Giurisprudenza - CORTE DI CASSAZIONE - Sentenza 31 marzo 2016, n. 6254

Licenziamento - Decadenza dalla prova per testi - Legittimità - Omessa comunicazione del difensore dell’indirizzo Pec all’ufficio giudiziario

 

Svolgimento del processo

 

Con ricorso depositato il 5.9.11 la società proponeva appello avverso la sentenza con cui il Tribunale di Milano, accertata incidentalmente la qualifica di quadro del (...) dichiarava l'illegittimità del licenziamento intimatogli dalla società datrice di lavoro con comunicazione 12.2.2010, ordinava alla società resistente l'immediata reintegrazione del ricorrente nel posto di lavoro ai sensi dell’art. 18 Stat.Lav., condannandola al risarcimento del danno pari a cinque mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, oltre rivalutazione monetaria ed interessi, rigettando ogni diversa domanda.

Riteneva infatti il primo giudice generica la domanda di risarcimento del danno da mobbing, valorizzando la circostanza che l'inquadramento nella qualifica di quadro, unitamente al relativo livello stipendiale, erano rimasti sostanzialmente immutati per tutta la durata del rapporto, anche in epoca successiva alla reintegrazione disposta dal Tribunale di Livorno con la sentenza n. 199/99 in relazione ad un precedente licenziamento.

Il giudice considerò altresì neutra, ai fini della domanda risarcitoria, la circostanza che fosse già stata accolta la impugnativa del precedente licenziamento, dal momento che le ragioni valutate dal Tribunale in quella sede erano limitate alla tardività della contestazione disciplinare ed alla sproporzione della sanzione irrogata, ritenute assorbenti sotto il profilo della illegittimità della sanzione.

Il primo giudice riteneva parimenti privo di carattere vessatorio il licenziamento di cui all'odierno ricorso, in relazione al quale accertò la sussistenza di ragioni obbiettive, riconducibili ad una generale ristrutturazione del settore marketing, nell'ambito del ramo (...) concentrate presso la casa madre in Lussemburgo, con conseguente soppressione della posizione lavorativa del dipendente.

Il giudice di prime cure riteneva tuttavia fondata la domanda in conseguenza del mancato assolvimento, da parte della società, dell'obbligo di provare il cd. repechage del lavoratore, respingendo le ulteriori richieste aventi ad oggetto differenze retributive non percepite ritenendo che la società avesse fornito la prova di avere corrisposto la complessiva somma di euro 37.516,95, oltre all'accantonamento di euro 6.971,83 per TFR, somma esaustiva di tutte le pretese azionate in ricorso.

Proponeva appello la (...) censurando la decisione di primo grado per avere il primo Giudice, disattendendo le risultanze di causa, ritenuto non assolto l'obbligo di repechage sulla stessa incombente, ritenendo tale obbligo comprensivo della ricerca di altre collocazioni utili anche presso l'intero gruppo aziendale.

Resisteva il lavoratore, proponendo altresì autonomo appello quanto alla declaratoria di decadenza dalla prova per testi, essendo avvenuta la comunicazione dell'ordinanza (7.12.10, ammissiva della prova) presso la cancelleria e non presso la p.e.c del difensore; quanto alla limitazione del danno per licenziamento a sole cinque mensilità; quanto al mancato riconoscimento del danno da mobbing e delle richieste differenze retributive.

Con sentenza depositata il 24.10.2013, la Corte d'appello di Milano, ritenuto che la comunicazione dell'ordinanza 7.12.10 del Tribunale era avvenuta ritualmente presso la Cancelleria dell'Ufficio, non avendo il difensore del (...) comunicato l'indirizzo p.e.c; considerato che il lavoratore non aveva fornito alcuna adeguata prova circa la riconducibilità del gruppo di imprese ad un unico centro di imputazione del rapporto; che era stata provata l'incollocabilità del lavoratore all'interno dell'azienda datrice di lavoro, oltre le cinque posizioni lavorative equivalenti già offertegli dalla società e rifiutate dal P., e che del resto quest'ultimo non aveva provveduto ad indicare altre posizioni lavorative utili; che non era emersa alcuna prova di mobbing, tanto meno ravvisabile ove il licenziamento sia stato giustificato da ragioni obiettive; escluso che vi fosse stato nella specie un demansionamento; che le reclamate differenze retributive risultavano già versate dalla società, in parziale riforma della sentenza impugnata, confermata nel resto, respingeva le domande avanzate dal ricorrente in primo grado aventi ad oggetto l'impugnazione del licenziamento e le conseguenti domande di reintegrazione e risarcimento del danno.

Per la cassazione di tale sentenza propone ricorso il (...) affidato a cinque motivi, poi illustrati con memoria.

Resiste la società con controricorso, contenente ricorso incidentale condizionato.

 

Motivi della decisione

 

Debbono pregiudizialmente riunirsi i ricorsi proposti avverso la medesima sentenza.

1. - Con il primo motivo (...) denuncia la violazione e falsa applicazione degli artt. 3 L. n. 604\1966 e 18 L. n. 300\1970, oltre ad omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio oggetto di discussione tra le parti; nullità della sentenza e violazione degli artt. 132 e 156 c.p.c., 111 Cost. (art. 360, comma 1, nn. 3, 4 e 5 c.p.c.).

Lamenta che la Corte di merito aveva omesso di pronunciarsi in ordine alla sussistenza di un giustificato motivo oggettivo di licenziamento, nonostante egli avesse evidenziato, nella memoria di costituzione in appello, l'insussistenza delle ragioni poste a base del licenziamento, peraltro da parte di società che presentava ottimi conti economici, come da dati contabili evidenziati e riproposti nel presente ricorso. Lamenta che la società aveva adottato un provvedimento espulsivo essenzialmente basato su ragioni pretestuose.

Il motivo è in parte inammissibile e per il resto infondato. Inammissibile laddove teso, attraverso l'allegazione di numerosi dati contabili e dichiarazioni in tesi provenienti dai vertici aziendali, ad una diversa ricostruzione dei fatti di causa, operata dalla Corte di merito (ed ancor prima dal Tribunale), peraltro nel vigore del nuovo n. 5 dell'art. 360 c.p.c. che limita il vizio motivo all'omesso esame di un fatto storico decisivo per il giudizio.

Nella specie, e venendo all'infondatezza nel merito della censura, deve evidenziarsi che la sentenza impugnata ha esaminato il fatto storico decisivo, la sussistenza di una ragione organizzativa e produttiva posta a base del recesso, ritenendo, come già accertato dal Tribunale, che non era contestata la soppressione del ramo italiano dell'intera area marketing, dove il P. operava come market manager, ciò ritenendo peraltro avvalorato da una serie di documenti riportati alle pagg. 9 e 10 della sentenza.

La Corte di merito ha peraltro evidenziato, come risulta del resto dallo storico di lite, che tale circostanza era sostanzialmente pacifica tra le parti, e comunque già accertata dal Tribunale che ritenne illegittimo il licenziamento in questione per il mancato assolvimento, da parte della società, dell'obbligo di repechage. Che a tal riguardo l'autonomo appello spiegato dal lavoratore ineriva unicamente la misura del risarcimento ex art. 18 S.L., essendo stato accertata l'illegittimità del recesso per violazione dell’obbligo di repechage (che del resto presuppone l'effettiva soppressione del posto di lavoro e la possibilità di impiegare, pertanto, il lavoratore in altre utili mansioni). E' poi evidente che non può trovare ingresso in questa sede la questione, peraltro solo adombrata, del carattere ritorsivo del licenziamento, per risultare essa del tutto nuova.

2. - Con il secondo motivo il P. denuncia la violazione e falsa applicazione degli artt. 3 L. n. 604\1966, 18 L. n. 300\1970 e 1175 c.c., oltre ad omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio oggetto di discussione tra le parti; nullità della sentenza e violazione degli artt. 132 e 156 c.p.c., 111 Cost. (art. 360, comma 1, nn. 3, 4 e 5 c.p.c.).

Lamenta che la sentenza impugnata ritenne erroneamente di non poter estendere l'obbligo di repechage a tutto il (...) di cui (...) faceva parte. Evidenzia di non aver mai dedotto e chiesto che venisse ritenuta la sussistenza di un unico centro di imputazione (o soggetto giuridico) in ordine alle varie società del Gruppo, ma solo che ai fini del repechage si tenesse conto delle posizioni presenti nella altre società del Gruppo.

Evidenzia tutti gli elementi in fatto da cui emergeva una ingerenza della società capogruppo nella società italiana ed altri elementi. Lamenta che la sentenza impugnata non tenne conto di tutti gli elementi probatori, documentali e testimoniali, da cui emergeva la possibilità di utilizzazione del lavoratore anche in settori e mansioni diverse.

Il motivo è in larga parte inammissibile (laddove teso ad una diversa ricostruzione dei fatti, rilevando invece, alla luce del novellato n. 5 dell'art. 360, comma 1, c.p.c. solo l'omesso esame di un fatto storico decisivo, nella specie ampiamente esaminato, ed essendo peraltro irrilevante l'esame di tutti gli elementi probatori di causa, Cass. sez. un. 22.09.2014 n. 19881), e per il resto infondato, posto che pacifica giurisprudenza di questa Corte, al fine di poter procedere ad una valutazione complessiva (per i fini che qui interessano) dei dipendenti di distinte società facenti parte di un cd. gruppo di imprese (rilevante di per sé solo sotto il profilo economico), occorre che sia fornita la prova dell'esistenza di un unico centro di imputazione giuridica dei rapporti, ed in sostanza un unico soggetto imprenditoriale (cfr. ex aliis, Cass. n. 25270\2011).

3. - Con il terzo motivo il lavoratore denuncia la violazione e falsa applicazione degli artt. 125, 136, 414 c.p.c., 103 disp. att c.p.c., 101 c.p.c. 3 L. n. 604\1966, 18 L. n. 300\1970 e 1175 c.c., oltre ad omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio oggetto di discussione tra le parti; nullità della sentenza e violazione degli artt. 132 c.p.c. e 111 Cost. (art. 360, comma 1, nn. 3, 4 e 5 c.p.c.). Lamenta che la Corte di merito ritenne legittima la decadenza dai mezzi di prova proposti dal lavoratore pronunciata dal Tribunale per non avere il P. citato i testi per l'udienza fissata del 14.2.11 (della quale il P. contestava di non aver ricevuto l'avviso di Cancelleria, solo depositato presso quest'ultima), per non avere la difesa del P. indicato l'indirizzo p.e.c. presso cui intendeva ricevere le comunicazioni. Contestava al riguardo l'esistenza di norme che imponessero l'obbligo di comunicare la p.e.c del difensore.

Il motivo è infondato.

L’art. 4, comma 2, della I. 22 febbraio 2010, n. 24, ha stabilito che i commi 1, 2 e 3 dell'art. 51 d.l. n. 112 del 2008, convertito con modificazioni in L. 6.8.2008 n. 133, sono così sostituiti: «1. A decorrere dal quindicesimo giorno successivo a quello della pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica italiana dei decreti di cui al comma 2, negli uffici giudiziari indicati negli stessi decreti, le notificazioni e le comunicazioni di cui al primo comma dell’articolo 170 del codice di procedura civile, la notificazione di cui al primo comma dell’articolo 192 del codice di procedura civile e ogni altra comunicazione al consulente sono effettuate per via telematica all'indirizzo di posta elettronica certificata di cui all'articolo 16 del d.l. 29 novembre 2008, n. 185, convertito, con modificazioni, dalla I. 28 gennaio 2009, n. 2. 2. Con uno o più decreti aventi natura non regolamentare, da adottarsi entro il 1° settembre 2010, sentiti l'Avvocatura generale dello Stato, il Consiglio nazionale forense ed i consigli dell'ordine degli avvocati interessati, il Ministro della giustizia, previa verifica, accerta la funzionalità dei servizi di comunicazione, individuando gli uffici giudiziari nei quali trovano applicazione le disposizioni di cui al comma 1. 3. A decorrere dalla data fissata ai sensi del comma 1, le notificazioni e comunicazioni nel corso del procedimento alle parti che non hanno provveduto ad istituire e comunicare l’indirizzo elettronico di cui al medesimo comma, sono fatte presso la cancelleria o segreteria dell’ufficio giudiziario ».Per quanto concerne il Circondario di Milano è stato emanato il d.m. 26.5.09 n. 57 (in G.U. n. 124\2009, in vigore dal 1°.6.09), sicché l'ordinanza del 7.12.2010 deve ritenersi, in assenza di indicazione di p.e.c, legittimamente comunicata presso la Cancelleria. Le disposizioni di cui all'art. 51 cit sono state poi abrogate dall'art. 16 del d.l. 19 ottobre 2012, n. 179, convertito con modificazioni in I. 17 dicembre 2012, n. 221, successivamente poi modificato dalle leggi 24 dicembre 2012, n. 228 e dal d.l. 24 giugno 2014, n. 90, convertito con modificazioni in I. 11 agosto 2014, n. 114, ma tali modifiche non incidono, ratione temporis, sulla disciplina applicabile al momento della comunicazione in questione.

4. - Con il quarto motivo il P. denuncia la violazione e\o falsa applicazione dell'art. 246 c.p.c.; nullità della sentenza e violazione degli artt. 132 c.p.c.e 111 Cost., oltre ad omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio oggetto di discussione tra le parti (art. 360, comma 1, nn. 3, 4 e 5 c.p.c.).

Lamenta che la sentenza impugnata era illegittima nella parte in cui aveva ritenuto senz'altro attendibili le deposizioni di alcuni testimoni ( (...), senza tener conto del ruolo che avevano assunto nella presente controversia (procuratore della società, parti attive nelle vessazioni subite dal (...) ).

Il motivo è inammissibile, perché in contrasto col novellato n. 5 dell'art. 360, comma 1, del c.p.c. (come sopra notato).

5. - Con il quinto motivo il lavoratore denuncia la violazione e falsa applicazione degli artt. 32 e 35 Cost.; dell'art. 2103 c.c., degli artt. 2103, 2727 e ss. c.c., dell’ art. 1218 c.c., dell'art. 1226 c.c., dell'art. 2043 cc, dell'art. 2059 c.c., dell'art. 2087 c.c., dell'art. 115 c.p.c., dell'art. 244 c.p.c. e dell'art. 432 c.p.c. Nullità della sentenza (art. 360 n. 4 c.p.c., e comunque violazione dell'art. 132 c.p.c. e 111 Cost., oltre ad omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio oggetto di discussione tra le parti (art. 360, comma 1, nn. 3, 4 e 5 c.p.c.).

Evidenzia al riguardo di avere esposto di essere stato oggetto da parte della datrice di lavoro di tutta una serie di condotte vessatorie, perfettamente idonee ad integrare la fattispecie del cd. mobbing, che si sono manifestate in ben due licenziamenti e nel lasso di tempo fra la reintegra disposta dal Tribunale di Livorno e il secondo recesso - da tutta una serie di atti volti a rendere oggettivamente molto difficile al (...) lo svolgimento della prestazione di lavoro e la stessa permanenza in azienda, mentre la Corte di Appello di Milano, con una lettura a senso unico della vicenda, aveva rigettato le domande del ricorrente, senza neppure dare seguito - come del resto aveva fatto anche il Tribunale - alle istanze istruttorie formulate dal (...) e comunque omettendo di valutare fatti assolutamente decisivi per il giudizio, quali il passaggio in giudicato di precedente sentenza del Tribunale di Livorno che aveva dichiarato illegittimo il primo licenziamento intimatogli.

Tale sentenza aveva affermato, che tale (pregresso ed altro) licenziamento aveva una natura vessatoria ed era quindi ricollegato alla volontà dell'azienda di estromettere ad ogni costo il P..

La suddetta decisione, quindi, costituiva un elemento fondante (ed addirittura autonomamente decisivo) della sussistenza della fattispecie del mobbing, che comunque era emersa anche dalle deposizioni testimoniali raccolte nel presente giudizio. Lamenta di aver comunque invano richiesto (in primo grado ed in appello) l'ammissione di prova testimoniale sul punto, di cui riproduce i capitoli.

Il motivo è in parte inammissibile, non avendo il ricorrente prodotto la sentenza del Tribunale di Livorno su cui fonda la censura in esame, ed inoltre per non aver contestato la decisiva ed ulteriore ratio decidendi contenuta nella sentenza impugnata in ordine alla mancanza di prova dei danni conseguenti il dedotto mobbing. Il motivo è per il resto infondato: la Corte milanese ha esaminato la questione della sussistenza del mobbing, motivatamente escludendolo sulla scorta di ampia e logica motivazione. La richiesta di prova non è dimostrata (gli atti difensivi del (...) in appello non sono prodotti) né risulta dalle conclusioni riportate nella sentenza impugnata, né nel testo della motivazione. La questione della prova, per il resto, è strettamente connessa al terzo motivo di ricorso di cui è già stata ritenuta l'infondatezza.

6. - Venendo all'esame del ricorso incidentale, deve evidenziarsi che ad esso la società ha rinunciato come da atto del 23.11.2015 depositato in questa sede.

Il ricorso principale deve pertanto rigettarsi, mentre deve dichiararsi l'estinzione del giudizio inerente il ricorso incidentale. Le spese di lite seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo. Ai sensi dell'art. 13, comma 1 quater, del d.P.R. n. 115\02, nel testo risultante dalla L. 24.12.12 n. 228, deve provvedersi, ricorrendone i presupposti, come da dispositivo.

 

P.Q.M.

 

Riunisce i ricorsi. Rigetta il ricorso principale e dichiara estinto il giudizio relativamente al ricorso incidentale.

Condanna il P. al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità, che liquida in € 100,00 per esborsi ed € 3.500,00 per compensi professionali, oltre accessori di legge.

Ai sensi dell'art. 13, comma 1 quater, del d.P.R. n. 115\02, nel testo risultante dalla L. 24.12.12 n. 228, la Corte dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente principale, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13.