Giurisprudenza - CORTE DI CASSAZIONE - Sentenza 08 aprile 2016, n. 6901

Licenziamento disciplinare - Dipendente bancario - Irregolarità nelle operazioni di addebito/accredito - Proporzionalità della sanzione - Accertamento

 

Svolgimento del processo

 

Con sentenza n. 4992/10 il Tribunale di Lecce rigettava l'impugnativa di licenziamento disciplinare (intimato con lettera 16.6.-1°.7.06) proposta da F. F. contro Banca Antonveneta S.p.A.: l'addebito aveva ad oggetto ripetute irregolarità nelle operazioni di addebito/accredito commesse dal lavoratore nell'esercizio delle mansioni di addetto clientela di base presso la filiale di Lecce, irregolarità che il primo giudice ascriveva al dipendente quanto meno a titolo di colpa.

Con sentenza depositata il 25.5.12 la Corte d'appello salentina, in totale riforma della pronuncia di primo grado, dichiarava il licenziamento illegittimo perché sproporzionato rispetto all’infrazione, meritevole di mera sanzione conservativa, per l'effetto ordinando la reintegra del lavoratore ex art. 18 Stat. (nel testo previgente alla riforma di cui alla legge n. 92/12), con le relative conseguenze economiche.

Per la cassazione della sentenza ricorre Banca Monte dei Paschi di Siena S.p.A. (incorporante Banca Antonveneta S.p.A.) affidandosi a dodici motivi, poi ulteriormente illustrati con memoria ex art. 378 c.p.c.

L’intimato F. F. resiste con controricorso.

 

Motivi della decisione

 

1- Il primo motivo denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 99 e 112 c.p.c. per avere la Corte territoriale erroneamente rilevato d'ufficio e solo in sentenza un motivo di invalidità del licenziamento mai eccepito dal dipendente, ossia un asserito difetto di preventiva contestazione disciplinare degli addebiti, nel senso che quest’ultima non avrebbe avuto ad oggetto un’accusa di appropriazione indebita, da parte di F. F., della somma di euro 367,74, ma soltanto il fatto che tale importo era uscito o era stato prelevato per contanti.

In subordine tale censura viene sostanzialmente fatta valere, nel secondo motivo di ricorso, come violazione dell'art. 183 co. 4° c.p.c. per non avere la Corte territoriale previamente indicato alle parti la questione rilevata d'ufficio.

Con il terzo motivo ci si duole di vizio di motivazione là dove la sentenza impugnata ha malamente interpretato il tenore della lettera di contestazione, che nell'ascrivere al lavoratore l'uscita per contanti di somme che egli stesso, con le proprie credenziali identificative, aveva senza titolo addebitato su conti correnti della banca (cioè nel maggiorare in maniera ingiustificata le spese di conto corrente di alcuni clienti e nel prelievo in contanti, sempre ad opera del dipendente, del controvalore senza emissione della relativa contabile o di altra forma di ricevuta), non aveva fatto altro che contestargli l'appropriazione indebita di tali somme e in tal senso la lettera di contestazione era stata intesa dallo stesso F. F., che - non a caso - si era offerto di restituire la somma.

Il quarto motivo denuncia violazione e/o falsa applicazione degli artt. 2104, 2015 e 2106 c.c., degli artt. 1 e 3 legge n. 604/66 e dell'art. 7 legge n. 300/70, per avere la gravata pronuncia dichiarato inutilizzabile la duplice confessione del lavoratore resa in sede di controdeduzioni, nonostante che la qualificazione giuridica dell'addebito e la valutazione della sua gravità debbano essere condotte dal giudice in base a quanto emerso dagli elementi acquisiti anche all'esito del procedimento disciplinare e delle controdeduzioni difensive, con le quali l’odierno controricorrente aveva ammesso di essersi volontariamente auto-indennizzato d'un esborso da lui precedentemente effettuato a copertura d'un ammanco di cassa; per l’effetto - prosegue la ricorrente - non solo non vi è stato alcun mutamento della contestazione, ma ove mai vi fosse stato esso non avrebbe comunque arrecato pregiudizio alcuno al diritto di difesa del dipendente.

Il quinto motivo deduce violazione dell'art. 2697 c.c. e vizio di motivazione per avere la sentenza impugnata affermato che comunque il lavoratore si sarebbe rimborsato da sé d'un precedente ammanco di circa 500,00 euro di cui non era responsabile, così evitando soltanto un ingiustificato arricchimento per la banca: obietta - invece - la ricorrente che di tale assunto non vi è prova, prova di cui era onerato il lavoratore.

Il sesto motivo denuncia violazione degli artt. 2106 e 2119 c.c., atteso che il giudizio di sproporzione fra addebito e sanzione formulato dalla Corte territoriale è viziato dall'erroneo convincimento che l'odierno controricorrente non avrebbe tratto un vantaggio personale dalla propria condotta: in ogni caso - prosegue la ricorrente - anche a voler dare credito all’assunto del F., la giusta causa di recesso sarebbe ravvisabile anche soltanto nell'essersi egli autoliquidato dei pretesi rimborsi, per quanto di importo complessivo modesto, senza autorizzazione della banca e in danno dei clienti della stessa.

Il settimo motivo deduce violazione e/o falsa applicazione dell'art. 2697 c.c. per avere la sentenza impugnata ritenuto, contrariamente alle risultanze istruttorie, che le dichiarazioni testimoniali acquisite abbiano smentito l'ipotesi dell'appropriazione indebita commessa dal F..

L’ottavo motivo denuncia violazione e/o falsa applicazione degli artt. 2106 e 2119 c.c. nella parte in cui la gravata pronuncia si è discostata dall'insegnamento giurisprudenziale secondo cui, in ipotesi di più episodi rilevanti sul piano disciplinare (come avvenuto nel caso di specie, visti i plurimi prelievi ingiustificati), l’esistenza d'una giusta causa di licenziamento va valutata non atomisticamente in relazione a ciascuno di essi, ma considerandoli nella loro globalità.

Il nono motivo prospetta violazione e/o falsa applicazione degli artt. 2106 e 2119 c.c. la dove i giudici d’appello hanno motivato la sproporzione del licenziamento in base a precedenti occasioni in cui, per fatti analoghi, la banca aveva adottato sanzioni meramente conservative, nonostante l'inesistenza nel nostro ordinamento - obietta la ricorrente - d’un generale principio di parità di trattamento, del che la stessa sentenza impugnata ha dato atto.

Analoga censura viene sostanzialmente mossa, sotto forma di vizio di motivazione, nel decimo motivo, ove sì denuncia che la Corte territoriale ha omesso di valutare l'aggravante della volontarietà delle condotte ascritte all'odierno controricorrente, che almeno in quattro occasioni aveva quanto meno concorso a raggirare la banca per favorire illecitamente alcuni correntisti cui l'istituto di credito aveva vietato di operare a causa dello scorretto utilizzo, da parte loro, dei rispettivi conti correnti.

Con l'undicesimo motivo si lamenta, in subordine, violazione degli artt. 1 e 3 legge n. 604/66 per omessa motivazione circa la convertibilità del licenziamento, intimato per giusta causa, quanto meno in licenziamento per giustificato motivo soggettivo.

Infine, con il dodicesimo motivo si denuncia, in ulteriore via gravata, violazione degli artt. 3 legge n. 604/66, 18 Stat., 1218 e 1227 c.c. e omessa motivazione, per non avere la sentenza impugnata risposto all'eccezione di riducibilità del danno liquidato ex art. 18 Stat. in considerazione del comportamento che era stato all'origine del licenziamento, comportamento imputabile allo stesso lavoratore.

2- In quanto avente carattere potenzialmente assorbente rispetto ad ogni altra censura svolta in ricorso va esaminato preliminarmente il sesto motivo, che risulta fondato.

È noto che nel novero delle norme a variabile contenuto assiologico - c.d. "elastiche" - rientrano anche quelle in tema di giusta causa o giustificato motivo.

A differenza delle norme a contenuto certo o definitorio, ovvero a "struttura rigida", quelle a variabile contenuto assiologico richiedono all'interprete giudizi di valore su regole o criteri etici o di costume o proprie di discipline e/o di ambiti anche extragiuridici.

Gli esempi sono innumerevoli: oltre ai concetti di giusta causa o di giustificato motivo si pensi, ad esempio, a quelli di buona fede nelle trattative, interesse del minore, concorrenza sleale, vincolo pertinenziale, carattere creativo dell'opera dell'ingegno, importanza dell'inadempimento, danno ingiusto, stato di bisogno.

Mentre l'interpretazione delle norme a struttura rigida o definitoria non pone seri problemi di delimitazione del sindacato di legittimità, ben più difficoltoso è il distinguere giudizio di fatto e giudizio di diritto quando si passi ad interpretare norme elastiche o clausole generali.

La soluzione implica una brevissima digressione (senza alcuna pretesa di esaustività) sulla natura dell'interpretazione nomofilattica, muovendo dalla giurisprudenza di questa S.C. proprio in tema di giusta causa di licenziamento e proporzionalità tra infrazione disciplinare e sanzione.

Come altre volte statuito (v., ex aliis, Cass. n. 6501/13, Cass. 26.4.2012 n. 6498; Cass. 2.3.2011 n. 5095; Cass. 13.12.2010 n. 25144), si tratta di nozioni che la legge, allo scopo di adeguare le norme alla realtà articolata e mutevole nel tempo, configura attraverso disposizioni, di minimo contenuto definitorio, che delineano un modulo generico che ha bisogno di essere specificato, in sede interpretativa, mediante la valorizzazione sia di fattori esterni relativi alla coscienza generale sia di principi che la stessa disposizione tacitamente richiama. Tali specificazioni del parametro normativo hanno natura giuridica e la loro violazione o mancata applicazione è, quindi, denunciabile in sede di legittimità, mentre l'accertamento della ricorrenza e della ricostruzione dei fatti  che specificano il parametro normativo si pone sul diverso piano del giudizio di merito.

Pertanto, l'operazione valutativa compiuta dal giudice di merito nell'applicare norme elastiche come quelle in discorso non sfugge alla verifica in sede di legittimità, poiché l'operatività in concreto di norme di tale tipo deve rispettare criteri e principi desumibili dall'ordinamento.

L'opinione contraria non solo sottrarrebbe all'opera di nomofilachia le norme (quelle c.d. elastiche) che più esprimono l'assetto valoriale d'un dato ordinamento giuridico e che, proprio per la loro marcata variabilità assiologica, più di altre necessitano di un'unificazione interpretativa, ma ridurrebbe l'attività della Corte Suprema alla mera individuazione, a livello generale, del significato da assegnare al testo normativo, al punto che la soluzione nel caso concreto sottopostole sarebbe solo un effetto secondario della prima operazione, quasi un non voluto sottoprodotto.

Addirittura, estremizzando, si è sostenuto da parte di certa dottrina che la nomofilachia sarebbe una funzione a sé, esterna all'area giurisdizionale propriamente detta e analoga all'attività dottrinale, perché l'analisi del caso singolo sarebbe utile al solo fine di mettere alla prova l'interpretazione, fermo restando - però - che l'opera dì nomofilachia consisterebbe pur sempre nella formulazione in termini generali del significato della norma.

È chiara l'opzione culturale di tale assunto, che privilegia il profilo meramente cognitivo: ma essa coglie solo una parte del vero, nel senso che l'interpretazione meramente descrittiva di significato è attività ermeneutica monca se non completata dalla verifica della correttezza del l'operazione di sussunzione effettuata dal giudice di merito.

Per meglio dire, quella puramente e semplicemente descrittiva di significato non è un'attività di interpretazione propria del diritto, ma è comune a qualsivoglia branca del sapere.

Solo l'interpretazione mediante opera di sussunzione del caso concreto nella portata regolatrice della norma è attività prettamente giurisdizionale. L'analisi del fatto non è un mero strumento di verifica della tenuta dell'interpretazione descrittiva, ma funge da completamento e definizione (nel senso di una sorta di regolamento "dei confini") dell'interpretazione conoscitiva e decisoria accolta.

Invero, a differenza dell'interpretazione dottrinale, quella giurisprudenziale non si riduce mai ad un'interpretazione meramente descrittiva di significato e ciò perché il giudice - anche a livello di Corte Suprema - non può limitarsi a prendere atto dei possibili molteplici significati della norma, dovendo pur sempre preferirne uno in base alla sua idoneità a risolvere la controversia, secondo una scelta di valore determinata non da mere convinzioni personali, ma dalla coerenza con gli altri valori presenti nell'ordinamento.

A sua volta l'interpretazione decisoria - e quella dei giudici è sempre tale - si svolge in due passaggi: il primo consiste nel riformulare un enunciato e, perciò, tale interpretazione viene concettualmente equiparata alla traduzione, nel senso che stabilisce una relazione sinonimica tra una proposizione del linguaggio legislativo e una del linguaggio dottrinale o giurisprudenziale.

Il passaggio ulteriore, quello di sussunzione, consiste nell'applicare ad un singolo caso controverso la norma previamente individuata in sede di interpretazione in astratto.

In termini sostanzialmente analoghi si esprimono sia la teoria analitica sia quella ermeneutica dell'interpretazione: interpretare un testo normativo non vuol dire descrivere ciò che esso rivela, ma ascrivere ad esso un contenuto semantico, che non si trova già preconfezionato nella norma, ma ha bisogno dell'opera dell'interprete che lo sceglie - appunto - tra i molteplici significati possibili attraverso un procedimento dialettico in cui norma, fattispecie astratta e fatto interagiscono.

In sintesi, quella nomofilattica della S.C. è un'interpretazione giurisprudenziale (anche) decisoria, inizialmente non dissimile da quella che spetta pure al giudice di merito.

Ciò che la rende peculiare rispetto all'interpretazione svolta a livello di merito è - invece - la ricerca di un’armonizzazione tra diversi enunciati affinché nel loro insieme "facciano sistema", ossia stabiliscano le condizioni di base di una uniforme interpretazione giurisprudenziale, valore servente rispetto a quello, primario, dell'uguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge (o, rectius, di fronte al diritto).

Tale premessa è sicuramente più coerente con l'opinione tradizionale (che risale ai più autorevoli studi che siano stati compiuti sulla funzione delle Corti Supreme) secondo cui spetta al giudice di legittimità verificare se il fatto  ricostruito in sede di merito sia stato correttamente ricondotto alla norma poi applicata. Non a caso, tanto l'art. 360 c.p.c. quanto l'art. 606 c.p.p. rendono denunciabile per cassazione non solo la violazione o l'inosservanza di norme di diritto, ma anche la loro falsa od erronea applicazione.

Prova ne sia che - come osservato in dottrina - non di rado la legge (quindi una fonte del diritto) sostituisce le clausole generali contenute in un dato testo normativo con più precisi enunciati che riproducono proprio quelli giurisprudenziali sedimentatisi nell'interpretarle.

Sempre nella medesima prospettiva il discrimine tra giudizio di fatto e giudizio di diritto è stato individuato nella distinzione tra ricostruzione storica (assoggettata ad un mero giudizio di fatto) e giudizi di valore, sicché - sia detto in breve - ogni qual volta un giudizio apparentemente di fatto si risolva, in realtà, in un giudizio di valore, come nel caso in esame, si è in presenza d'una interpretazione di diritto, in quanto tale attratta nella sfera d'azione della Corte Suprema.

Nella vicenda in oggetto si perviene a conclusioni analoghe anche alla luce della teoria teleologica (di origine tedesca), secondo la quale il giudice di legittimità può esercitare il proprio sindacato nei casi in cui i giudizi di sussunzione gli consentano di formulare principi generali suscettibili, in futuro, di essere utilizzati come precedenti, vale a dire quando il caso concreto presenti caratteri sufficientemente tipici e, quindi, ripetibili.

E, come meglio sarà evidenziato nel prosieguo di motivazione, i contorni della presente controversia si prestano a tale sindacato.

La sentenza impugnata afferma che attraverso le abusive operazioni sui depositi di ignari correntisti il F. si sarebbe rimborsato da sé d'un precedente ammanco di circa 500,00 euro di cui non sarebbe stato responsabile, così evitando soltanto un ingiustificato arricchimento per la banca.

Ora, anche a voler prescindere da ogni altra considerazione sulla logicità o meno di tale affermazione e l'assenza di prova e di motivazione (lamentata dalla società ricorrente) circa l'assunto difensivo del lavoratore, resta il rilievo che persino in tale (riduttiva) ottica i suo reiterati comportamenti (che la Corte di merito non ritiene mossi da scopi di lucro personale) integrano necessariamente giusta causa di licenziamento per irrimediabile lesione dell'elemento fiduciario che caratterizza il rapporto di lavoro, tenuto conto  altresì delle specifiche mansioni espletate dall'odierno controricorrente (addetto clientela di base).

Invero, arbitrarie operazioni sui depositi di ignari correntisti ne ledono la fiducia verso l’istituto di credito, indipendentemente dal fatto che ognuno di essi sia stato poi rimborsato o dall'esistenza e dall'entità d'un qualche danno concreto: il vulnus nei rapporti fra clienti e banca consiste nel fatto che i primi si sentiranno esposti al rischio che anche in futuro avvengano sui propri c/c operazioni non autorizzate.

Ma la ricaduta negativa è duplice: dall'altro lato vi è una lesione del rapporto tra banca e dipendente, in cui quest'ultimo si arroga il diritto di scegliere da sé le modalità a suo giudizio più idonee a far quadrare i conti, in una prospettiva di assoluta anomia in cui ciascuno provvede da sé, senza informare i superiori e chiarire l'origine di eventuali ammanchi.

Si tratta d’un modus operandi che, pur nella migliore delle ipotesi (cioè anche in quella accolta dalla gravata pronuncia), evidenzia una totale indifferenza verso i propri doveri da parte del dipendente, il che mina quell'affidamento sul futuro puntuale adempimento dell'obbligazione lavorativa che costituisce il nucleo irriducibile dell’elemento fiduciario del rapporto in questione.

Nel caso di specie è la stessa sentenza d'appello a segnalare che le ripetute irregolarità nelle operazioni di addebito/accredito commesse dal F. sono state il frutto non già d'un mero errore materiale, ma d'una sua consapevole scelta di trasferire su ignari depositanti l'importo complessivo del deficit asserito, sia pure ripromettendosi di ripianare poi il tutto.

Non è pensabile che in organizzazioni complesse come gli istituti di credito, che hanno il compito precipuo di custodire I risparmi della clientela e di gestirli secondo le istruzioni ricevute, un singolo dipendente possa scegliere se, come e a carico di chi far fronte ad ipotetici ammanchi (la cui origine non risulta neppure ben chiarita dall'apodittica motivazione resa sul punto dalla Corte territoriale).

Poco importa che il vantaggio di tali operazioni consapevolmente poste in essere dal F. sia stato personale o di terzi, temporaneo o definitivo, foriero di sensibili o di modesti pregiudizi economici o soltanto irrispettoso dell'organizzazione e della disciplina del lavoro: in ogni caso, al di là della formulazione letterale d'una contestazione disciplinare che per sua stessa  natura è meramente descrittiva e che non richiede l'uso di formule sacramentali per addebitare a taluno delle sostanziali sottrazioni o distrazioni di fondi (come, in pratica, si afferma nei terzo motivo di ricorso), si tratta di fatti idonei ad integrare appropriazioni indebite aggravate ai danni, si badi, proprio dell'istituto dì credito, appropriazioni astrattamente sanzionabili (non solo in via disciplinare, ma anche) in sede penale ai sensi degli artt. 646 e 61 n. 11 c.p.

In tal senso è la giurisprudenza delle sezioni penali di questa Corte Suprema, che statuisce che il dipendente di un istituto di credito destinatario dell'obbligo di custodia dì danaro, valori e titoli, qualora disponga (a favore proprio o di terzi) di somme depositate su un c/c, risponde di appropriazione indebita in danno della banca e non già del correntista (cfr. Cass. pen. n. 28786/15), nel senso che soggetto passivo (vale a dire titolare del bene-interesse giuridico, protetto dalla norma) è l'istituto di credito, mentre danneggiato può essere, oltre a quest'ultimo, anche il titolare del conto.

Tale configurazione deriva dal rilievo - già altre volte evidenziato da questa Corte - che la proprietà delle somme di danaro versate in banca dal titolare di un deposito in conto corrente spetta, ai sensi dell'art. 1834 c.c., alla banca depositaria, mentre al correntista l’art. 1852 c.c. riconosce solo il potere di disporre in qualsiasi momento delle somme risultanti a suo credito, escludendolo anche dal possesso dì dette somme che, per quanto contabilizzate nel conto di sua pertinenza, fanno tuttavia parte della massa monetaria appartenente alla banca.

A ciò si aggiunga che l'appropriazione indebita, contrariamente a quanto sembra implicitamente supporre la motivazione della gravata pronuncia, può essere anche a vantaggio di terzi e il relativo profitto (lungi dal dover avere una connotazione necessariamente patrimoniale: cfr. Cass. pen. n. 40119/10), può non essere ingiusto a patto che sia conforme all'esercizio d'un diritto, cosa che però nemmeno i giudici d'appello hanno asserito nel caso di specie.

In breve, quelle ascritte al contro ricorrente sono state (alla luce degli accertamenti effettuati dagli stessi giudici di merito) consapevoli e reiterate condotte poste in essere in spregio delle procedure interne, dei diritti dei correntisti e dell'interesse datoriale al mantenimento di un'affidabile e, soprattutto, trasparente organizzazione del lavoro in un settore particolarmente delicato come quello bancario.

Da ultimo, quanto alla circostanza che in precedenti analoghe vicende la banca avrebbe adottato solo sanzioni conservative a carico di dipendenti di altre filiali (come afferma la gravata pronuncia, con affermazione criticata nel nono motivo di ricorso), basti ricordare che l'insussistenza d'un generale principio di parità di trattamento, segnatamente in materia disciplinare (cfr., ex aliis, Cass. n. 16682/15; Cass. n. 2018/95), esclude che la tolleranza manifestata dal datore di lavoro in certe occasioni debba necessariamente essere estesa anche ad altre analoghe.

In altre parole, se in un determinato caso il datore di lavoro rinuncia ad esercitare il proprio diritto di recedere per giusta causa dal rapporto (e ciò può derivare dalle ragioni più svariate e imprevedibili), non per questo dovrà immancabilmente farlo anche in futuro a fronte di condotte analoghe od anche meno gravi ma, comunque, pur sempre passibili di licenziamento.

3- In conclusione, va accolto il sesto motivo di ricorso, con conseguente assorbimento delle restanti censure e cassazione della sentenza impugnata in relazione al motivo accolto.

Non essendo necessari ulteriori accertamenti di fatto, ex art. 384 co. 2° c.p.c. la causa va decisa nel merito con il rigetto della domanda, sia pure compensandosi fra le parti le spese dell'intero processo, considerati gli esiti alterni dei gradi di merito.

 

P.Q.M.

 

Accoglie il sesto motivo di ricorso, assorbiti i restanti, cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e, decidendo nel merito, rigetta la domanda. Compensa fra le parti le spese dell'intero processo.