Giurisprudenza - CORTE DI CASSAZIONE - Sentenza 11 aprile 2016, n. 7033

Lavoro subordinato - Scadenza del contratto a termine - Risoluzione del rapporto per mutuo consenso - Configurabilità

 

Svolgimento del processo

 

1. Con sentenza depositata il 30/5/2009 la Corte d'appello di Roma, in riforma della sentenza di primo grado, ha rigettato la domanda avanzata da E.C. al fine di far dichiarare la nullità della clausola di apposizione del termine contenuta nel contratto intercorso tra la medesima e P.I. s.p.a. dal 5/10/2000 al 31/1/2001 per "esigenze eccezionali conseguenti alla fase di ristrutturazione e rimodulazione degli assetti occupazionali in corso, ed in ragione della graduale introduzione di nuovi processi produttivi e sperimentazione di nuovi servizi".

2. La Corte territoriale accoglieva l'eccezione di risoluzione del rapporto per mutuo consenso formulata da P.I. S.p.A., ravvisandone i presupposti in ragione della breve durata dell'esecuzione del medesimo, della mancanza di manifestazioni di consenso del lavoratore alla prosecuzione del rapporto per quasi quattro anni, del comportamento processuale dello stesso, rimasto contumace.

3. Avverso la sentenza la C. propone ricorso per cassazione sulla base di unico motivo. Resiste P.I. S.p.A. con controricorso.

 

Motivi della decisione

 

1. Con il motivo di ricorso la ricorrente deduce erronea motivazione in ordine agli artt. 1372, 1175, 1375, 2697 c.c..

Mancato assolvimento da parte della resistente dell'onere della prova su essa gravante. Violazione artt. 1421 e 1422 c.c. imprescrittibilità dell'azione di nullità (art. 360 n. 3 c.p.c.). Osserva che i giudici del merito hanno trascurato di considerare che su P.I. S.p.A. gravava l'onere, non assolto, di provare che la lavoratrice con la sua condotta avesse dimostrato di prestare acquiescenza alla risoluzione del rapporto. Rileva che l'inerzia non equivale a rinuncia ed acquista rilievo solo in quanto espressione di univoca volontà, tenuto conto anche dell'imprescrittibilità dell'azione diretta a far valere la nullità parziale della clausola di apposizione del termine al contratto per contrasto con norme imperative ex art. 1418 e 1419 c. 2 c.c.

2. La censura è fondata e va accolta. Come questa Corte ha più volte affermato "nel giudizio instaurato ai fini del riconoscimento della sussistenza di un unico rapporto di lavoro a tempo indeterminato, sul presupposto dell'illegittima apposizione al contratto di un termine finale ormai scaduto, affinché possa configurarsi una risoluzione del rapporto per mutuo consenso, è necessario che sia accertata - sulla base del lasso di tempo trascorso dopo la conclusione dell'ultimo contratto a termine, nonché del comportamento tenuto dalle parti e di eventuali circostanze significative - una chiara e certa comune volontà delle parti medesime di porre definitivamente fine ad ogni rapporto lavorativo" (v. Cass. 10-11-2008 n. 26935, Cass. 28-9-2007 n. 20390, Cass. 17-12-2004 n. 23554, nonché Cass. 18-11-2010 n. 23319, Cass. 11-3-2011 n. 5887, Cass. 4-8-2011 n. 16932). La mera inerzia del lavoratore dopo la scadenza del contratto a termine, quindi "è di per sé insufficiente a ritenere sussistente una risoluzione del rapporto per mutuo consenso" (v. Cass. 15-11-2010 n. 23057, Cass. 11-3-2011 n. 5887), mentre "grava sul datore di lavoro", che eccepisca tale risoluzione, "l'onere di provare le circostanze dalle quali possa ricavarsi la volontà chiara e certa delle parti di volere porre definitivamente fine ad ogni rapporto di lavoro" (v. Cass. 2-12-2002 n. 17070 e fra le altre da ultimo Cass. 1-2-2010 n. 2279, Cass. 15-11-2010 n. 23057, Cass. 11-3-2011 n. 5887) e "la valutazione del significato e della portata del complesso degli elementi di fatto compete al giudice di merito, le cui conclusioni non sono censurabili in sede di legittimità se non sussistono vizi logici o errori di diritto" (v. Cass. 11-3-2011 n. 5887, Cass. 4-8-2011 n. 16932).

3. Gli esposti principi, del tutto conformi al dettato di cui agli art. 1372 e 1321 c.c., e al sistema, sono stati ripetutamente ribaditi da questa Corte (si veda per tutte Cass. Sez. L, Sentenza n. 13535 del 01/07/2015, Rv. 635842).

Va, pertanto, ulteriormente confermato il richiamato indirizzo consolidato, basato sulla necessaria valutazione dei comportamenti e delle circostanze di fatto idonei ad integrare una chiara manifestazione consensuale tacita di volontà in ordine alla risoluzione del rapporto, non essendo all'uopo sufficiente il semplice trascorrere del tempo e neppure la mera mancanza, seppure prolungata, di operatività del rapporto. Al riguardo, infatti, non può condividersi il diverso indirizzo che, valorizzando esclusivamente il "piano oggettivo" nel quadro di una presupposta valutazione sociale "tipica" (v. Cass. 6-7-2007 n. 15264 e da ultimo Cass. 5-6-2013 n. 14209), prescinde del tutto dal presupposto che - come è stato chiarito da Cass. 28-1-2014 n. 1780 - "la risoluzione per mutuo consenso tacito costituisce pur sempre una manifestazione negoziale che in quanto tale, seppure tacita, non può essere configurata su un piano esclusivamente oggettivo. D'altra parte, il mero decorso del tempo e la mera inerzia del lavoratore costituiscono un semplice fatto che, al di fuori delle ipotesi tipiche fissate dalla legge, di per sé è irrilevante. Né può essere sufficiente al fine della risoluzione del rapporto per mutuo consenso tacito la mera cessazione della funzionalità di fatto del rapporto stesso, tanto più che nel rapporto di lavoro possono anche intervenire numerose ipotesi di sospensione, previste dalla legge o derivanti dalla volontà delle parti (v. fra le altre Cass. 7- 7-1998 n. 6615)".

4. Nella fattispecie la Corte di merito ha ritenuto configurabile la risoluzione per mutuo consenso tacito in considerazione del decorso temporale tra la cessazione di fatto del rapporto e il deposito del ricorso (quasi 4 anni), della breve durata del rapporto medesimo e della contumacia della lavoratrice, che aveva visto accogliersi la domanda nel giudizio di primo grado. Orbene, va premesso che nessuna rilevanza assume la contumacia sul piano probatorio, anche in termini di argomento di prova (cfr. Cass. Sez. 3, Sentenza n. 14860 del 13/06/2013, Rv. 626849; "La disciplina della contumacia ex art. 290 ss cod. proc. civ. non attribuisce a questo istituto alcun significato sul piano probatorio, salva previsione espressa, con la conseguenza che si deve escludere non solo che essa sollevi la controparte dall'onere della prova, ma anche che rappresenti un comportamento valutabile, ai sensi dell'art. 116, primo comma, cod. proc. civ., per trarne argomenti di prova in danno del contumace"). Quanto alle altre circostanze dalle quali è stata desunta la volontà negoziale in ordine allo scioglimento del rapporto, si evidenzia che le stesse difettano dei caratteri di rilevanza e univocità, non potendo essere ritenute sufficienti, in termini di presunzioni rilevanti ex art. 2729 c. 1 c.c., al fine della dimostrazione del sostanziale disinteresse del lavoratore al ripristino del rapporto.

5. Per tutte le ragioni indicate il ricorso va accolto, con rinvio al giudice del merito che nella decisione della controversia si atterrà al seguente principio di diritto: Nel giudizio instaurato ai fini del riconoscimento della sussistenza di un unico rapporto di lavoro a tempo indeterminato, sul presupposto dell'illegittima apposizione al contratto di un termine finale ormai scaduto, affinché possa configurarsi una risoluzione del rapporto per mutuo consenso, è necessario che sia accertata, non solo sulla base del lasso di tempo trascorso dopo la conclusione dell'ultimo contratto a termine, ma anche del comportamento tenuto dalla parti e di eventuali circostanze significative, una chiara e certa comune volontà delle parti medesime di porre definitivamente fine ad ogni rapporto lavorativo, nel rispetto del sistema delle presunzioni ex art. 2729 c. 1 c.c.

6. La sentenza, pertanto, deve essere cassata, con rinvio alla Corte d'Appello di Roma, in diversa composizione, la quale provvederà anche alla liquidazione delle spese del giudizio di legittimità.

 

P.Q.M.

 

Accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e rinvia, anche per le spese del giudizio di legittimità, alla Corte d'appello di Roma, in diversa composizione.