Giurisprudenza - CORTE DI CASSAZIONE - Sentenza 08 aprile 2016, n. 6933

Professionisti - Ragioniere commercialista - Onorario professionale per attività di consulenza nelle trattative per la cessione d'azienda

 

Svolgimento del processo

 

Con atto di citazione notificato il 2 aprile 2003, S. M. conveniva in giudizio innanzi al Tribunale di Perugia B. P., deducendo di aver svolto nella qualità di ragioniere commercialista un'attività di consulenza nelle trattative per la cessione di un'azienda alberghiera in favore dello stesso convenuto e di non aver ancora percepito dallo stesso il 50% del compenso complessivo che gli spettava: secondo gli accordi, infatti, l'onorario professionale doveva essere corrisposto da ciascuna parte per la metà. Chiedeva quindi la condanna della controparte al pagamento della somma di € 7.314,33, oltre interessi legali e rivalutazione monetaria.

B. si costituiva in giudizio eccependo in via preliminare il difetto di legittimazione attiva dell'attore e in via subordinata la carenza di legittimazione passiva di esso convenuto. Negava che alle trattative contrattuali avesse partecipato l'attore e contestava infine l'ammontare della somma pretesa.

Il tribunale respingeva la domanda attrice, rilevando come, in base alle risultanze istruttorie, doveva affermarsi che le trattative per la cessione dell'azienda erano state condotte dal padre dell'attore.

S. interponeva appello e, nel contraddittorio con B., che si costituiva anche in fase di gravame, la Corte di appello di Perugia, con sentenza depositata il 27 gennaio 2011, riformava la sentenza impugnata, condannando l'appellato al pagamento della somma di € 2.831,39 oltre interessi legali; compensava poi per due terzi le spese processuali. Il giudice del gravame accertava sia l'accordo che impegnava B. al pagamento del 50% del compenso maturato per l'attività prestata dal professionista, sia la spettanza all'appellante dell'onorario. A quest'ultimo riguardo la corte di merito valorizzava la partecipazione di S. ad alcuni incontri, evidenziava che l'attività di consulenza ed assistenza poteva essere prestata anche senza la presenza del professionista alle riunioni e rilevava, infine, che i professionisti ben possono farsi coadiuvare da collaboratori. Determinava poi l'importo dovuto in ragione di € 2.831,39, operando una riduzione del 20% del compenso, ai sensi dell'art. 15 della tariffa professionale; in ragione della attuata riduzione, operava la nominata compensazione delle spese di lite in ragione di due terzi.

La sentenza è stata impugnata da M. S. con un ricorso affidato a tre motivi, illustrato da memoria fatta pervenire in cancelleria cinque giorni prima dell'udienza. P. B., benché intimato, non ha svolto attività processuale in questo giudizio legittimità.

 

Motivi della decisione

 

Col primo motivo è denunciata violazione dell'art. 2233 c.c. in relazione all'art. 360, n. 3 c.p.c., nonché violazione degli artt. 2, 7, 15, 19, 26 e 45 d.p.r. n. 100/1997, in relazione all'art. 360, n. 3 c.p.c., nonché violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c. in relazione all'art. 360, n. 3 c.p.c. e insufficiente e contraddittoria motivazione su un fatto controverso e decisivo per il giudizio, in relazione all'art. 360, n. 5 c.p.c.. La corte di appello aveva riformato la sentenza in punto di an debeatur e aveva ritenuto di intervenire sul quantum nonostante l'appellato non avesse contestato specificamente avanti al tribunale l'importo della parcella e le sue voci, importo che peraltro era stato oggetto di accordo. La sentenza impugnata non aveva inoltre tenuto conto che nell'atto di citazione in primo grado era stato allegato e comprovato lo svolgimento di un'attività di assistenza e consulenza professionale in una trattativa complessa, che andava compensata attraverso indennità specificamente previste dalla tariffa professionale. Oltre a censurare l'applicazione dei minimi tariffari, il ricorrente contesta la legittimità dell'abbattimento dell'onorario in ragione del 20%, posto che tale decurtazione non era operante con riferimento all'ipotesi di intervento di altri professionisti.

Il secondo motivo contiene una critica alla sentenza per violazione dell'art. 112 c.p.c., in relazione all'art. 360, n. 4 c.p.c., e per violazione dell'art. 346 c.p.c., in relazione all'art. 360, n. 3 c.p.c.. È specificato, nel ricorso, che l'appellato si era difeso in secondo grado contrastando l'Impugnazione avversaria sul merito delle prove e riproponendo in via subordinata sia l'eccezione di difetto di legittimazione attiva in capo all'appellante, sia quella di difetto di legittimazione passiva, in capo all'appellato, e senza avanzare alcuna eccezione con riguardo all'entità del compenso di cui alla parcella. La corte umbra, nell'accogliere l'appello principale in punto di an debeatur, era dunque incorsa in vizio di extrapetizione riducendo d'ufficio il quantum.

I due motivi, in quanto connessi, possono essere esaminati congiuntamente.

L'assunto per cui l'appellato in primo grado non avrebbe affatto contestato l'importo della parcella è sconfessato dallo stesso ricorrente che ha esposto, in ricorso, che B. ebbe a opporre in quella fase del giudizio l'assenza di prova "a sostegno della somma [...] richiesta". Quanto al rilievo per cui la corte di merito avrebbe omesso di considerare che la contestazione non era specifica, deve evidenziarsi che, sul punto, la censura difetta di autosufficienza, dal momento che non risulta trascritto il contenuto della parcella, e nemmeno quello della comparsa di risposta in cui la contestazione è stata sollevata. Si ignora, quindi, se la parcella si componesse dì più voci e che tenore abbia avuto la difesa svolta dal convenuto sul punto.

L'appellato non aveva poi l'onere di riproporre la contestazione in ordine al quantum in sede di appello.

Infatti, l'onere di espressa riproposizione in appello delle eccezioni sulle quali il giudice non abbia espressamente pronunciato, riguarda esclusivamente le eccezioni in senso proprio, attinenti cioè a fatti modificativi, estintivi o impeditivi, e non anche le contestazioni sull'esistenza del fatto costitutivo della domanda o di elementi dello stesso, le quali devono ritenersi implicitamente comprese nella richiesta di rigetto dell'appello formulata dall'appellato vittorioso nel giudizio di primo grado (Cass. 20 giugno 2005, n. 13218; Cass. 22 maggio 2001, n. 6957). Detta parte, se ha contestato in primo grado an e quantum, non ha l'onere dì riproporre in fase di gravame tali contestazioni, non essendo esse eccezioni, ma mere difese, e può quindi limitarsi a chiedere la conferma della sentenza impugnata (Cass. 19 marzo 1999, n. 2541).

La questione relativa all'accordo che sarebbe intercorso tra le parti in ordine all'importo del compenso - che quindi sarebbe stato predeterminato in base a una convenzione, in modo da precluderne la quantificazione secondo la tariffa professionale - non è menzionata nella sentenza impugnata tra quelle sottoposte all'esame della corte distrettuale e sul punto deve rilevarsi un difetto di autosufficienza. Per un verso, infatti, la questione, assorbita dalla decisione in punto di rilevata impossibilità di riferire il rapporto dedotto in causa all'odierno ricorrente onerava quest'ultimo di farla valere in fase di gravame a norma dell'art. 346 c.p.c. (Cass. 8 novembre 2005, n. 21641); per altro verso, né la sentenza impugnata, né il ricorso indicano che la questione fosse stata sottoposta al giudice dell'appello.

Si osserva, poi, che con riferimento all'indicato profilo non risulta nemmeno chiaramente formulato, in ricorso, uno specifico motivo di impugnazione, essendosi il ricorrente limitato a dedurre che in base a una deposizione testimoniale "le parti si erano accordate sul pagamento della parcella e anche sull'importo delle voci della stessa".

Per quel che concerne, invece, l'ammontare del compenso determinato dalla corte distrettuale sulla base della tariffa, si sottrae a censura, in quanto riservato al giudice del merito, l'apprezzamento circa la particolare consistenza dell'attività professionale svolta dal ricorrente. La corte distrettuale ha rilevato, al riguardo, che l'appellante aveva mancato di rappresentare circostanze che consentissero di individuare profili di particolare complessità nell'attività da lui prestata e tale asserzione non è smentita da risultanze di segno opposto. A tal fine non assumono infatti rilievo allegazioni di contenuto generico della parte. Né le deposizioni trascritte nel corpo del ricorso, le quali sono parimenti connotate dalla mancata aderenza a dati fattuali specifici e circostanziati, forniscono elementi concludenti nella direzione indicata. E' qui appena il caso di rilevare che il vizio di omessa o insufficiente motivazione, deducibile in sede dì legittimità ex art. 360, n. c.p.c., sussiste solo se nel ragionamento del giudice di merito, quale risulta dalla sentenza, sia riscontrabile il mancato o deficiente esame di punti decisivi della controversia e non può invece consistere in un apprezzamento dei fatti e delle prove in senso difforme da quello preteso dalla parte (per tutte: (Cass. 18 marzo 2011, n. 6288).

La denunciata violazione dei minimi tariffari è stata prospettata avendo riguardo ad elementi di giudizio (incontri, ore di studio, accessi in uffici, comunicazioni telefoniche) il cui esame è riservato al giudice di merito. Nemmeno è possibile verificare se, sul punto, la corte distrettuale sia incorsa in un vizio di motivazione - con particolare riguardo all'omesso esame delle circostanze portate al suo esame - stante la mancata specificazione, nel ricorso, degli elementi probatori da cui dovrebbe risultare il fondamento della censura. Infatti, il ricorso per cassazione - per il principio di autosufficienza - deve contenere in sé tutti gli elementi necessari a costituire le ragioni per cui sì chiede la cassazione della sentenza di merito e, altresì, a permettere la valutazione della fondatezza di tali ragioni, senza la necessità di far rinvio ed accedere a fonti esterne allo stesso ricorso e, quindi, ad elementi o atti attinenti al pregresso giudizio di merito (per tutte: Cass. 15 luglio 2015, n. 14784).

Per quanto poi riguarda l'applicazione dell'art. 45 della tariffa, viene argomentato vi sia un lieve scostamento tra l'importo dovuto applicando il minimo tariffario (€ 7.194,69) e quello liquidato dalla corte di merito (€ 7.078,48).

Si tratta, però, di un errore di calcolo, come tale non deducibile in cassazione, ma emendabile, semmai, con la procedura della correzione dell'errore materiale (in termini generali, nel senso che sfugge al sindacato della cassazione l'errore di calcolo aritmetico, determinato da erronea applicazione delle regole matematiche ma sulla base di presupposti numerici non contestati ed esatti: Cass. 15 maggio 2009, n. 11333; in tema di tariffe, con riferimento all'erroneo computo di una voce della stessa cfr. Cass. 21 ottobre 1968, n. 3383).

Si rileva, invece, una carenza di motivazione, con riguardo all'applicata riduzione del 20%.

La corte di merito ha inteso operare la detta detrazione facendo riferimento all'art. 15 d.p.r. n. 100/1997, il quale considera l'ipotesi in cui si pervenga alla definizione della pratica, oltre che con l'opera del ragioniere, anche con il concorso effettivo del cliente o di terzi.

Sennonché, ove questi ultimi si identificassero in professionisti iscritti in altri albi professionali, cui fosse stato affidato pure l'incarico, troverebbe applicazione l'art. 11, 1° co. della tariffa, secondo cui ciascuno dì tali professionisti ha diritto, nei confronti del cliente, ai compensi per l'opera prestata secondo la tariffa della rispettiva categoria professionale.

Nel caso, invece, in cui il professionista si sia avvalso, ai sensi dell'art. 2232 c.c., della collaborazione di sostituti od ausiliari, l'attività di questi risulterebbe giuridicamente assorbita da quella del prestatore d'opera che ha concluso il contratto con il cliente, tanto che il sostituto non sarebbe nemmeno legittimato ad agire contro il cliente medesimo per la corresponsione del compenso (Cass. 27 agosto 1986, n. 5248): è appena il caso di rilevare che in quest'ultima ipotesi la riduzione del compenso di cui all'art. 15 non ha ragion d'essere, non potendosi ipotizzare un abbattimento dell'onorario per un'attività del collaboratore, visto che detta attività è imputabile al professionista per conto del quale egli opera.

In linea teorica, infine, l'apporto, per la definizione della pratica, di un terzo, anche professionista ragioniere, estraneo all'organizzazione del ricorrente, potrebbe giustificare la riduzione di cui all'art. 15 (ove lo stesso abbia svolto, ad esempio, su incarico del cliente, alcune attività, comunque funzionali alla conclusione dell'affare, di cui avrebbe dovuto occuparsi il ricorrente): ma nella sentenza non è specificato se questa sia la situazione che voleva prendersi in considerazione.

Dall'esame unitario dei primi due motivi risulta, dunque, il vizio motivazionale afferente la citata riduzione del 20%.

La corte distrettuale avrebbe dovuto motivare in ordine alla identificazione dei professionisti menzionati nella motivazione della sentenza, facendo corretto riferimento, nei termini che si sono indicati, alle diverse discipline che riguardano, rispettivamente, i professionisti iscritti in altri albi, i professionisti collaboratori del ricorrente e i terzi non collaboratori che abbiano concorso alla definizione della pratica nell'interesse del cliente.

Nei termini indicati, l'esame congiunto dei primi due motivi deve portare alla cassazione della sentenza.

Col terzo motivo è lamentata: violazione degli artt. 91 e 118 disp. att. c.p.c., art. 24, 1° co. 1. n. 794/1942 e della tariffa professionale forense, degli artt. 112 e 115 c.p.c., in relazione all'art. 360, n. 3 c.p.c.; omessa, insufficiente contraddittoria motivazione su un fatto controverso decisivo per il giudizio, in relazione all'art. 360, n. 5 c.p.c..

Statuendo in punto di spese processuali, la corte di merito aveva infatti operato una riduzione delle singole somme liquidate con riferimento al giudizio di primo grado in misura inferiore rispetto sia ai minimi previsti dalle tariffe professionali vigenti, sia rispetto agli importi indicati nella nota specifica depositata; inoltre la decurtazione aveva avuto luogo in assenza di adeguata motivazione. L'accoglimento del ricorso determina l'assorbimento di queste censure.

La sentenza è quindi cassata e va rinviata alla Corte di appello di Perugia, in altra composizione, anche per le spese del presente giudizio di legittimità.

 

P.Q.M.

 

Accoglie per quanto di ragione il ricorso scrutinato con riferimento ai primi due motivi e dichiara assorbito il terzo; cassa la sentenza quanto alle censure accolte e rinvia la causa alla Corte di appello di Perugia, in altra composizione, anche per le spese.