Giurisprudenza - CORTE DI CASSAZIONE - Ordinanza 07 aprile 2016, n. 6799

Reiterati contratti di somministrazione - Configurabilità di una risoluzione del rapporto per mutuo consenso - Requisiti

 

1 - Considerato che è stata depositata relazione del seguente contenuto:

<<La Corte di appello di Lecce confermava la decisione di primo grado che aveva ritenuto risolto, per mutuo consenso, il rapporto lavorativo intercorso, nel periodo decorrente dal luglio 2001 al giugno 2002, per offerto di reiterati contratti di somministrazione, tra R.G. e la STP (...) S.p.A. La statuizione di conferma era fondata sulle seguenti circostanze, ritenute rivelatrici del disinteresse del lavoratore alla prosecuzione del rapporto e della stessa impossibilità giuridica (per i periodi di attività alle dipendenze di terzi) per questi di offrire le proprie prestazioni lavorative alla società datrice: il notevole lasso di tempo trascorso tra la cessazione del rapporto e i primi atti rivendicativi (circa otto anni); lo svolgimento di altra attività lavorativa nel medesimo periodo.

Per la cassazione della decisione propone ricorsi il R.C.G. sulla base di tre motivi.

La società resiste con tempestivo controricorso.

Con il primo motivo il ricorrente, deducendo violazione e falsa applicazione dell’art. 1372 cod. civ., censura la decisione per avere ritenuto risolto il rapporto di lavoro valorizzando l’inerzia del lavoratore nell'attivarsi per far valere la illegittimità dei contratti con STP; rileva inoltre che è stata ritenuta significativa una circostanza di significato non univoco quale il reperimento di altra occupazione lavorativa.

Con il secondo motivo il ricorrente, deducendo violazione e falsa applicazione dell’art. 2967 cod. civ., critica la decisione per avere ritenuto sufficiente a dimostrare la volontà risolutiva la prova fornita dalla parte datoriale.

Con il terzo motivo il ricorrente, deducendo violazione degli artt. 112, 276 e 277 cod. proc. civ., censura la decisione per avere affrontato in via preliminare la questione attinente al mutuo consenso, la quale da un punto di vista logico giuridico presupponeva l’avvenuto accoglimento della domanda principale intesa a far valere l’intento elusivo della L. n. 196 del 1997, perseguito dalla STP attraverso la reiterazione del ricorso a contratti di somministrazione.

I primi due motivi di ricorso, che per ragioni di connessione vanno esaminati congiuntamente, sono da ritenersi manifestamente fondati (si vedano le decisioni di questa Corte nn. 5453 e 5454 del 18 marzo 2015 rese con riferimento a fattispecie del tutto analoghe).

Come questa Corte ha più volte affermato "nel giudizio instaurato ai fini del riconoscimento della sussistenza di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato, sul presupposto dell’illegittima apposizione al contratto di un termine finale ormai scaduto, affinché possa configurarsi una risoluzione del rapporto per mutuo consenso, è necessario che sia accertata - sulla base del lasso di tempo trascorso dopo la conclusione dell'ultimo contratto a termine, nonché del comportamento tenuto dalle parti e di eventuali circostanze significative - una chiara e certa comune volontà delle parti medesime di porre definitivamente fine ad ogni rapporto lavorativo" (si veda Cass. 10 novembre 2008, n. 26935; id, 28 settembre 2007, n. 20390; 17 dicembre 2004, n. 23554; si vedano anche le più recenti Cass. 18 novembre 2010, n. 23319; 11 marzo 2011, n. 5887; 4 agosto 2011, n. 16932). La mera inerzia del lavoratore dopo la scadenza del contratto a termine, quindi, e di per se insufficiente a ritenere sussistente una risoluzione del rapporto per mutuo consenso mentre grava sul datore di lavoro, che eccepisca tale risoluzione, l’onere di provare le circostanze dalle quali possa ricavarsi la volontà chiara e certa delle parti di volere porre definitivamente fine ad ogni rapporto di lavoro (v. anche Cass. 2 dicembre 2002, n. 17070 e, fra le altre, Cass. 1 febbraio 2010, n. 2279).

Tale principio, del tutto conforme al dettato di cui agli artt. 1372 e 1321 cod. civ., va ribadito anche in questa sede, così confermandosi l’indirizzo prevalente ormai consolidato, basato in sostanza sulla necessaria valutazione dei comportamenti e delle circostanze di fatto, idonei ad integrare una chiara manifestazione consensuale tacita di volontà in ordine alla risoluzione del rapporto, non essendo all’uopo sufficiente il semplice trascorrere del tempo e neppure la mera mancanza, seppure prolungata, di operatività del rapporto (contra sulla rilevanza al mero dato oggettivo della "cessazione della funzionalità di fatto del rapporto", valutato "in modo socialmente tipico" cfr. Cass. 23 luglio 2004, n. 13891 e Cass. 6 luglio 2007, n. 15264).

Come è stato anche precisato da Cass. 19 novembre 2010, n. 23501, l’azione diretta a far valere la illegittimità del termine apposto al contratto di lavoro, per violazione delle disposizioni che individuano le ipotesi in cui è consentita l’assunzione a tempo determinato, si configura come azione di nullità parziale del contratto per contrasto con nome imperative ex art. 1418 cod. civ., e art. 1419, comma 2, cod. civ.. Essa, pertanto, ai sensi dell’art. 1422 cod. civ., è imprescrittibile, pur essendo soggetti a prescrizione i diritti che discendono dal rapporto a tempo indeterminato risultante dalla conversione ex lege per illegittimità del termine apposto. Ne consegue che il mero decorso del tempo tra la scadenza del contratto e la proposizione di siffatta azione giudiziale non può, di per se solo, costituire elemento idoneo ad esprimere in maniera inequivocabile la volontà delle parti di risolvere il rapporto a tempo indeterminato risultante dalla conversione ovvero, in un ottica che svaluti il molo e la rilevanza della volontà delle parti intesa in senso psicologico, elemento obiettivo, socialmente e giuridicamente valutabile come risoluzione per tacito mutuo consenso (v. Cass. 15 dicembre 1997, n. 12665; Cass. 25 marzo 1993, n. 824). Comunque, consentendo l’ordinamento di esercitare il diritto entro limiti di tempo predeterminati, o l’azione di nullità senza limiti, il tempo stesso non può contestualmente e contraddittoriamente produrre, da solo e di per sé, anche un effetto di contenuto opposto, cioè l’estinzione del diritto ovvero una presunzione in tal senso, atteso che una siffatta conclusione sostanzialmente finirebbe per vanificare il principio dell’imprescrittibilità dell’azione di nullità e/o la disciplina della prescrizione, la cui maturazione verrebbe contra legem anticipata secondo contingenti e discrezionali apprezzamenti.

Per tali ragioni appare necessario, per la configurabilità di una risoluzione per mutuo consenso, manifestatasi in pendenza del termine per l'esercizio del diritto o dell’azione, che il decorso del tempo sia accompagnato da ulteriori circostanze oggettive le quali, per le loro caratteristiche di incompatibilità con la prosecuzione del rapporto, possano essere complessivamente interpretate nel senso di denotare "una volontà chiara e certa delle parti di volere, d’accordo tra loro, porre definitivamente fine ad ogni rapporto lavorativo" (v, anche Cass. 2 dicembre 2000, n. 15403; Cass. 20 aprile 1998, n. 4003). È, inoltre, onere della parte che faccia valere in giudizio la risoluzione per mutuo consenso allegare prima e provare poi siffatte circostanze (v. ex multis Cass. 1 febbraio 2010, n. 2279; 12 luglio 2010, n. 16303; 19 novembre 2010, n. 23499 ed altre ancora).

Si aggiunga che, come precisato nella più recente Cass. 12 aprile 2012, n. 5782, "quanto al decorso del tempo, si tratta di dato di per sé neutro, come sopra chiarito (per un’ipotesi analoga a quella oggi in esame, vale a dire di decorso di circa sei anni fra cessazione del rapporto a termine ed esercizio dell’azione da parte del lavoratore v., da ultimo, Cass. n. 16287/2011). In ordine, poi, alla percezione del t.f.r., questa S.C. ha più volte avuto modo di rilevare che non sono indicative di un intento risolutorio ne l'accettazione del t.f.r., nè la mancata offerta della prestazione, trattandosi di comportamenti entrambi non interpretabili, per assoluto difetto di concludenza, come tacita dichiarazione di rinunzia ai diritti derivanti dalla illegittima apposizione del termine (cfr., Cass., n. 15628/2001, in motivazione). Lo stesso dicasi della condotta di chi sia stato costretto ad occuparsi o comunque cercare occupazione dopo aver perso il lavoro per cause diverse dalle dimissioni (cfr. Cass. n. 839/2010, in motivazione, nonché, in senso analogo, Cass., n. 15900/2005, in motivazione)" - si vedano, in termini, anche le recenti Cass. 7 aprile 2014, n. 8061, Cass. 20 marzo 2014, n. 6632.

Orbene nella fattispecie la Corte territoriale ha fondato la propria decisione, oltre che sulla prolungata inerzia del lavoratore, sullo svolgimento di altra attività lavorativa.

Quanto al primo aspetto, in aggiunta a quanto già sopra ricordato, va ulteriormente considerato che le esigenze di certezza dei rapporti giuridici sottese alla motivazione dell’impugnata sentenza sono già affrontate dal legislatore, che proprio a tal fine calibra eventuali termini di presenzione (in quanto tali, legati al mero decorso del tempo): la stessa operazione non è, invece, consentita all’interprete per trasformare in assenza di diversi indici sintomatici - il mero decorso del tempo in una tacita manifestazione di volontà negoziale.

Quanto al secondo aspetto va osservino che trattasi di un fatto sostanzialmente estraneo al comportamento successivo delle parti nei termini sopra specificati. Ed infatti la ricerca di un nuovo lavoro è imposta al lavoratore dalla elementare necessità di sopperire comunque ai bisogni della vita.

Entrambe le circostanze valorizzate dalla Corte territoriale (su un piano meramente oggettivo, in contrasto con l’indirizzo consolidato qui ribadito), non possono, dunque, costituire indizi gravi, precisi e concordanti della chiara e certa comune volontà risolutiva di ogni rapporto.

Le esposte valutazioni relative al primo e secondo motivo consentono di ritenere assorbito il terzo.

In conclusione, si propone l’accoglimento del primo e del secondo motivo di ricorso (con assorbimento del terzo), la cassazione della sentenza impugnata in relazione ai motivi accolti con rinvio a diverso giudice che dovrà accertare la fondatezza o meno della domanda, il tutto con ordinanza, ai sensi dell’art. 375 cod. proc, civ., n. 5>>.

2 - Non sono state depositate memorie ex art. 380 bis cod. proc. civ.

3 - Questa Corte ritiene che le osservazioni in fatto e le considerazioni e conclusioni in diritto svolte dal relatore siano del tutto condivisibili, siccome coerenti alla consolidata giurisprudenza di legittimità in materia e che ricorra con ogni evidenza il presupposto dell’art. 375, n. 5, cod. proc. civ. per la definizione camerale del processo.

4 - Conseguentemente vanno accolti il primo ed il secondo motivo di ricorso (con assorbimento del terzo); la sentenza impugnata va cassata in relazione ai motivi accolti con rinvio, anche per le spese del presente giudizio di legittimità, alla Corte di appello di Lecce in diversa composizione.

 

P.Q.M.

 

Accoglie il primo ed il secondo motivo di ricorso (con assorbimento del terzo); cassa la sentenza impugnata in relazione ai motivi accolti e rinvia, anche per le spese del presente giudizio di legittimità, alla Corte di appello di Lecce in diversa composizione.