Giurisprudenza - CORTE DI CASSAZIONE - Sentenza 05 aprile 2016, n. 6573

Licenziamento - Reintegrazione nel rapporto di lavoro - Offerta - Rifiuto del lavoratore - Indennità risarcitoria

 

Fatto

 

Con sentenza depositata il 25.10.2013, la Corte d'appello di Messina, in parziale riforma della statuizione di primo grado, condannava la s.p.a. D. a corrispondere a G.D. l'indennità per il licenziamento illegittimamente intimatogli in data 15.2.1996, determinandola in cinque mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto corrispostagli, oltre accessori.

La Corte, in particolare, reputava definitivamente accertato che, dopo circa due mesi dall'intimato licenziamento, al lavoratore era stata offerta la possibilità di rientrare al lavoro e che questi aveva rifiutato tale offerta anche per la ragione che aveva nelle more trovato altra occupazione; riteneva pertanto venuto meno il diritto alla reintegrazione e al pagamento dell’indennità commisurata alle retribuzioni percipiende dalla data del licenziamento in poi ma giudicava al contempo errata la limitazione a due mensilità del risarcimento liquidato dal primo giudice, dal momento che l'art. 18 St. lav. (nel testo anteriore alla modifica introdotta dall'art. 1, comma 42, I. n. 92/2012) prevedeva che l'indennità risarcitoria non potesse essere inferiore a cinque mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto percepita.

Per la cassazione di questa pronuncia ricorre G.D. con ricorso affidato a quattro motivi. Resiste la società con controricorso.

 

Diritto

 

Con il primo motivo, il ricorrente deduce violazione e falsa applicazione dell'art. 18 St. lav. per avere la Corte di merito ritenuto assimilabile l’offerta di rientrare in servizio alla ricostituzione ex tunc del rapporto di lavoro: ad avviso del ricorrente, infatti, l'offerta de qua sarebbe equivalente ad un’offerta di riassunzione, che - giusta l'insegnamento di questa Corte di legittimità (ex aliis, Cass. n. 356 del 2013) - non potrebbe escludere gli effetti dell'illegittimità del licenziamento e in specie l’operatività della c.d. tutela reale.

Il motivo è inammissibile. Parte ricorrente non ha infatti indicato se la questione della natura ripristinatoria o meno dell'offerta di rientrare in servizio avesse formato oggetto di gravame nel giudizio di appello, né alcuna considerazione in tal senso è dato rinvenire nella sentenza impugnata; e poiché trattasi di questione che involge un accertamento di fatto concernente l'effettivo tenore della proposta rivolta a parte cassazione di tutte le questioni rilevabili d'ufficio e, sia pur nell'ambito del thema decidendum oggetto dei precedenti gradi di merito, anche di nuovi profili di diritto che siano da ritenersi compresi nel dibattito, trova un limite nell'ipotesi in cui dette questioni richiedano nuovi accertamenti di fatto (cfr. fra le tante Cass. nn. 14848 del 2000, 9097 del 2002).

Con il secondo e il terzo motivo, prospettati congiuntamente già in ricorso, il ricorrente denunzia nullità della sentenza per violazione dell'art. 112 c.p.c., nonché violazione e falsa applicazione degli artt. 111 comma 4° Cost., 115, 116 e 132 c.p.c. e 118 att. c.p.c., per avere la Corte territoriale avallato acriticamente la ricostruzione del primo giudice in ordine all'accertamento del suo rifiuto dì rientrare al lavoro, senza punto considerare gli specifici motivi di appello dedotti al riguardo.

Le doglianze sono infondate. Posto infatti che la sentenza di appello motivata per relationem alle risultanze della sentenza di primo grado è nulla solo qualora la laconicità delle argomentazioni adottate, formulate in termini di mera adesione, non consenta in alcun modo di ritenere che all'affermazione di condivisione del giudizio di primo grado il giudice d'appello sia pervenuto tramite l'esame e la valutazione d'infondatezza dei motivi d'impugnazione (cfr. tra le tante Cass. n. 196 del 2003), deve nella specie rilevarsi che la sentenza in questione, lungi dal motivare acriticamente per relationem, ha autonomamente valutato come concordi e precise le dichiarazioni dei testi escussi in primo grado (Nizzari, Baglio e Raffa, quest'ultima peraltro nemmeno indicata dal giudice di prime cure).

Con il quarto motivo, il ricorrente denuncia omesso esame circa un fatto decisivo che è stato oggetto di discussione tra le parti per avere la Corte di merito dato per acquisito, contrariamente alle risultanze documentali, che egli avesse trovato altra occupazione già due mesi dopo il licenziamento.

Il motivo è inammissibile per difetto di decisività del fatto di cui si lamenta l'omesso esame. La Corte di merito ha infatti accertato che il ricorrente rifiutò l'offerta di rientrare in servizio e i motivi che sorreggono una dichiarazione di volontà negoziale sono di norma irrilevanti, salvo che siano illeciti (art. 1345 c.c.). Né può dirsi che l'omesso esame concernerebbe in specie il fatto secondario da cui è stato ricavato per induzione il fatto principale, giacché nella ricostruzione della Corte l'avere il ricorrente reperito altra occupazione è considerata circostanza parzialmente esplicativa del rifiuto, non già probante di esso. Il ricorso, pertanto, va complessivamente rigettato. Le spese del giudizio di cassazione seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo. Sussistono inoltre i presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso.

 

P.Q.M.

 

Rigetta il ricorso e condanna parte ricorrente alla rifusione delle spese del giudizio di cassazione, che si liquidano in € 100,00 per esborsi ed € 3.500,00 per onorari, oltre il 15% per spese generali e ulteriori oneri accessori di legge.

Ai sensi dell'art. 13, comma 1 - quater, d.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma del comma 1 - bis dello stesso art. 13