2103 c. c. 38 C.C.N.L. 1994, 1 C.C.N.L. 1994 per il personale dirigente di P.I. - tanto in relazione o con riferimento all'articolo 360 numero tre e numero cinque c.p.c.

Anche in proposito i giudici di merito non avevano tenuto conto delle anzidette disposizioni, mentre l'articolo uno del contratto dirigenti tali considerava i prestatori di lavora per i quali sussistevano le condizioni di subordinazione ex articolo 2094 c.c. e che ricoprivano nell'ente un ruolo caratterizzato da un elevato grado di professionalità, autonomia e potere decisionale nell'esplicare le loro funzioni al fine di promuovere, coordinare e gestire la realizzazione degli obiettivi d'impresa, rientrandovi ad esempio coloro ai quali erano stati conferiti in modo continuativo potere di rappresentanza e direzione per tutta una parte dell'ente; ciò che era stato provato in causa.

Infatti, i giudici di merito ove ben avessero analizzato non solo gli atti di causa, ma pure sviluppato una completa istruttoria, con esclusione di testi di confronto con le parti sui documenti prodotti, ben sarebbero giunti alla conclusione che pure all'attività svolta come responsabile RI e RUT andava applicata la disciplina del contratto collettivo nazionale di lavoro dirigenti 11-08-94, corrispondendo le mansioni svolte nei suddetti contesti da essa D.M. a quelle dirigenziali previste dalla disciplina pattizia.

Premesso che per il profilo RUT non vi era previsione contrattuale individuante la categoria di riferimento ai fini del corrispondente inquadramento, i giudici di merito avrebbero dovuto quindi accertare se la RUT D.M. avesse disimpegnato le proprie mansioni con elevata professionalità, autonomia e con potere decisionale, ed in tal modo se avesse concorso alla realizzazione degli obiettivi aziendali.

In effetti essa ricorrente, sottoscrivendo accordi sindacali, decidendo procedimenti disciplinari, valutando ed operando scelte di gestione del personale, agiva con autonomia e discrezionalità, sicché aveva influito sulle strategie degli obiettivi aziendali con riferimento al territorio ligure, quanto alla gestione delle risorse umane. I giudici di merito, invece, non avevano istruito la causa e quindi non avevano verificato la sostanzialità delle mansioni svolte dalla interessata.

Per negare il diritto all'inquadramento superiore avevano affermato che la ricorrente riferiva ad altre strutture aziendali e che ciò integrava il profilo di quadro. In tal modo risultavano violate le disposizioni dell'articolo 2103 citato e così pure le norme processuali in merito ad un'adeguata e sufficiente motivazione circa le ragioni giuridiche della decisione ed i principi di diritto applicati.

Nemmeno per tale periodo per la suddetta funzione professionale erano stati approfonditi il tenore, la sostanza e il contenuto delle mansioni di fatto svolte, onde appurare la ricorrenza dei presupposti dei requisiti tipici della diligenza. Invece, la sentenza impugnata si era limitata a ritenere che la ricorrente riferisse ad altre funzioni aziendali e che le operazioni della stessa ricadevano nella categoria di quadro.

Pertanto, il ruolo esercitato dalla D.M. e mai contestato dall'azienda di fatto sconvolgeva la natura della categoria Q1, per come declinata agli artt. 38 e 45 del C.C.N.L. 1994.

Ed ai fini del riconoscimento dirigenziale di tali mansioni a nulla rilevava che fossero superiori alla D.M. altri livelli dirigenziali.

A tal uopo ricorrente richiamava precedenti giurisprudenziali, secondo cui poteva riconoscersi la natura dirigenziale delle mansioni che fossero in rapporto non di subordinazione, ma solo di coordinamento i raccordo con quelli degli altro dirigente, purché la figura professionale restasse caratterizzata da autonomia e discrezionalità dell'ampiezza delle funzioni.

I giudici di merito, quindi, erano incorsi in errore sui diritto sotto due profili:

nell'interpretazione letterale semantica delle norme contrattuali;

nell'individuazione delle norme contrattuali applicabili al caso.

Pertanto, la ricorrente ribadiva il convincimento che la sentenza d’appello fosse gravemente erronea e da riformare mediante cassazione della stessa, senza rinvio, o in subordine con decisione nel merito ai sensi del citato articolo 394.

III motivo:

- violazione o falsa applicazione degli articoli 24 e 111 della costituzione, 2103 c. c., 420-421-424-425 c.p.c., 38 c.c.n.l. 26/11/94, nonché uno c.c.n.l. 11 agosto 94, per il personale dirigente di P.I. - tanto in relazione o con riferimento all'articolo 360, numeri 3 e 5, c.p.c.

A tal riguardo la ricorrente criticava la decisione di merito, in quanto fondata principalmente sull'argomentazione secondo cui la previsione contrattuale, relativa ai dipendenti piuttosto che dirigenti, precludeva ogni sindacato giudiziale sulla correttezza dell'inquadramento, laddove era stato soltanto in parte applicato il principio affermato da questa Corte con la sentenza numero 19955/2009, in virtù del quale i requisiti di appartenenza a ciascuna delle qualifiche/ categorie fissati dalla contrattazione collettiva, dei quali non è neppure possibile sindacare la congruità, valgono, a meno che gli stessi non siano tali da sconvolgere la natura sostanziale delle categorie considerate.

Per contro, i giudici di merito non avevano approfondito né verificato la natura sostanziale della funzione del ruolo esercitati dalla D.M. quale avvocato e quale RUT.

Avrebbero dovuto superare il formale dettato contrattuale, per accertare l'effettività delle prestazioni rese dalla lavoratrice e delle modalità con le quali esse si erano svolte, così pure violando il principio di effettività, cardine del rito del lavoro.

La mancata istruttoria e la negata escussione dei testi non avevano il consentito confronto delle parti durante procedimento, e di fatto negato il naturale contraddittorio, così concretizzandosi violazione del diritto professionalmente garantito alla difesa.

Gli anzidetti motivi, che per la loro stretta connessione possono essere congiuntamente esaminati, sono in parte inammissibili ed in parte Infondati, sicché vanno senz'altro disattesi, in condivisione delle stringenti, assorbenti e puntuali argomentazioni contenute nella impugnata sentenza della Corte distrettuale genovese.

Quest'ultima, infatti, posto che risultava indiscussa l'attività professionale di patrocinio e di assistenza legale svolta dall'attrice dal giugno 1995 luglio 2002, classificata dalla contrattazione collettiva nella categoria dei quadri di primo livello, sottolineava come anche le parti avessero condiviso il principio secondo cui il potere giudiziale di individuazione delle mansioni che danno diritto all'inquadramento in una determinata categoria e qualifica è esercitabile sempre che i requisiti di appartenenza a ciascuna di esse non siano determinati dalla normativa collettiva o pattizia, dovendosi ritenere che in tal caso, dei requisiti suddetti non sia sindacabile neppure la congruità, a meno che gli stessi non siano tali da sconvolgere la natura sostanziale delle categorie considerate (Cass numero 19955/09 cit.);

ciò che del resto corrispondeva alle previsioni di cui ai secondo comma dell'articolo 2095.

Tuttavia, l'impugnata sentenza osservava come nella specie non sussistesse il cosiddetto sconvolgimento della natura sostanziale contemplato dal succitato principio.

Pur volendosi ritenere per vero quanto allegato dalla appellante (ma ridimensionato dal primo giudice alla stregua dei documenti prodotti dalla società resistente) con riguardo alle mansioni esercitate presso l'ufficio legale genovese di parte appellata (pp. 3-5 dell'atto introduttivo della lite), si sarebbe trattato infatti di mansioni tecniche, anche se delicate compiesse svolte in autonomia con riguardo alle strategie difensive delle cause tratta e con riguarda alla consulenza resa alle strutture aziendali, mansioni che rientravano appieno, e quindi non sconvolgenti (ribadendo che lo sconvolgimento della natura della categoria costitutiva l’elemento rilevante), come sarebbe stato ad esempio se ella avesse dettato le strategie di tutto il contenzione dell’azienda, magari anche per alcune materie soltanto in quelle funzioni di rilevante importanza ai fini dello sviluppo dell’attuazione degli obbiettivi dell’impresa, che secondo l’articolo due comma uno già caratterizzavano la categoria dei quadri, i requisiti di appartenenza alla quale erano determinati in forza del secondo comma dello stesso articolo della contrattazione collettiva nazionale e aziendale; contrattazione che ripercorreva il disposto legislativo.

Peraltro, alla D.M. era stato attribuito più elevato dei due livelli della categoria, essendo laureata.

In proposito, la Corte territoriale altresì osservava che nessun valore aveva quanto previsto dall'autonomia collettiva in altri settori pubblici, posto che l'autonomia collettiva era tale anche nei differenti modi di esercizio della medesima, i quali ovviamente scontavano proprie valutazioni legate ai tempi di tale esercizio ai rapporti di forza tra le parti alla specificità delle varie situazioni e così via.

Del resto, non a caso il già richiamato comma due dell'articolo 2095, laddove stabiliva che erano la legge e le norme collettive a determinare i requisiti di appartenenza alle categorie specifiche, aggiungeva anche che ciò doveva avvenire in relazione a ciascun ramo di produzione e alla particolare struttura dell'impresa.

Nei sensi anzidetti, pertanto, il primo motivo dell'appello allegato dalla D.M. era infondato, già stando alle allegazioni dell'attrice, sicché era irrilevante sia un ulteriore esame delle emergenze testimoniali e documentali, e in particolare della posizione del teste C., su cui aveva particolarmente insistito la ricorrente, sia il richiesto approfondimento istruttorio sul punto.

Per altro verso, la Corte genovese giudicava non meritevole di censura la pronuncia impugnata in ordine alle critiche mosse, neppure riguardo al periodo in cui l'attrice era stata addetta al reparto risorse umane della Liguria come responsabile delle relazioni industriali e referente territoriale delle risorse umane.

Infatti, la circostanza che i titolari dei due livelli di responsabilità, anche a livello locale, superiori alla D.M., quali emergenti dai documenti richiamati dal primo giudicante e quali riconosciuti dall'appellante, non avrebbero nella realtà quotidiana esercitato alcun ruolo di supremazia nei confronti dell'attrice, non significava, comunque, che ella non fosse loro sottoposta: un conto era essere portatori di supremazia, mentre cosa diversa era lasciare ampi spazi operativi al dipendente, magari in ragione delle sue capacità.

La documentazione richiamata nell'atto di appello (che il primo giudice, secondo la D.M., non avrebbe esaminato e che avrebbe provato la sua autonomia) appariva scarsamente utile a corroborare la tesi dell'appellante. Non rilevava solo e non tanto, infatti, che la dovesse riferire ai superiori, come pure riconosciuto dello stesso atto di appello al pagina 12, quanto che la presenza di costoro, cui appunto la ricorrente riferiva, ridimensionava la sua responsabilità pur nelle operazioni compiute autonomamente. Ciò non significava dare valore all'assetto astratto, in luogo della sua effettività, ma piuttosto sottolineava il valore fondamentale della responsabilità nel qualificare una funzione. E questo quando la categoria di quadro già comprendeva i dipendenti svolgenti funzioni di rilevante importanza ai fini dello sviluppo e dell'attuazione degli obiettivi dell'impresa, e quando all'attrice era stato riconosciuto il primo livello di tale categoria.

Non erano poi da trascurare i documenti 32 e 33, prodotti in primo grado dalla ricorrente e richiamati nella sentenza appellata, che la stessa autonomia della medesima ridimensionavano, dimostrando nelle vicende relative ai lavoratori C., C., V., A., O. e agli autisti, da destinare al centro meccanografico, poteri propositivi o di interfaccia piuttosto che decisionali, come dettagliatamente argomentato dal tribunale.

Pertanto, ogni approfondimento istruttorio risultava ultroneo ed ogni altra questione restava così assorbita.

Alla stregua di tali corrette argomentazioni ogni doglianza rappresentata dalla D.M., con il i ricorso in disamina, risulta ampiamente da disattendere in condivisione delle pertinenti, precise e puntuali considerazioni svolte dalla Corte distrettuale, a fronte delle quali i succitati tre motivi si appalesano del tutto inidonei nel confutare le esposte ragioni.

Tanto può affermarsi pure in relazione all'asserito sconvolgimento, del quale, per contro, l'impugnata sentenza ha pienamente tenuto conto, però motivandone l'insussistenza nel caso di specie alla stregua delle allegazioni svolte dalla medesima appellante, nonché degli elementi di prova in atti acquisiti, sicché riteneva pure superflua ogni ulteriore attività istruttoria. E parimenti può dirsi in relazione all'accennata disparità di trattamento circa il diverso inquadramento riservato agli avvocati operanti all'interno di aziende come P.I., rispetto a quelli dipendenti da enti pubblici, attesa, appunto, la diversità delle rispettive contrattazioni collettive di riferimento. Opportunamente, quindi, sul punto la sentenza ha evidenziato che l'autonomia collettiva era tale anche nei differenti modi di esercizio della medesima.

Al proposito si ritiene di richiamare significativi e condivisibili precedenti quali:

- Cass. sez. un. civ. n. 115 del 12/01/1987, secondo cui la facoltà di avvocati e procuratori, alle dipendenze di enti, di esercitare l'attività professionale, in favore esclusivo del datore di lavoro e previa iscrizione negli appositi elenchi speciali annessi agli albi, è (era) riconosciuta dall'art. 3 del r.d.l. 27 novembre 1933 n. 1578 soltanto con riguardo agli enti pubblici, non anche pertanto con riguardo a quelli privati, restando irrilevante il fatto che questi ultimi operino in settori di Interesse generale e siano quindi soggetti a limitazioni e controlli dell'autorità amministrativa.

Tale principio manifestamente non pone la citata norma in contrasto con l'art. 3 della Costituzione, in quanto la diversità del suddetto trattamento di avvocati e procuratori trova obiettiva giustificazione nella natura pubblica o privata delle strutture in cui essi si inseriscono come dipendenti e nella peculiarità delle rispettive esigenze.

- Cass. sez. un. n. 3455 del 24/04/1990, secondo cui qualora un avvocato o procuratore venga inserito nell'ufficio legale di un ente pubblico, con costituzione di rapporto di lavoro subordinato, come consentito dall'art. 3 quarto comma lett. b del r.d.l., 27 novembre 1933 n. 1578 -convertito in legge 22 gennaio 1934 n. 36 e modificato dalla legge 23 novembre 1939 n. 1949- in deroga alla regola generale dell'incompatibilità della professione forense con impieghi retribuiti, la disciplina di tale rapporto trova prevalente applicazione, anche per quanto riguarda le disposizioni dettate dall'art. 2103 cod. civ., in tema di mansioni del dipendente. Pertanto, mentre deve escludersi che a detto avvocato o procuratore possa essere affidato il mero disbrigo di pratiche amministrative, si deve ritenere consentito al datore di lavoro, nell'esercizio dello "ius variandi", di assegnarlo ad altri compiti, ove questi, pur non esplicandosi in atti di professione legale, siano inerenti al campo giuridico, salvaguardino il suo patrimonio professionale e rispettino la sua collocazione nell'ambito della gerarchia dell'ente.

- Cass., sez. lavoro, che, con sentenza n. 7731 del 29/03/2007 ha affermato che in presenza delle condizioni richieste dall'art. 3 del r.d.l. 27 novembre 1933, n. 1578 e successive modifiche è legittimo l'inserimento del soggetto con il titolo di avvocato in una struttura avente le caratteristiche proprie della subordinazione e che al riguardo, mentre da un lato la legge professionale garantisce che l'attività espletata sia di natura forense, dall'altro la professione così esercitata si prospetta compatibile con l'inquadramento dell'avvocato con qualifiche impiegatizie e con l'inserimento in un rapporto gerarchicamente strutturato, con la conseguenza che, in ogni caso, è la disciplina del rapporto di lavoro subordinato - la quale può trovare la sua fonte nei regolamenti interni dell'ente di appartenenza e nella contrattazione collettiva - che stabilisce i rispettivi diritti ed obblighi delle parti e vincola, in via definitiva, il professionista all'ente datore di lavoro.

- Cass. lav. n. 9234 del 30/08/1991 ha statuito che l'esercizio dell'attività di avvocato e procuratore legale è riconducibile, in astratto, tanto ad un rapporto di lavoro autonomo che ad un rapporto di lavoro subordinato (ancorché caratterizzato, dato il contenuto squisitamente Intellettuale dell'attività, da una subordinazione affievolita), non essendo di ostacolo alla sua inquadrabilità nel secondo tipo di rapporto la disciplina - in tema d'incompatibilità dell'esercizio della libera professione con determinate attività, professioni o qualità o con determinati impieghi retribuiti - dettata dall'art. 3 del r.d.l. 27 novembre 1933 n. 1578 (ordinamento delle professioni di avvocato e procuratore.

Osserva per altro verso il Collegio che, poiché il D.L. 1 dicembre 1993, n. 487, convertito dalla legge 29 gennaio 1994, n. 71, nell'attuare la trasformazione della Amministrazione delle P. e delle Telecomunicazioni in ente pubblico economico, denominato Ente P.I., ha dato luogo alla costituzione di un nuovo soggetto, subentrato nei rapporti di cui era titolare un'amministrazione autonoma dello Stato, che si avvale nello svolgimento della propria attività istituzionale dei medesimi strumenti giuridici dei soggetti privati, i rapporti di lavoro in corso al momento del subentro sono divenuti di diritto privato e quindi, necessariamente, di natura contrattuale. Ne consegue che tale disciplina manifestamente non si pone in contrasto con l'art. 3 Cost., sotto il profilo di una eventuale disparità di trattamento rispetto ad alcune categorie di pubblici dipendenti fruenti di trattamenti più favorevoli, avuto riguardo alla natura privatistica del rapporto dei dipendenti dell'Ente P.I., che rende non assimilabili le situazioni poste a confronto (cfr. Cass, lav. n. 12677 del 29/08/2003; V. tra l'altro Cass. sez, un. civ. n. 15147 del 28/11/2001, che riteneva manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale ai sensi dell'art. 3 Cost., per essere la disparità di trattamento tra vecchi avvocati e nuovi assunti giustificata dalla diversità della situazione, con riferimento all'Istituto nazionale di previdenza dei giornalisti italiani).

Nel caso di specie, peraltro, la ricorrente avendo mancato di fornire sufficienti indicazioni rispetto alle prescrizioni di rito, imposte dagli artt. 366 nn. 3, 4, e 6, nonché 369 n. 4 c.p.c. (soprattutto per quanto concerne la causa petendi delle domande formulate con il ricorso introduttivo del giudizio, i testuali e precisi motivi di appello avverso il rigetto di primo grado e la completa riproduzione delle declaratorie contrattuali della normativa collettiva di riferimento), tra l'altro ha pure omesso di precisare l'epoca della sua assunzione da parte convenuta, essendosi limitata a enunciare le sue pretese con decorrenza dall'otto giugno 1995 in relazione alla contrattazione collettiva del 1994.

Ne deriva che nemmeno è possibile comprendere se e in quali, eventuali, termini abbia operato nei suoi riguardi la disciplina di riferimento, derivata dalla trasformazione della ex Amministrazione pubblica di P. e telegrafi in società di diritto privato.

Parimenti, come visto, la sentenza qui impugnata, con l'anzidetta esauriente motivazione, immune da errori di ordine logico-giuridico, perciò incensurabile in questa sede di legittimità, ha chiaramente indicato le ragioni in forza delle quali risultava del tutto corretto, alla luce del c.c.n.l. di settore, l'inquadramento della D.M. come quadro di primo livello (apicale) relativamente alle mansioni da costei disimpegnate dal 20 luglio 2002 sino al 20 giugno 2008, quale responsabile risorse umane territoriali per la Liguria, non emergendo in alcun modo dagli atti gli estremi utili per poterla classificare come dirigente secondo la relativa normativa contrattuale. Nei sensi anzidetti restano, pertanto, assorbiti gli ulteriori rilievi mossi con il terzo motivo di ricorso, che, in parte ripetono quanto già dedotto con il primo e con il secondo mezzo d'impugnazione, e che per il resto appaiono inconferenti ed infondati, non risultando violati in alcun modo né il principio del contraddittorio, né il diritto di difesa, laddove come visto in base ad adeguate e pertinenti considerazioni non veniva svolta altra attività istruttoria in sede di gravame, peraltro conformemente alla ragionevole durata del giusto processo ex art. 111 Cost, (cfr. Cass. Sez. 6 - L, ordinanza n. 24182 del 13/11/2014, secondo cui in relazione al principio costituzionale di ragionevole durata del processo contrasta lo svolgimento di un'istruttoria destinata a rimanere inutile. V. altresì Cass. lav., sentenza n, 16182 del 25/07/2011).

Del resto, la deduzione di un vizio di motivazione della sentenza impugnata conferisce al giudice di legittimità non il potere di riesaminare il merito della intera vicenda processuale sottoposta al suo vaglio, bensì la sola facoltà di controllo, sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico-formale, delle argomentazioni svolte dal giudice del merito, al quale spetta, in via esclusiva, il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di assumere e valutare le prove, di controllarne l'attendibilità e la concludenza, di scegliere, tra le complessive risultanze del processo, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad essi sottesi, dando, così, liberamente prevalenza all'uno o all'altro dei mezzi di prova acquisiti. In tal senso ex plurimis Cass. III civ. n. 9358 del 21/04/2006; V. pure Cass. lav. n. 14331 del 21/06/2006.

Alla luce delle esposte considerazioni, il ricorso va respinto con la condanna della ricorrente/soccombente alla refusione delle spese.

 

P.Q.M.

 

Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle relative spese, che liquida a favore della società controricorrente in euro 100,00 per esborsi ed in euro 3000,00 (tremila/00) per compensi professionali, oltre al rimborso delle spese generali, in ragione del 15%, ed accessori come per legge.