Giurisprudenza - TRIBUNALE DI MILANO - Sentenza 23 marzo 2016, n. 934

Rapporto di lavoro - Premio aziendale ad personam - Accordo integrativo aziendale - Disdetta - Conseguenze

 

Svolgimento del processo e motivi della decisione

 

Con ricorso depositato il 4 novembre 2015 A. S.P.A. proponeva opposizione avverso il decreto ingiuntivo n. 2969/2015 con cui il Tribunale di Milano, sezione Lavoro, gli aveva ingiunto di corrispondere a M.B. 275,22 euro a titolo di ex premio aziendale ad personam. La parte ricorrente deduceva in particolare che la fonte contrattuale istitutiva del predetto premio - ossia l’accordo integrativo aziendale del 10 ottobre 2007 - era stato disdettato il 20 marzo 2015 con effetto dal luglio 2015 e che pertanto nulla era più dovuto ai lavoratori per tale titolo. Concludeva chiedendo dunque la revoca del decreto impugnato. Con vittoria delle spese.

Costituendosi in giudizio, M.B. deduceva l’ultravigenza dell’accoro del 2007 con riferimento a quanto previsto a titolo di ex premio aziendale ad personam e chiedeva dunque il rigetto dell’opposizione e la conferma del decreto ingiuntivo. Con vittoria delle spese.

Esperito senza esito positivo il tentativo di conciliazione e ritenuta la causa matura per la decisione senza necessità di attività istruttoria, la stessa è stata discussa all’udienza del 23 marzo 2016 e all’esito della camera id consiglio il Giudice ha deciso dando lettura del dispositivo in calce.

Il ricorso è infondato e deve dunque essere rigettato per le ragioni che seguono.

Occorre premettere che le parti hanno dato concordemente atto del fatto che la fonte del premio aziendale di cui si discute è l’accordo integrativo del 10 ottobre del 2007 (cfr. doc. n. 7 di parte resistente), che è stato disdettato nel 2015 da A. S.P.A. (cfr. doc. n. 2 di parte ricorrente). Le stesse inoltre hanno ricostruito le vicende societarie dell’odierna ricorrente, rilevando come l’accordo del 2007 nascesse dall’esigenza di armonizzare i diversi trattamenti economici, estendendo il premio di risultato aziendale a tutti i lavoratori e mantenendo il premio fisso - riconosciuto non più a livello di unità produttiva ma come trattamento ad personam - per quei lavoratori che lo avevano già maturato. Le parti non concordano invece sulle conseguenze che tale disdetta aveva avuto sulla corresponsione del premio de quo.

Da un punto di vista generale, si concorda con la giurisprudenza citata e prodotta da parte ricorrente che ha stabilito che "Il divieto di deroga in pejus posto dall'art. 2077 cod. civ. è relativo solo alle disposizioni contenute nel contratto individuale di lavoro in relazione alle disposizioni del contratto collettivo, non viceversa, mentre i rapporti di successione temporale tra contratti collettivi sono regolati non dall'art. 2077 cod. civ. ma dal principio della libera volontà delle parti stipulanti, cosicché, nell'ipotesi di successione tra contratti collettivi, le precedenti disposizioni possono essere modificate da quelle successive anche se in seguito sfavorevole al lavoratore, con il solo limite dei diritti quesiti, ovvero di quei diritti che sono già entrati a far parte del patrimonio individuale del lavoratore" (Cassazione, Sez. L, Sentenza n. 16635 del 05/11/2003) e che "Nell'ipotesi di successione tra contratti collettivi, per cui le precedenti disposizioni possono essere modificate da quelle successive anche in senso sfavorevole al lavoratore, con il solo limite dei diritti quesiti, il lavoratore stesso non può pretendere di mantenere come definitivamente acquisito al suo patrimonio un diritto derivante da una norma collettiva non più esistente e ciò in quanto le disposizioni dei contratti collettivi non si incorporano nel contenuto dei contratti individuali, ma operano dall'esterno come fonte eteronoma di regolamento, concorrente con la fonte individuale, sicché, nel caso di successione di contratti collettivi, le precedenti disposizioni non sono suscettibili di essere conservate secondo il criterio del trattamento più favorevole (art. 2077 cod. civ.), che riguarda il rapporto fra contratto collettivo ed individuale" (Cassazione, Sez. L, Sentenza n. 21234 del 10/10/2007).

Peraltro è la stessa giurisprudenza che chiarisce come tale regola possa subire delle eccezioni, rilevando che alla contrattazione collettiva "non può riconoscersi né il potere né la finalità di inserire direttamente un corrispondente diritto nei singoli contratti individuali di lavoro, occorrendo a tal fine una inespressa ed inequivoca manifestazione di volontà delle parti" (Cassazione, Sez. L, Sentenza n. 6453 del 17/03/2010).

Inoltre, ai fini dell'interpretazione dell’accordo integrativo oggi all'esame di questo Giudice, non si può prescindere dal richiamo all’art. 1362 c.c., a norma del quale "Nell'interpretare il contratto si deve indagare quale sia stata la comune intenzione delle parti e non limitarsi al senso letterale delle parole. Per determinare la comune intenzione delle parti, si deve valutare il loro comportamento complessivo anche posteriore alla conclusione del contratto" .

Nell'interpretare la norma in esame, la giurisprudenza ha chiarito che "L'indagine diretta a de limitare la volontà delle parti, a norma dell'art. 1362 cod civ, deve far riferimento alla volontà comune dei contraenti e non già a quella unilaterale di uno di essi, la quale ultima resta confinata nell'ambito dei motivi (Cassazione, Sez. L. Sentenza n. 1724 del 10/06/1974), che "Nella interpretazione del contratto va ricostruita la comune volontà dei contraenti sulla scorta di due elementi principali, ovvero il senso letterale delle espressioni usate e la ratio del precetto contrattuale; tra i predetti criteri non esiste un preciso ordine di priorità ma sono piuttosto destinati ad integrarsi a vicenda, in un razionale gradualismo dei mezzi di interpretazione, che devono fondersi ed armonizzarsi nell’apprezzamento dell'atto negoziale" (Cassazione, Sez. L. Sentenza n. 12389 del 2/08/2003); che "In tema di interpretazione degli atti negoziali, l'art. 1362 cod. civ., nel prescrivere all' interprete di non limitarsi al senso letterale delle parole, non intende svalutare l'elemento letterale nell'interpretazione, ma anzi ribadire il valore fondamentale e prioritario che esso assume nella ricerca della comune intenzione delle parti, onde il giudice può ricorrere ad altri criteri ermeneutici solo quando le espressioni letterali non siano chiare, precise od univoche, mentre, quando le suddette espressioni si presentino univoche secondo il linguaggio corrente, il giudice può attribuire alle parti una volontà diversa da quella risultante dalle parole adoperate soltanto se individua ed esplicita le ragioni per le quali le predette parti, pur essendosi espresse in un determinato modo, abbiano in realtà inteso manifestare una volontà diversa" (Cassazione, Sez. L, Sentenza n. 11609 del 02/08/2002).

Nel caso in esame, l’art. 22 del Contratto Integrativo prevede che "la voce retributiva denominata premio aziendale sarà conservata in cifra ad personam ai soli lavoratori già in forza con contratto a tempo indeterminato che abbiano già maturato tale elemento retributivo alla data del 31.1.2.2005".

Si condivide con quanto sostenuto da parte resistente circa la ratio di tale articolo, che in effetti fu il frutto di uno scambio tra A. S.P.A. e le Organizzazioni Sindacali, pattuito quale prezzo per modificare e razionalizzare il sistema dell’integrazione salariale: la datrice di lavoro infatti, al fine di mantenere solamente il sistema di salario integrativo variabile e legato ai risultati che era stato definito nell’accordo integrativo aziendale del 2003 (cfr. doc. n. 11 della resistente), si impegnò a rispettare alcuni trattamenti particolarmente risalenti nel tempo, facendoli confluire nella voce retributiva di cui oggi si discute (cfr. art. 4 del predetto accordo). E il fatto che tale voce sia ad personam lo si ricava non solo dal tenore letterale della norma ma anche dal fatto che la stessa non era estesa a tutti i lavoratori, ma solo a quelli che beneficiavano precedentemente del premio aziendale. La natura personale non viene meno come sostiene la ricorrente per il fatto che i soggetti beneficiari sarebbero migliaia, in quanto ciò che è dirimente è che la stessa non sia riconosciuta a tutti i lavoratori indistintamente, bensì solo a coloro che si trovavano nella condizione di cui si è innanzi riferito.

E d’altronde diversamente argomentando non si attribuirebbe significato al comma del medesimo articolo che dispone che "Tali istituti in ragione della loro origine di trattamenti contrattuali collettivi non sono assorbibili": la non assorbibilità degli istituti collettivi è infatti dato pacifico, così come l’assorbibilità in assenza di disposizione contraria dei trattamenti personali (cfr. Cassazione, Sez. L, Sentenza n. 12788 del 09/07/2004 secondo la quale "Il cosiddetto superminimo, ossia l'eccedenza della retribuzione rispetto ai minimi tabellari, che sia stato individualmente pattuito, è normalmente soggetto al principio generale dell'assorbimento nei miglioramenti contemplati dalla disciplina collettiva, tranne che sia da questa diversamente disposto, o che le parti abbiano attribuito all'eccedenza della retribuzione individuale la natura di compenso speciale strettamente collegato a particolari meriti o alla speciale qualità o maggiore onerosità delle mansioni svolte dal dipendente e sia quindi sorretto da un autonomo titolo, alla cui dimostrazione, alla stregua dei principi generali sull'onere della prova, è tenuto lo stesso lavoratore). Nel caso in esame, la disposizione de qua ha dunque chiarito che il trattamento in esame, benché individuale, deve ritenersi non assorbibile in ragione della sua origine (e non natura attuale) nella contrattazione collettiva.

Pertanto sia da un punto di vista letterale che da quello delle volontà delle parti - anche alla luce della buona fede - pare corretta l’interpretazione fornita da parte resistente. Interpretazione peraltro condivisa in un caso del tutto analogo da recente giurisprudenza di merito, che ha rilevato che "La norma contrattuale si esprime quindi chiaramente nel definire le due componenti del premio aziendale come voci retributive individuali: tanto si desume in modo inequivoco dall’utilizzazione del termine " ad personam" abitualmente usato per definire i trattamenti retributivi che spettano solo ad un determinato lavoratore e non alla generalità dei dipendenti nonché dall’impiego dei termini " conservazione" ed " individualmente" che ulteriormente ribadiscono il permanere di quel trattamento di miglior favore a livello individuale. A seguito dell’accordo integrativo del 2007 il premio quindi perde la sua natura collettiva, il cui presupposto ineludibile è l’erogazione in favore di una collettività di dipendenti oggettivamente individuati, e viene conservato solo in favore dei dipendenti in possesso di certi requisiti di anzianità, circostanza peraltro confermata anche dall’inserimento in busta paga dell’assegno ad personam " ex premio aziendale ex rio ad personam" nella retribuzione lorda in aggiunta al minimo contrattuale, all’indennità di contingenza ,al terzo elemento ed agli scatti di anzianità . Nella ricostruzione storica degli accordi che hanno via via disciplinato il premio operata dalla società ricorrente emerge che il premio aziendale ex rio è stato riconosciuto a favore dei dipendenti provenienti da società confluite in A. spa presso le quali esisteva già da tempo una disciplina contrattuale aziendale integrativa che prevedeva l’erogazione di un premio aziendale. Il premio era quindi previsto in favore di una generalità di lavoratori aventi quali comun denominatore la provenienza da società confluite in A.

Nell’ipotesi di accordo dell’11 ottobre 2002 si opera poi una distinzione tra le diverse realtà societarie confluite nel gruppo La rinascente distinguendo tra unità di vendita nelle quali la contrattazione aziendale già prevedeva l’erogazione del premio da quelle che ne erano prive. Con l’accordo del 2007 prima trascritto muta completamente la prospettiva in quanto si prevede per la prima volta la conservazione del premio solo in favore di quei lavoratori che avessero maturato il diritto alla data del 31 dicembre 2005. In questo modo il premio aziendale originariamente previsto dall’accordo del 25 gennaio 1996 viene soppresso e trasformato in voce retributiva ad personam non assorbibile da erogarsi solo in favore dei lavoratori che ne avessero maturato il diritto alla data del 31 dicembre 2005. La previsione della conservazione del premio in favore dei predetti lavoratori costituisce una clausola di maggior favore inserita nel contratto individuale dei beneficiari ex art. 1340 c.c. integrandone il contenuto economico e restando insensibile alle successive modificazioni disposte da pattuizioni collettive. Né può ritenersi che l’ultimo capoverso dell’art. 22 dell’accordo nella parte in cui stabilisce che gli istituti disciplinati dalla norma " in ragione della loro origine di trattamenti contrattuali collettivi non sono assorbibili" fornisca argomenti di sostegno alla tesi attorea atteso che il richiamo all’origine collettiva degli istituti retributivi sembra deporre al contrario per la loro trasformazione in elementi retributivi individuali. La disdetta dall’accordo integrativo non svolge quindi i suoi effetti nei confronti dei diritti individuali" (Tribunale di Torino, sez. L, n. 438/2016, estens. dott.ssa F.).

I conteggi sul quantum dovuto a tale titolo appaiono correttamente redatti e peraltro non sono stati contestati dalla ricorrente in sede di opposizione a decreto ingiuntivo.

Per tutte le ragioni innanzi esposte l’opposizione deve essere rigettata e il decreto ingiuntivo n. 2969/15 confermato.

Le spese di lite, liquidate come da dispositivo secondo i parametri del DM n. 55/2014, seguono la soccombenza.

 

P.Q.M.

 

Visto l'art. 429 c.p.c., definitivamente pronunciando,

Rigetta il ricorso e, per l’effetto, conferma il decreto ingiuntivo n. 2969/15 rg 11035/15 emesso in data 16/10/15 dal Tribunale di Milano;

Condanna A. S.P.A. a rimborsare a M.B. le spese di lite, liquidate in € 500, oltre accessori di legge;

Fissa il termine di 60 giorni per il deposito della sentenza.