Giurisprudenza - CORTE DI CASSAZIONE - Sentenza 07 aprile 2016, n. 6774

Rapporto di lavoro - Infortunio - Proroga - Violazione dei doveri di fedeltà e diligenza e buona fede

 

Svolgimento del processo

 

Al sig. M.O., dipendente della A. spa veniva contestata la violazione dei doveri di fedeltà e diligenza e buona fede anche con riferimento all'art. 212 CCNL perché assente dal lavoro per le lesioni riportate in un incidente stradale e pendente lo stato di infortunio prorogato più volte si sarebbe recato nonostante la malattie denunciate e documentate, presso l'Agenzia assicurativa da lui gestita; inoltre si sarebbe recato in macchina a fare la spesa.

La protratta assenza dal lavoro secondo l'A. spa non era giustificata da fatti impeditivi, in tutto o in parte, della prestazione e comunque il comportamento tenuto aveva pregiudicato il recupero più rapido possibile della capacità lavorativa per cui veniva comminata la sanzione del licenziamento.

Il M. impugnava il recesso ma il Giudice del lavoro di Taranto rigettava la domanda.

La Corte di appello di Lecce rigettava l'appello del M. con sentenza del 19.11.2012.

La Corte territoriale osservava che il lavoratore, in stato di infortunio più volte prorogato, aveva sostenuto che i postumi dell'infortunio fossero incompatibili con le mansioni effettuate che comportavano stazione eretta e il trasporto di carichi pesanti come computer e televisioni, ma che in ordine alle modalità di svolgimento della prestazione la prova, testimoniale aveva accertato che le mansioni svolte presso la datrice di lavoro erano non dissimili da quelle svolte nell'agenzia assicurativa.

Era stato dato maggior rilievo alle dichiarazioni rese dai testi indotti dall'A. perché presenti sul luogo della prestazione durante l'intero orario di lavoro.

La circostanza per cui l'appellante si fosse recato dallo zio (nello stabile in cui si trovava l'agenzia) solo per riposarsi, dando istruzioni alle segretarie seduto in poltrona, era in sé inverosimile e comunque smentita dalla segretaria che nulla aveva riferito sul punto e che aveva, anzi, confermato che il M. giungeva in agenzia alle 9 del mattino per fare ritorno a casa nell'ora di pranzo per poi rientrare nel primo pomeriggio e trattenersi sino a sera.

I certificati medici prodotti peraltro attestavano solo il prolungamento dell'infortunio ma nulla indicavano circa lo stato di sofferenza. La Corte territoriale concludeva nel senso che l'avere lavorato durante lo stato d'infortunio costituiva violazione del dovere di fedeltà e dei principi di correttezza e buona fede.

La prestazione era in realtà eseguibile e il lavoratore aveva l'onere di mettere a disposizione le proprie energie lavorative eventualmente con l'esclusione dei lavori più gravosi.

Per la cassazione di tale decisione ha proposto ricorso il M. con sei motivi; resiste controporte con controricorso corredato da memoria ex art. 378 c.p.c.

 

Motivi della decisione

 

Con il primo motivo si allega la violazione e falsa applicazione dell'art. 7 L. n. 300/70; dell'art. 219 CCNL, degli artt. 2697 e 2119 c.c. e 416 primo comma c.p.c., nonché l'omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio.

La Corte non aveva considerato che la società era a conoscenza dei movimenti del lavoratore nei primi giorni contestati e quindi avrebbe dovuto da subito contestare i comportamenti tenuti proprio nei giorni in cui erano intervenute le proroghe.

Inoltre il tempo trascorso tra l'ultimo episodio del 3.11.2007 e l'attivazione del potere disciplinare con la comunicazione inviata il 14.12.2007 era eccessivo ed il punto non era stato esaminato.

Il motivo appare infondato.

Circa la prima doglianza emerge dalla sentenza impugnata che in relazione all'assenza dal lavoro del M. sono state richieste ben 5 proroghe; rientrava quindi nel potere del datore di lavoro esaminare la effettiva gravità del comportamento tenuto dal dipendente nel corso dell'intera assenza dal lavoro e valutare se si trattasse di una episodica attività nonostante lo stato di infortunio o meno, anche in ordine al rispetto dei principi di correttezza e buona fede.

La Corte territoriale ha espressamente menzionato la necessità di accertare la continuatività della condotta del lavoratore e pertanto la motivazione appare corretta trattandosi effettivamente di una condotta contestata (ed accertata) come continuativa e non episodica.

Circa l'altra doglianza (che non emerge dalla sentenza impugnata) a stare a quanto si deduce nello stesso motivo l'ultimo episodio è del 3.11 mentre la contestazione è stata inviata il 14.12: non si ravvisa un'abnorme dilazione dei tempi posto che era necessario comunque vagliare almeno tre elementi: gli episodi di attività svolta in costanza di infortunio, le certificazioni di infortunio ed ancora la compatibilità tra l'attività svolta presso l'Agenzia e quella presso il datore di lavoro. Il motivo parte dall'erroneo presupposto che, avendo il datore di lavoro accertato il primo elemento, dovesse necessariamente arrivare ad una immediata contestazione, il che è da escludere essendo prima necessario vagliare anche gli ulteriori due elementi prima ricordati per concludere circa l'esistenza di un fatto disciplinarmente rilevante, posto che il lavoratore ha sempre giustificato le assenze con documentazione medica.

Del resto il breve intervallo temporale prima ricordato non poteva di certo far ritenere al M. che il datore di lavoro avesse abdicato al potere disciplinare in relazione ai fatti di cui è causa, né certamente ha potuto metterlo in difficoltà nel giustificare la condotta tenuta.

Con il secondo motivo si allega la violazione dell'art. 132 c.p.c. comma secondo e quarto ex art. 360 c.p.c., nonché la nullità della sentenza in relazione all'art. 360, n. 4 c.p.c.

La sentenza offre una motivazione apparente in quanto non esamina nel merito le deposizioni rese dai testi considerati meno attendibili di quelli indotti da parte del datore di lavoro; inoltre è assolutamente carente la motivazione circa la mancata ammissione della prova in ordine al periodo di tempo trascorso dal M. nell’abitazione dello zio.

Il motivo appare inammissibile in quanto pone questioni concernenti pretesi vizi e carenze motivazionali della sentenza impugnata oggi non proponibili più ai sensi del novellato n. 5 dell'art. 360 cpc applicabile ratione temporis.

Questa Corte ha già a sezioni unite affermato che "L'art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ., riformulato dall'art. 54 del d.l. 22 giugno 2012, n. 83, conv. in legge 7 agosto 2012, n. 134, introduce nell'ordinamento un vizio specifico denunciabile per cassazione, relativo all'omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (vale a dire che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia).

Ne consegue che, nel rigoroso rispetto delle previsioni degli artt. 366, primo comma, n. 6, e 369, secondo comma, n. 4, cod. proc. civ., il ricorrente deve indicare il "fatto storico", il cui esame sia stato omesso, il "dato", testuale o extratestuale, da cui esso risulti esistente, il "come" e il "quando" tale fatto sia stato oggetto di discussione processuale tra le parti e la sua "decisività", fermo restando che l'omesso esame di elementi istruttori non integra, di per sé, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorché la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie" (Cass. SSUU n. 8053/2014). Nel caso in esame il" minimo costituzionale" non è stato violato posto che la Corte di appello ha analiticamente spiegato perché appariva corretto preferire la versione resa da colleghi di lavoro del M. che erano a contatto con il lavoratore durante l'intero orario di lavoro rispetto a soggetti che erano solo clienti o frequentatori saltuari dell'esercizio gestito dal latore di lavoro.

La dedotta radicale carenza motivazionale non sussiste neppure riguardo il secondo profilo avendo la Corte di appello spiegato le ragioni per cui la prova dedotta non doveva essere ammessa in quanto su circostanze in sé inverosimili e neppure confermate o accennate dalla segretaria dell'agenzia gestita dal M.; la motivazione appare, invece, congrua e logicamente coerente ed ancorata a elementi obiettivi.

Con il terzo motivo si allega l'omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio.

Si censura la sentenza impugnata per "la denunciata discrasia di versione fornite dai citati testi.

Il motivo appare inammissibile in quanto non coerente con la nuova formulazione dell'art. 360 n. 5 c.p.c. anche alla luce delle delucidazioni offerte da questa Corte già ricordate (Cass. n. 8053/2014) che si condivide totalmente ed a cui si intende dare continuità: non è più possibile far valere l'insufficiente o contraddittoria motivazione ma solo il mancato esame di un fatto decisivo.

Nel caso in esame il fatto di cui si discute e cioè le mansioni concretamente svolte dal M. è stato valutato e non rileva "l'omesso esame di elementi istruttori qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorché la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie, come affermato nella già citata decisione.

Con il quarto motivo si allega la violazione e falsa applicazione in relazione all'art. 360 c.p.c. degli artt. 2697 c.c. e 115 comma primo c.p.c. Non era stato dato modo attraverso una CTU di dimostrare che l'attività svolta non era dannosa per la guarigione.

Il motivo appare infondato avendo la Corte di appello accertato che evidentemente il M. era in condizioni di svolgere la normale attività lavorativa posto che ne aveva svolto un'altra in orari di uffici di carattere omogeneo ( ed altre attività faticose come il trasporto sino a cinque borse di spesa) e quindi era suo onere comunicare la propria disponibilità a riprendere al lavoro almeno nelle attività meno impegnative sul piano fisico, il che non era avvenuto in violazione dei principi di correttezza e buona fede.

Si tratta di un'autonoma ratio decidendi che non viene impugnata nel motivo che si limita a contestare che la condotta del M. abbia potuto aggravare il processo di guarigione, punto che la Corte di appello da per scontato affermando solo che tale valutazione va collocata ex ante e non post.

In ogni caso l'accoglimento del motivo non condurrebbe all'accoglimento del ricorso perché non si impugna, come detto, che la mancata comunicazione al datore di lavoro di una situazione migliorata dal punto di vista fisico (che consente la prestazione contrattuale) costituisca una violazione dei principi di correttezza e buona fede.

Con il quinto motivo si allega la violazione e falsa applicazione degli artt. 2110, 2104 comma primo c.c., degli artt. 1175, 1375 c.c. e 115 comma primo. Lo stato di inabilità al lavoro era attestato da certificati medici e comunque esisteva un accertamento del Giudice del lavoro che aveva riconosciuto il diritto del M. all'indennizzo per danno biologico per l'infortunio di cui si parlato che faceva stato riguardo la patologia e la sua entità.

Il motivo appare infondato.

Circa la sentenza menzionata la stessa non è stata né prodotta né riprodotta e non è stato neppure comprovato che sia passata in cosa giudicata. Non emerge neppure dai motivo chiaramente quali siano gli accertamenti compiuti in quella sede. Circa l'altra doglianza la Corte di appello sui punto ha già osservato che i certificati medici richiamati dal ricorrente nulla comprovano in ordine alla gravità della malattia sofferta e in ordine al suo decorso ma solo il prolungamento della prognosi, sicché non possono essere fatti valere per dimostrare l'impossibilità di riprendere al lavoro, mentre la dinamica dei fatti aveva dimostrato che un certo tipo di prestazione era possibile tant'è che il M. aveva svolto attività consimili nell'Agenzia da lui gestita.

Con l'ultimo motivo si allega la violazione dell'art. 112 c.p.c.

Non era stata esaminata la domanda di dichiarazione di nullità del recesso per sproporzione.

Il motivo appare inammissibile in quanto non si comprova che sia stato (dando per ammesso che la questione sia stata ritualmente posta in primo grado, il che appare discutibile alla stregua delle stesse allegazioni di parte ricorrente) articolato uno specifico motivo di impugnazione che nel motivo non è indicato (anzi si ammette che la questione sarebbe stata adombrata "nel corpo del ricorso").

Il tema della proporzionalità non è stato, quindi, introdotto nel thema decidendum in appello per scelta del ricorrente e quindi la Corte di appello non doveva di certo esaminarla.

Le spese del giudizio di legittimità, liquidate come al dispositivo, seguono la soccombenza.

La Corte ai sensi dell'art. 13 comma 1 quater del d.p.r. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente in via principale, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma del comma 1-bis, dello stesso articolo 13.

 

P.Q.M.

 

Rigetta il ricorso.

Condanna parte ricorrente alle spese del giudizio di legittimità che si liquidano in euro 100,00 per esborsi nonché in euro 3.500,00 per compensi nonché IVA e CPA oltre spese generali nella misura del 15%.

La Corte ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.p.r. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1-bis, dello stesso articolo 13.