Giurisprudenza - CORTE DI CASSAZIONE - Sentenza 05 aprile 2016, n. 12902

Sequestro preventivo - Conti societari - Elementi passivi fittizi, tramite false fatture, nelle dichiarazioni - Indicazione di elementi attivi per un ammontare inferiore a quello effettivo - Elementi passivi fittizi, con il superamento delle soglie di legge

 

Ritenuto in fatto

 

1. - Con ordinanza del 15 aprile 2015, il Tribunale di Milano ha rigettato la richiesta di riesame avverso il decreto di sequestro preventivo emesso dal Gip dello stesso Tribunale il 10 marzo 2015, avente ad oggetto i conti societari della L. s.r.l. fino alla concorrenza di euro 1.644.330,24 e, in caso di incapienza, i beni mobili e immobili intestati all'indagata, legale rappresentante della società, M.I., per i reati di cui agli artt. 81, secondo comma, cod. pen. 2 e 4 del decreto legislativo n. 74 del 2000, in relazione all'indicazione di elementi passivi fittizi, tramite false fatture, nelle dichiarazioni per gli anni di imposta 2010-2011 e all'Indicazione di elementi attivi per un ammontare inferiore a quello effettivo ed elementi passivi fittizi, con il superamento delle soglie di legge, relativamente agli anni di imposta 2009-2010.

2. - Avverso l'ordinanza l'indagata ha proposto, tramite il difensore, ricorso per cassazione, chiedendone l'annullamento.

2.1. - Con un primo motivo di doglianza, si contesta la falsa applicazione dell'art. 4 del d.lgs. n. 74 del 2000, nonché delle disposizioni civilistiche relative al rapporto di conto corrente. La difesa premette che il superamento della soglia di punibilità di cui al richiamato art. 4, comma 1, lettera b), sarebbe determinato dalla mancata indicazione, tra gli elementi attivi di reddito, di euro 3.489.321,00 per il 2009 e di euro 1.328.322,00 per il 2010, che deriverebbero - secondo l'ipotesi accusatoria - dalla prescrizione di debiti contratti dalla L. s.r.l. nei confronti della AIPA s.p.a., società ad essa collegata fino all'anno 2005.

La difesa aveva esibito una comunicazione di quest'ultima società che, fino dall'anno 1983, attestava l'esistenza di un rapporto di conto corrente tra le due società. Non si sarebbe considerato che il rapporto di conto corrente in questione era sempre rimasto in essere fra le parti ed era sempre stato movimentato negli anni, sia con rimborsi parziali da parte di L. s.r.l., sia con l'addebito degli interessi attivi da parte di AIPA s.p.a., sia, infine, con il parziale pagamento degli stessi interessi da parte della venditrice, la quale aveva iscritto nella sua contabilità e nei suoi bilanci i debiti derivanti dal rapporto di conto corrente in questione. Il Tribunale avrebbe affermato, contro l'evidenza documentale, l'inapplicabilità delle disposizioni degli artt. 1823 e ss. cod. civ. in tema di conto corrente ordinario: e non sarebbe rilevante, in tale senso, l'indicazione nelle fatture per interessi emesse dalla AIPA, con la dicitura utilizzata "conto corrente di corrispondenza".

Inoltre, il Tribunale non avrebbe fornito adeguata motivazione sulla ragione per cui il rapporto di conto corrente si sarebbe prescritto proprio negli anni 2009-2010 e non prima, né avrebbe considerato che vi erano stati rimborsi parziali del debito e degli interessi, che avevano avuto un effetto interruttivo delle prescrizioni. Nella fattispecie in esame dovrebbe, invece, operare l'art. 2944 cod. civ., che prevede che la prescrizione è interrotta dal riconoscimento del diritto da parte del debitore; dovrebbe altresì operare l'art. 2938 cod. civ., secondo cui la prescrizione non opposta non può essere rilevata d'ufficio dal giudice.

2.2. - Con un secondo motivo di doglianza si deducono l'erronea applicazione dell'art. 2 del d.lgs. n. 74 del 2000 e la carenza di motivazione in relazione all'elemento del dolo specifico di evasione in capo all'indagata. Non si contesta che la L. s.r.I., che aveva emesso le fatture per le operazioni asseritamente inesistenti di cui all'imputazione provvisoria, fosse una mera società di comodo. Si evidenzia, però, che i rapporti con tale società sarebbero nati su indicazione di tale F.

Il Tribunale avrebbe omesso di valutare le dichiarazioni rese da tale soggetto, che strumentalmente aveva negato di aver avuto rapporti con la società L. e contemporaneamente aveva affermato di avere svolto attività in favore di L.

Più in generale, non si sarebbe considerato che F. aveva avuto un ruolo fondamentale nel procacciamento e nella gestione di un importante cliente della società L. proprio nell'anno 2010, anno al quale si riferisce il contratto da questa sottoscritto con L. s.r.l.

2.3. - Si contesta, in terzo luogo, la violazione dell'art. 545 cod. proc. civ., con riferimento alla dedotta impignorabilità, oltre il quinto, delle somme sequestrate all'indagata e da questa incassate in ragione del rapporto di lavoro intrattenuto con la AIPA s.p.a. Secondo il Tribunale il sequestro sarebbe legittimo, in quanto il richiamato art. 545 opererebbe solo nel caso di sequestro di crediti vantati nei confronti del datore di lavoro, mentre laddove tali crediti fossero già stati incassati, non potrebbe trovare applicazione. La difesa sostiene di avere dimostrato, sulla base della documentazione allegata, che in seguito alla cessazione del rapporto di lavoro tra l'indagata e la società AIPA, l'indagata stessa avevo ricevuto emolumenti e altre indennità lavorative con accrediti bancari sul suo conto corrente. Su tale conto non vi erano state ulteriori entrate rispetto a tali rimesse, cosicché non si era verificata alcuna confusione patrimoniale. Si contesta, inoltre, la sequestrabilità del valore incorporato in una polizza vita accesa dalla ricorrente e si rileva che il capitale conferito da questa in polizza attualmente non è nella sua disponibilità, bensì nella disponibilità della società di assicurazione, tenuta a renderlo all’assicurato solo in caso di morte o di riscatto.

All'udienza in camera di consiglio davanti a questa Corte la difesa ha prodotto ulteriore documentazione a sostegno della sua prospettazione.

 

Considerato in diritto

 

3. - Il ricorso è infondato.

3.1. - Il primo motivo di doglianza - con cui si contesta, in sostanza, la ritenuta prescrizione di debiti contratti dalla L. s.r.l. nei confronti della AIPA s.p.a., società ad essa collegata fino all'anno 2005 - è inammissibile, ai sensi dell'art. 325, comma 1, cod. proc. pen. Esso è infatti basato su censure che - al di là della loro intestazione formale - non sono sostanzialmente riferite a violazioni di legge, ma a pretesi vizi della motivazione circa la configurabilità di un rapporto di conto corrente fra le due società.

Tale evenienza è stata, del resto, esclusa dal Tribunale con motivazione pienamente sufficiente e logicamente coerente, nella quale si valorizza il dato indiziario rappresentato dall'indicazione, nelle fatture per interessi emesse dalla AIPA, dell'impropria dicitura "conto corrente di corrispondenza". Si è, in particolare, evidenziato che: a) la società dell'indagata aveva ricevuto dalla AIPA nell'anno 2009 un finanziamento per € 5.200.000, rispetto al quale erano stati annotati nelle scritture interessi attivi, deducendo negli anni 2009 2010 gli importi per i corrispondenti interessi passivi; b) tale erogazione non trova alcun riscontro documentale, nonostante il suo ingente importo, né la società AIPA apparteneva all'epoca allo stesso gruppo o svolgeva attività bancaria o creditizio; c) conseguentemente, si è ritenuto che gli interessi passivi dedotti a partire dall'esercizio commerciale 2009 non fossero deducibili e, pertanto, avessero generato un'indebita sottrazione dell'imponibile, senza che la difesa abbia mai mosso rilievi specifici su tale aspetto. Quanto alle fatture emesse dalla società AIPA a fronte degli interessi attivi maturati sul cosiddetto "conto corrente di corrispondenza", così indicato testualmente nelle fatture di riferimento, si è correttamente evidenziato che - allo stato degli atti - i debiti della società dell'indagata dovevano ritenersi prescritti, in quanto sostanzialmente non afferenti ad un conto corrente aperto. Non sussistono, dunque, i presupposti per ritenere applicabili gli artt. 1823 e ss. cod. civ., in forza dei quali i debiti confluiti su un conto corrente non possono considerarsi prescritti in quanto non ancora esigibili fino a chiusura del conto.

La prospettazione difensiva relativa all'esistenza di tale rapporto è, infatti, risultata sostanzialmente sfornita di prova: il Tribunale ha evidenziato - con valutazione di merito insindacabile in questa sede - che, dalla documentazione in atti, emerge, al più, un rapporto di conto corrente acceso nel 1983, oltre a un prospetto riferito al periodo tra il 1998 e il 2008, indicato con una diversa numerazione; cosicché pare che vi sia soluzione di continuità fra due rapporti, senza che vi sia la possibilità di ricostruire con sufficiente chiarezza l'andamento e la reale natura degli stessi.

E in tal senso deve essere letta la circostanza che la società AIPA abbia nel 2009 effettuato a vantaggio della società dell'indagata un'erogazione finanziaria di ingentissimo importo, pur non facendo parte dello stesso gruppo già dal 2005. Ne consegue che non risulta, a ben vedere, sufficientemente chiara neanche l'originaria effettiva esistenza dei debiti verso la società AIPA che si assumono comunque estinti per prescrizione; cosicché nessun rilievo decisivo può essere attribuito al richiamo operato dalla difesa all'art. 2944 cod. civ., che prevede che la prescrizione è interrotta dal riconoscimento del diritto da parte del debitore, e all'art. 2938 cod. civ., secondo cui la prescrizione non opposta non può essere rilevata d'ufficio dal giudice.

Si tratta, in ogni caso, di valutazioni che potranno essere oggetto di definitivo approfondimento in sede di merito. Ed anzi la ragione giustificativa della previsione dell'articolo 325, comma 1, cod. proc. pen. nel senso di limitare alla sola violazione di legge il ricorso per cassazione avverso il riesame del sequestro probatorio, risiede proprio nell'esigenza - rilevante ai fini dell'economia processuale - di evitare che il giudizio di merito sulla responsabilità penale possa essere anche parzialmente anticipato in sede cautelare (ex plurimis, sez. 3, 9 luglio 2015, n. 41211; sez. 3, 17 gennaio 2013, n. 24824).

3.2. - Il secondo motivo di doglianza - con cui si deducono l'erronea applicazione dell'art. 2 del d.lgs. n. 74 del 2000 e la carenza di motivazione in relazione all'elemento del dolo specifico di evasione in capo all'indagata - è inammissibile per analoghe ragioni, essendo anch'esso sostanzialmente riferito a vizi della motivazione e non a violazioni di legge. Risulta in ogni caso decisivo, a sostegno dell'ipotesi accusatoria, il dato della mancata contestazione, da parte della difesa, della circostanza la L. s.r.I., che aveva emesso le fatture per le operazioni asseritamente inesistenti di cui all'imputazione provvisoria, fosse una società di comodo. E la falsità di tale fatture trova conferma indiziaria - secondo la valutazione del Tribunale, insindacabile in questa sede - nell'assoluta mancanza di causale e nell'opacità dei rapporti intercorsi con F., il quale, secondo la prospettazione difensiva, avrebbe dovuto essere il soggetto intermediario nella prestazione di consulenza oggetto del contratto prodotto dalla L. quale titolo giustificativo per tali fatture. A questi elementi si aggiungono gli ulteriori dati rappresentati dal fatto che, nella corrispondenza relativa al preteso affare sottostante, nessuno dei soggetti che vi avevano partecipato aveva mai utilizzato il nome della società L., la quale, dunque, non era mai stata un reale interlocutore commerciale (pagg. 6 e 7 dell'ordinanza impugnata).

3.3. - Infondato è il terzo motivo di doglianza, con cui si deduce la violazione dell'art. 545 cod. proc. civ., con riferimento alla dedotta impignorabilità, oltre il quinto, delle somme sequestrate all'indagata e da questa incassate in ragione del rapporto di lavoro intrattenuto con la AIPA s.p.a. Non vi è dubbio che i limiti alla pignorabilità fissati dalle disposizioni civilistiche richiamati dall'art. 316, comma 1, cod. proc. pen. per il sequestro conservativo trovino applicazione anche per il sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente.

Nondimeno, deve essere ritenuta corretta l'interpretazione che il Tribunale dà del richiamato art. 545 - nel testo applicabile ratione temporis alla fattispecie qui in esame, precedente alle modifiche introdotte a decorrere dal 27 giugno 2015, ad opera del d.l. n. 83 del 2015, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 132 del 2015 - nel senso che esso si applica, in virtù del richiamo operato dall'art. 316, comma 1, cod. proc. pen., solo nel caso di sequestro di crediti vantati nei confronti del datore di lavoro; cosicché non sono soggette al limite della parziale impignorabilità e insequestrabilità le somme già percepite dal lavoratore a titolo di crediti di lavoro o di pensione che sono già confluite nella sua libera disponibilità (sez. 1, 6 luglio 1995, n. 4081, rv. 202884), come avvenuto nel caso in esame.

Quanto alla censura relativa alla pretesa non sequestrabilità del valore incorporato in una polizza vita accesa dalla ricorrente, è sufficiente ribadire, in senso contrario, che il sequestro preventivo può avere ad oggetto una polizza assicurativa sulla vita, dal momento che il divieto di sottoposizione ad azione esecutiva e cautelare (art. 1923 cod. civ.) attiene esclusivamente alla definizione della garanzia patrimoniale a fronte della responsabilità civili e non riguarda la disciplina della responsabilità penale (sez. 6, 10 novembre 2011, n. 12838, rv. 252547), come emerge anche dalla sentenza Cass. civ., sez. un., 31 marzo 2008, n. 8271, rv. 602132.

4. - Ne deriva il rigetto del ricorso, con condanna della ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Ne deriva il rigetto del ricorso, con condanna della ricorrente al pagamento delle spese processuali.

 

P.Q.M.

 

Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali.