Giurisprudenza - CORTE DI CASSAZIONE - Sentenza 01 aprile 2016, n. 6332

Tributi - Avviso di accertamento, per maggiori IRES, IVA ed IRAP dovute

 

Ritenuto in fatto

 

La P.B. srl propone ricorso per cassazione, affidato a otto motivi, nei confronti dell'Agenzia delle Entrate (che resiste con controricorso), avverso la sentenza della Commissione Tributaria Regionale del Lazio n. 276/35/2013, depositata in data 12/12/2013.

La controversia concerne l'impugnazione di un avviso di accertamento, per maggiori IRES, IVA ed IRAP dovute nell'anno d'imposta 2005, emesso, a carico della società P.B. srl (controllata dalla società di diritto lussemburghese S.L.H. s.a.r.l.), per effetto della ripresa a tassazione di elementi negativi di reddito, consistenti nella deduzione come costo, nell'esercizio suddetto, dell'intera somma dovuta in forza di una clausola, apposta nel contratto di compravendita di un complesso immobiliare sito in Roma ed assunta dalla P.B., quale venditore, in favore della società acquirente, di "rendimento minimo garantito", per undici anni (in misura pari alla differenza tra quanto sarebbe stato ritratto dalle locazioni ed un tetto prefissato), e nei costi di una fattura emessa da terza società per "attività di consulenza ed assistenza finanziaria" (ritenuta dall'Ufficio inesistente), nella sopra indicata operazione di compravendita immobiliare, nonché per effetto della ripresa a tassazione di elementi positivi (la differenza tra gli interessi percepiti al tasso di interesse dichiarato del 2% e quello "normale", ritenuto dall'Ufficio pari al 4,3%) non dichiarati, derivanti da un finanziamento infragruppo, in violazione della regola del c.d. transfer pricing.

Con la sentenza impugnata è stata riformata la decisione di primo grado, che aveva parzialmente accolto il ricorso della contribuente.

I giudici di primo grado, infatti, avevano accolto il ricorso limitatamente al primo rilievo contestato dall'Ufficio, in relazione alla compravendita immobiliare, ritenendo illegittimo l'addebito, stante la rispondenza dell'operazione a valide ragioni economiche (poter disporre, per la società venditrice, "in tempi brevi di una ingente liquidità difficilmente ottenibile dal sistema bancario") e considerato che, essendo, all'epoca, l'immobile già locato alla T.I. spa, con un canone annuo pari ad € 4,5 milioni annui, la garanzia era rappresentata "esclusivamente dall'eccedenza tra il reddito promesso e quello derivante dal rapporto locativo". I giudici della C.T.P. avevano, invece, ritenuti legittimi gli ulteriori rilievi.

I giudici d'appello, nell'accogliere, anzitutto, il gravame principale dell'Agenzia delle Entrate, hanno sostenuto che l'anomalia dell'operazione immobiliare risiedeva "nella previsione di una redditività garantita pari al doppio del pattuito canone locativo" (all'acquirente veniva garantito, a fronte della cessione di un immobile di rilevante valore, "il rimborso pieno del prezzo corrisposto nell 'arco di un decennio in parte attraverso esborsi a carico della società cedente ed in parte attraverso la rinuncia ad una entrata certa nel suo ammontare"), con conseguente diseconomicità dell'operazione complessiva pur tenuto conto della difficoltà di ottenere sul mercato immobiliare una disponibilità immediata di così rilevante ammontare.

Gli stessi giudici hanno respinto, poi, l'appello incidentale della contribuente, confermando le statuizioni di primo grado in ordine alla legittimità degli ulteriori rilievi mossi dall'Ufficio erariale, vale a dire, la ripresa a tassazione degli interessi attivi derivanti da un finanziamento in favore di una consociata estera, considerato che l'onerosità del contratto per la mutuante, in rapporto anche all'ingente somma prestata, sottratta all'utilizzazione ai fini di produrre redditività d'impresa, evidenziava "un'anomalia tale da fare ritenere che lo scopo preminente dell'operazione fosse quello di lucrare indebiti benefici fiscali ovvero di trasferire capitali all'estero in violazione della vigente normativa", e là ripresa a tassazione dei costi derivanti da un'operazione (attività di intermediazione finanziaria) oggettivamente inesistente, valutati gli elementi probatori forniti dall'Ufficio (il conferimento del mandato "il giorno prima della sottoscrizione dell'atto di vendita"; la mancata prova, da parte della terza società, dell'attività svolta).

 

Considerato in diritto

 

1. La società ricorrente lamenta, in relazione al primo rilievo presente nell'atto impositivo impugnato (costi per la garanzia di redditività prestata): 1) con il primo motivo, la violazione o falsa applicazione, ex art. 360 n. 3 c.p.c., degli artt. 1 DPR 600/1973 e 19 d.lgs. 446/1997, avendo la contribuente correttamente adempiuto ai propri obblighi dichiarativi, contabilizzando l'importo di € "45.446.798,00", quale differenza tra il reddito minimo garantito (€ 99.000.000,00) alla società acquirente ed il canone di locazione, complessivamente addebitato alla conduttrice T.I. spa, nell'arco degli undici anni, considerati dal contratto, tanto che l'Ufficio aveva contestato l’indeducibilità del costo per antieconomicità dell'operazione; 2) con il secondo motivo, la violazione o falsa applicazione, ex art. 360 n. 3 c.p.c., dell'art. 39 comma 1 DPR 600/1973 e dell'art. 2697 c.c., avendo i giudici d'appello ritenuto legittimo l'accertamento induttivo, pur non essendo risultate incompletezze, falsità o inesattezze degli elementi esposti in dichiarazione e pur essendosi l'Ufficio, gravato del relativo onere probatorio, limitato a dedurre l'esistenza di una presunta antieconomicità, non dimostrata; 3) con il terzo motivo, l'omesso esame, ex art. 360 n. 5 c.p.c., circa un fatto decisivo per il giudizio, oggetto di discussione tra le parti, non avendo i giudici della C.T.R. tenuto conto del fatto che, in forza della garanzia di redditività, la società non avrebbe dovuto corrispondere all'acquirente "un importo addirittura superiore" al prezzo incassato dalla compravendita, in quanto detto onere avrebbe potuto comportare un costo massimo di € 45.446.800,00 (dato dalla differenza tra il reddito minimo garantito ed il canone annuo per il periodo di undici anni già pattuito con la conduttrice T.) e non di € 99.000.000,00, come ex adverso ritenuto; 4) con il quarto motivo, la nullità della sentenza, ex art. 360 n. 4 c.p.c., per violazione o falsa applicazione degli artt. 115 e della C.T.R. della documentazione offerta dalla ricorrente.

1.a. I primi due motivi, da esaminare insieme, sono infondati.

Occorre rilevare anzitutto che l’antieconomicità dell'operazione, ragione fondante la sentenza della C.T.R. qui impugnata, va desunta dal rapporto tra il prezzo di vendita dell'immobile e le obbligazioni assunte dalla società venditrice e non, come viene operato con la decisione impugnata, dal rapporto tra gli obblighi assunti nella clausola di rendimento minimo garantito ed il canone pattuito.

La prestazione di una garanzia di rendimento minimo locatizio, quindi, in sé non implica un giudizio di antieconomicità dell’operazione, che deve essere invece valutata nell'insieme delle condizioni contrattuali e di mercato.

La stessa Agenzia delle Entrate rileva che il prezzo di compravendita dell’immobile, già locato dall'acquirente la terza società, appariva palesemente fuori mercato, perché troppo elevato, ma la società acquirente è stata determinata al pagamento di un prezzo maggiore di quanto emergente dal mercato, proprio a fronte della garanzia di una redditività del capitale più elevata di quella che il mercato stesso avrebbe garantito, in quanto la venditrice si impegnava a versare una cifra specifica, "€ 45.446.798,00", data dalla differenza tra il reddito minimo garantito, "€ 99.000.000,00", alla acquirente ed il canone di locazione già contrattualmente concordato con la società T.I. spa, nell'arco temporale di 11 anni.

Le società contraenti hanno quindi ritenuto, nella loro libera determinazione dei prezzi, di porre in essere un negozio giuridico in cui il sinallagma e l'equilibrio delle prestazioni derivasse da una non indifferente retribuzione dell'intero capitale versato. E l'economicità deve essere giudicata in funzione dell'equilibrio costituito dai costi e benefici.

Tuttavia, diverso è il discorso da farsi per la concreta deduzione del costo suddetto, "€ 45.446.798,00", iscritto in bilancio dalla contribuente, per l'intero ammontare, nell'anno d'imposta 2005, e non anno per anno, al verificarsi dell'effettivo sostenimento.

Va invero precisatogli D.P.R. n. 917 del 1986, art. 109, stabilisce che "I ricavi, le spese e gli altri componenti positivi e negativi, per i quali le precedenti norme della presente Sezione non dispongono diversamente, concorrono a formare il reddito nell'esercizio di competenza; tuttavia i ricavi, le spese e gli altri componenti di cui nell‘esercizio di competenza non sia ancora certa l’esistenza o determinabile in modo obiettivo l’ammontare concorrono a formarlo nell'esercizio in cui si verificano tali condizioni" ed, al comma 5, che "le spese e gli altri componenti negativi diversi dagli interessi passivi, tranne gli oneri fiscali, contributivi e di utilità sociale, sono deducibili se e nella misura in cui si riferiscono ad attività o beni da cui derivano ricavi o altri proventi che concorrono a formare il reddito.

Tale disposizione è stata costantemente interpretata da questa Corte nel senso che i costi, per essere ammessi in deduzione quali componenti negativi del reddito di impresa, debbono soddisfare i requisiti di effettività, inerenza, certezza, determinatezza (o determinabilità) e competenza (Cass. n. 10167 del 2012; nn. 3258, 12503 e 24429 del 2013; nn. 1565, 13806 e 21184 del 2014; nn. 426, 1011 e 7214 del 2015).

Peraltro, dal primo comma della stessa norma - per cui i ricavi, le spese e gli altri componenti positivi e negativi, per i quali le precedenti norme del presente capo non dispongono diversamente, concorrono a formare il reddito nell'esercizio di competenza; tuttavia i ricavi, le spese e gli altri componenti di cui nell'esercizio di competenza non sia ancora certa l'esistenza o determinabile in modo obiettivo l'ammontare concorrono a formarlo nell'esercizio in cui si verificano tali condizioni - si desume che, in mancanza di diverse disposizioni specifiche, laddove vi sia incertezza nell’an o indeterminabilità nel quantum, il principio di cassa soppianta quello di competenza.

In altri termini, i componenti negativi che concorrono a formare il reddito possono essere imputati all’anno di esercizio in cui ne diviene certa l'esistenza - o determinabile in modo obiettivo l'ammontare - qualora di tali qualità fossero privi nel corso dell'esercizio di competenza (Cass. n. 3368 del 2013 citata).

Dunque, dalla complessiva prescrizione dell'art. 75 cit., si desume che, per le spese e gli altri componenti negativi di cui non sia ancora certa l'esistenza o determinabile in modo obiettivo l'ammontare, il legislatore prevede una deroga al principio della competenza, consentendo la loro deducibilità nel diverso esercizio nel quale si raggiunge la certezza della loro esistenza ovvero ammontare (Cass. n. 17568 del 2007).

Nel caso di specie, una tale valutazione è mancata poiché, come sopra riferito, la C.T.R. ha erroneamente fondato la decisione sulla diseconomicità dell'operazione complessiva.

Tuttavia, nel caso in esame, un accertamento in concreto non è necessario poiché nell'esercizio di riferimento (2005) è stato portato in deduzione l'intero importo, malgrado si trattasse di costi in parte non ancora effettivamente sostenuti, ma futuri, eventualmente sostenibili negli esercizi successivi, a seguito del raffronto tra quanto effettivamente incassato dalla locazione (con la T.) e la cifra fissa garantita dalla società venditrice.

La clausola di redditività minima garantita, a prescindere da ogni considerazione in termini di antieconomicità dell'operazione, ha proprio lo scopo di intervenire per ripristinare il sinallagma contrattuale, solo nel caso in cui si verifichi la sproporzione tra la redditività garantita e quella effettiva.

Poiché, nella specie, il quantum della garanzia è determinato nella differenza tra il canone corrisposto dalla conduttrice, sulla base di contratto di locazione già in essere, e la cifra prefissata concordata tra le parti del contratto di compravendita immobiliare, risulta che l’integrazione a garanzia è ontologicamente idonea ad operare - il che esclude la necessità di un accertamento in concreto - solo al termine di ciascun anno locatizio, alla fine del quale si deve verificare l'effettiva sproporzione tra quanto incassato a titolo di canone e quanto garantito.

Ne consegue, sotto tale profilo, la legittimità della ripresa a tassazione.

1. b. Il terzo ed il quarto motivo sono assorbiti.

2. La stessa società, in relazione al capo della sentenza riguardante il secondo rilievo (interessi attivi su finanziamenti concessi), lamenta: 5) con il quinto motivo, la nullità della sentenza, ex art. 360 n. 4 c.p.c., per carenza di motivazione in violazione degli artt. 132 n. 4 c.p.c., 118 disp.att.c.p.c. e 36 d.lgs. 546/1992, essendo la decisione nella sostanza "appiattita" sulle argomentazioni attinte dagli atti dell'Ufficio e comunque sul pronunciamento dei primi giudici, senza alcuna autonoma valutazione.

Il motivo è infondato.

La sentenza riporta i tratti essenziali della controversia (contenuto, sia pure per estratto, degli atti impositivi, l'impugnazione dei contribuenti, le statuizioni di primo grado, gli appelli, riassunti sinteticamente ed, in parte, anche trascritti) e, come anche ribadito di recente (Cass. SS.UU. 642/2015), già prima della riforma del 2009 - che ha eliminato la necessità di esporre in sentenza lo svolgimento del processo - questa Corte aveva precisato - che la mancanza formale della concisa esposizione dello svolgimento del processo - come anche della indicazione delle parti o delle conclusioni (che la riforma del 2009 non ha soppresso) - non vale ad integrare un motivo di nullità della sentenza, se dalla lettura di essa è comunque possibile individuare i passaggi essenziali della vicenda processuale e gli elementi di fatto rilevanti della causa e considerati o presupposti nella decisione (v. tra le altre Cass. n. 3066 del 2002).

Le Sezioni Unite di questa Corte (Cass. 642/2015) hanno infatti chiarito che "nel processo civile ed in quello tributario, la sentenza la cui motivazione si limiti a riprodurre il contenuto di un atto di parte (o di altri atti processuali o provvedimenti giudiziari), senza niente aggiungervi, non è nulla qualora le ragioni della decisione siano, in ogni caso, attribuibili all'organo giudicante e risultino in modo chiaro, univoco ed esaustivo, atteso che, in base alle disposizioni costituzionali e processuali, tale tecnica di redazione non può ritenersi, di per sé, sintomatica di un difetto d'imparzialità del giudice, al quale non è imposta l'originalità né dei contenuti né delle modalità espositive, tanto più che la validità degli atti processuali si pone su un piano diverso rispetto alla valutazione professionale o disciplinare del magistrato".

Le Sezioni Unite, richiamando le pronunce che hanno riconosciuto la possibilità per il giudice di motivare per relationem, hanno ribadito che la completezza e logicità della sentenza motivata in tal modo deve essere giudicata sulla base degli elementi contenuti nell'atto al quale si opera il rinvio, atto che, proprio in ragione del rinvio, diviene parte integrante dell'atto rinviante.

La sentenza ha evidenziato come il contratto di mutuo (in favore della controllante lussemburghese, per un ammontare di circa 92 milioni, pari alla totalità dei proventi ottenuti dalla operazione di vendita immobiliare, ad un tasso di interesse pari al 2% annuo) fosse da ritenere "decisamente oneroso per la mutuante", tenuto conto anche dell'entità della somma mutuata e della sua sottrazione alla redditività dell'impresa.

Non vi è stato pertanto mero acritico rinvio alla motivazione dei giudici di primo grado.

3. Infine la ricorrente, riguardo al capo della sentenza relativo al terzo rilievo (compensi a professionisti ritenuti riconducibili ad operazioni oggettivamente inesistenti), deduce: 6) con il sesto motivo, la nullità della sentenza, ex art. 360 n. 4 c.p.c., per omessa pronuncia in violazione all'art. 112 c.p.c., non avendo i giudici della C.T.R. pronunciato sull'eccezione, formulata dalla contribuente sin dal primo grado e reiterata nell'appello incidentale, avente ad oggetto la dimostrazione della realità delle prestazioni rese dalla B&B srl a favore di essa società; 7) con il settimo motivo, la violazione o falsa applicazione, ex art. 360 n. 3 c.p.c., dell'art. 2697 c.c., avendo i giudici della C.T.R. errato nel fare ricadere sulla contribuente l'onere probatorio di dimostrare l'effettiva esistenza della prestazione oggetto di fatturazione; 8) con l'ottavo motivo, la nullità della sentenza, ex art. 360 n. 4 c.p.c., per violazione o falsa applicazione degli artt. 115 e 116 c.p.c., stante la "mancata valutazione" da parte della C.T.R. della documentazione offerta dalla ricorrente a dimostrazione della realità delle prestazioni eseguite dalla B&B srl.

Le suddette censure sono tutte infondate o inammissibili.

3.a. La prima (sesto motivo) è infondata, essendo invocato un vizio di nullità della sentenza, per omessa pronuncia, insussistente, avendo la C.T.R. dato contezza di tutti gli elementi ritenuti idonei indici della non effettività delle operazioni di intermediazione.

3.b. Il settimo motivo è del pari infondato, in quanto presuppone una violazione da parte della C.T.R. della regola del riparto probatorio in ambito di operazioni inesistenti, laddove la Commissione ha semplicemente ritenuto che l'Agenzia avesse fornito "sufficienti elementi presuntivi" per fare dubitare della effettività di operazioni regolarmente contabilizzate, non vinti da idonea prova contraria del contribuente.

3.c. L'ottavo motivo è invece inammissibile, in quanto si deduce con esso un vizio di nullità della sentenza, ex art. 360 n. 4 c.p.c., per asserita mancata valutazione di elementi istruttori documentali, offerti dalla contribuente ("il bilancio chiuso al 31/12/2005", "il contratto preliminare", "il contratto di locazione con T."), laddove costituisce principio consolidato quello secondo il quale "l’esame dei documenti esibiti e delle deposizioni dei testimoni, nonché la valutazione dei documenti e delle risultanze della prova testimoniale, il giudizio sull'attendibilità dei testi e sulla credibilità di alcuni invece che di altri, come la scelta, tra le varie risultanze probatorie, di quelle ritenute più idonee a sorreggere la motivazione, involgono apprezzamenti di fatto riservati al giudice del merito, il quale, nel porre a fondamento della propria decisione una fonte di prova con esclusione di altre, non incontra altro limite che quello di indicare le ragioni del proprio convincimento, senza essere tenuto a discutere ogni singolo elemento o a confutare tutte le deduzioni difensive, dovendo ritenersi implicitamente disattesi tutti i rilievi e circostanze che, sebbene non menzionati specificamente, sono logicamente incompatibili con la decisione adottata" (Cass. 12362/2006; Cass. 17097/2010).

Né si verte in ipotesi di non contestazione ai sensi dell'art. 115 c.p.c., concernendo detta norma solo fatti specifici e non la loro valutazione. Nella specie, a fronte della riforma dell'art. 360 n. 5 c.p.c., pienamente operante, la ricorrente tenta di introdurre, attraverso la deduzione di un error in procedendo, un nuovo giudizio sul fatto e sulla rilevanza o meno di elementi probatori documentali.

4. In conclusione, il ricorso va respinto.

Le spese, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza. Ai sensi dell'art. 13, comma 1 quater del DPR 115/2002, si dà atto della ricorrenza dei presupposti per il versamento da parte della ricorrente dell'importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13.

 

P.Q.M.

 

Respinge il ricorso; condanna la parte ricorrente al rimborso delle spese processuali del presente giudizio di legittimità, liquidate in complessivi € 25.000,00, a titolo di compensi, oltre eventuali spese prenotate a debito.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, la ricorrente è tenuta a versare un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per l’impugnazione.