Giurisprudenza - CORTE DI CASSAZIONE - Sentenza 30 marzo 2016, n. 6170

Pubblico impiego privatizzato - Festività civili coincidenti con la domenica - Compenso aggiuntivo - Esclusione

 

Svolgimento del processo

 

Con sentenza del 2/2/2012 la Corte d'appello di Roma di Roma, in riforma della sentenza del Tribunale di Viterbo, ha accolto l'opposizione proposta dal Ministero delle Infrastrutture avverso i decreti ingiuntivi emessi a favore di P.A. ed altri, dipendenti del Ministero, ritenendo infondata la pretesa dei ricorrenti di ottenere il compenso ex art. 5 della L. n. 260/1949 relativo alle festività civili coincise con la domenica.

La Corte ha ritenuto che tale diritto al compenso aggiuntivo per le festività civili coincidenti con la domenica era stato escluso dall’art. 1 comma 224 L n. 266/2005 che, in via di interpretazione autentica, aveva espressamente indicato l’art. 5 citato tra le disposizioni riconosciute inapplicabili dall’art. 69, comma 1, d.lgs. n. 165/2001 a seguito della seconda tornata di contratti collettivi.

Ha rilevato che la norma di interpretazione aveva superato il vaglio di costituzionalità e che era insussistente qualsiasi violazione di disposizioni comunitarie non ravvisandosi ingerenza del legislatore trattandosi di legge di mera natura interpretativa e di trattamento del tutto marginale nell'ambito della retribuzione globale.

Avverso la sentenza ricorrono in Cassazione i lavoratori formulando un unico articolato motivo.

Resiste il Ministero con controricorso.

 

Motivi della decisione

 

Con un unico motivo i ricorrenti deducono violazione e falsa applicazione dell'art. 8 L. 124/1999 e di ogni altra norma in materia, violazione dell'art. 6, primo comma CEDU, illegittimità costituzionale e violazione dei principi generali del vigente diritto comunitario, in relazione all'art. 360, primo comma, n. 3 c.p.c., per la natura non interpretativa, bensì tout court abrogativa (alla luce di critico ed argomentato esame degli artt. 2 e 69 d.Ig. 165/2001: quest'ultimo, in particolare, incostituzionale anche per eccesso di delega nell'interpretazione ritenuta siccome inclusiva, tra le norme generali e speciali del pubblico impiego, anche dell'art. 5, terzo comma L. 260/1949, in materia di retribuzione delle festività civili nazionali ricadenti di domenica) dell'art. 1, comma 224 L. 266/2005, pertanto incostituzionale per la sua efficacia retroattiva, direttamente interferente sui giudizi pendenti in favore dell'amministrazione dello Stato, parte in essi e comunque in contrasto con i principi del diritto ad un giusto processo davanti a tribunale indipendente e imparziale posto dall'art. 6 CEDU, nonché della certezza del diritto, della tutela del legittimo affidamento e dell'uguaglianza delle armi del processo garantiti dal diritto europeo (art. 6 n. 2 del Trattato UE e artt. 46, 47, 52, terzo comma della Carta cd. di Nizza, dei diritti fondamentali dell'UE): del tutto analogamente alla ripercorsa vicenda del diritto del personale A.T.A. della Scuola al riconoscimento dell'intera anzianità in relazione al servizio prestato in favore degli Enti Locali prima del trasferimento d'ufficio alle dipendenze dello Stato.

Il motivo è infondato.

Preliminarmente occorre rilevare come l'indicazione della sua rubrica debba essere sostituita con quella dell'art. 1, comma 224 L. 266/2005 in luogo dell'art. 8 I. 124/1999, siccome evidente refuso (in quanto norma relativa all'inquadramento del personale ATA trasferito dagli enti locali allo Stato e pertanto non pertinente), spiegabile con l'attrazione e nella contaminazione della trattazione della questione qui in esame con la vicenda dell'intervento normativo sul diritto del personale A.T.A. della scuola al riconoscimento dell'intera anzianità riguardante il servizio prestato, siccome prospettata come analoga.

La L. 23 dicembre 2005, n. 266 (legge finanziaria 2006), all'art. 1, comma 224 ha previsto che: "tra le disposizioni riconosciute inapplicabili dal D.Lgs. 30 marzo 2001, n, 165, art. 69, comma 1, secondo periodo, a seguito della stipulazione dei contratti collettivi del quadriennio 1994/1997 è ricompresa la L. 27 maggio 1949, n. 260, art. 5, comma 3, come sostituito dalla L. 31 marzo 1954, n. 90, art. 1 in materia di retribuzione nelle festività civili nazionali ricadenti di domenica. È fatta salva l'esecuzione dei giudicati formatisi alla data di entrata in vigore della presente legge".

Sulla base di detta disciplina, che, come da questa Corte già più volte affermato (cfr. Cass. 23 luglio 2012, n. 12772; id. 5 aprile 2011, n. 7740; 18 novembre 2011, n. 24346; 19 marzo 2010, n. 673; 17 giugno 2009, n. 14048), costituisce vera e propria norma di interpretazione autentica (come reso palese dalla specifica disposizione di salvezza dei giudicati formatisi anteriormente alla sua entrata in vigore), deve escludersi l'applicabilità del detto art. 5, comma 3, ai ricorrenti .

Questa Corte ha statuito, infatti, (cfr Cass. n. 4667/2008, 14048/2009 6736/2010, 19827/2013) che" In tema di pubblico impiego privatizzato, il diritto al compenso aggiuntivo per le festività civili coincidenti con la domenica, attribuito dall'art. 5, terzo comma, della legge 27 maggio 1949, n. 260, come modificato dall'art. 1 della legge 31 marzo 1954, n. 90, è stato escluso dall'art. 3, comma 224, della legge 23 dicembre 2005, n. 266, che, con norma di interpretazione autentica (resa palese dalla specifica salvaguardia delle situazioni coperte da giudicato formatosi anteriormente alla sua entrata in vigore), ha espressamente compreso la citata disposizione tra quelle riconosciute inapplicabili dall'art. 69, comma 1, secondo periodo, del d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165 a seguito della seconda tornata di contratti collettivi in materia di lavoro con la P.A". Ne consegue che in relazione alle festività civili, ricadenti di domenica, non sussiste il diritto dei dipendenti all'attribuzione, oltre alla normale retribuzione, di un'ulteriore aliquota giornaliera.

Deve rilevarsi, inoltre., con riferimento ai dubbi di illegittimità costituzionale avanzati dai ricorrenti, che la Corte Costituzionale con sentenza n. 146 del 2008 ha dichiarato non fondata la questione di legittimità costituzionale della richiamata norma di interpretazione autentica, prospettata in riferimento all'art. 3 Cost., per la prevista disparità di trattamento tra lavoratori pubblici e privati, incoerente con la riforma del pubblico impiego e l'applicazione al medesimo, in linea di massima, della stessa disciplina prevista per il lavoro privato.

Quanto agli ulteriori profili di incostituzionalità denunciati per violazione dell'art. 117, primo comma , della Costituzione in relazione all'art. 6 della CEDU , ogni questione deve ritenersi superata a seguito della sentenza n 150 del 2015 della Corte Costituzionale (ordinanza di rimessione di questa Corte del 20 gennaio 2014) che ha rigettato le questioni di incostituzionalità prospettate anche nel presente ricorso.

In particolare la Corte Costituzionale, dopo aver escluso la possibilità di una interpretazione della norma censurata che ne escluda la portata retroattiva e l'applicabilità ai giudizi in corso, ha rilevato che "la disposizione impugnata si pone in armonia con l'obiettivo di riconoscere alla sola fonte contrattuale il compito di definire il trattamento retributivo, eliminando tutte le voci extra ordinem. (sentenza n. 146 del 2008) al fine di realizzare, ad un tempo, l'obiettivo della contrattualizzazione del rapporto di lavoro pubblico e della razionalizzazione del costo del lavoro pubblico, mediante il contenimento della spesa complessiva per il personale, diretta e indiretta, entro i vincoli della finanza pubblica".

La Corte Costituzionale ha poi sottolineato che "la norma censurata si limita ad assegnare alla disposizione interpretata un significato già in essa contenuto, riconoscibile come una delle possibili letture del testo originario, cosicché la portata retroattiva della medesima non si rivela irragionevole, ne' si pone in contrasto con altri interessi costituzionalmente protetti (ex plurimis: sentenze n. 257 del 2011, n. 236 del 2009)".

Essa, infatti, all'indomani della stipulazione dei contratti collettivi del quadriennio 1994/1997, non ha fatto altro che dare attuazione ad uno dei principi ispiratori dell'intero d.lgs n. 165 del 2001, chiarendo "che l'art. 5, terzo comma, della legge n. 260 del 1949 ha carattere imperativo. Esso è, pertanto, applicabile a tutti i lavoratori dipendenti dallo Stato, dagli enti pubblici e dai privati (Corte di cassazione, sezione lavoro, sentenza 22 febbraio 2008, n. 4667), rientrando fra le <<norme generali "..." del pubblico impiego», di cui l'art. 69 del d.lgs. n. 165 del 2001 stabilisce l'inapplicabilità a seguito della stipulazione dei contratti collettivi, in linea con il principio della onnicomprensività della retribuzione e del divieto di ulteriori corresponsioni, diverse da quelle contrattualmente stabilite (sentenza n. 146 del 2008). Alla luce di quanto detto, l'intervento interpretativo del legislatore non solo non contrasta con il principio di ragionevolezza <<che ridonda nel divieto di introdurre ingiustificate disparità di trattamento» (sentenza n. 209 del 2010), escluse da questa Corte già nella sentenza n. 146 del 2008 in considerazione della peculiarità del regime del rapporto di lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni delineato dal d.lgs. n. 165 del 2001 e dai contratti collettivi ivi richiamati, ma neppure determina una lesione dell'affidamento. Il testo originario rendeva, sin dall'inizio, plausibile, come si è già rilevato, una lettura diversa da quella che i destinatari della norma interpretata hanno ritenuto di privilegiare (sentenza n. 170 del 2008), coerente con i principi ai quali è informato il rapporto di lavoro pubblico. Né si ravvisa una lesione delle attribuzioni del potere giudiziario.

La norma in esame, infatti, avendo natura interpretativa, ha operato sul piano delle fonti, senza toccare la potestà di giudicare, limitandosi a precisare la regola astratta ed il modello di decisione cui l'esercizio di tale potestà deve attenersi, definendo e delimitando la fattispecie normativa oggetto della medesima (sentenza n. 170 del 2008), proprio al fine di assicurare la coerenza e la certezza dell'ordinamento giuridico (sentenza n. 209 del 2010)". Dalla lettura della sentenza n. 150/2015 della Corte costituzionale si ricavano all'evidenza tutte le ragioni per disattendere il motivo in esame, sostanzialmente ripropositivo di argomenti che già in essa hanno trovato esauriente e persuasiva risposta (come recentemente ritenuto anche da Cass. 4 gennaio 2016, n. 11).

E ciò anche in riferimento alla richiesta di rinvio pregiudiziale, ai sensi dell’art. 267 TFUE (già art. 234 del Trattato costitutivo CE), in ordine al rispetto dei principi del diritto ad un giusto processo davanti a tribunale indipendente e imparziale posto dall’art. 6 CEDU, nonché della certezza del diritto, della tutela del legittimo affidamento e dell'uguaglianza delle armi del processo garantiti dal diritto europeo, ai sensi dell'art. 6 n. 2 del Trattato UE e degli artt. 46, 47, 52, terzo comma della Carta dei diritti fondamentali dell'UE (cd. di Nizza). Ed infatti, avendo la Corte costituzionale risolto la questione in esame sul piano dell'esistenza nell'ordinamento interno di una norma (l'art. 5, terzo comma L. 260/1949 come sost. dall'art. 1 L. 90/1954, in materia di retribuzione delle festività civili nazionali ricadenti di domenica) già contenente il significato più esplicitamente attribuitole dal denunciato art. 1 comma 224 I. 266/2005 (ius superveniens di interpretazione autentica) e pertanto ad esso precedente, ogni diversa deduzione interferente con i principi del giusto processo resta assorbita, per il semplice fatto di non porsi neppure. Sicché essa perde nel caso di specie alcun carattere di rilevanza concreta: così rimanendo assolto l'obbligo di illustrazione delle ragioni per le quali deve essere ritenuta non pertinente la dedotta questione pregiudiziale (Corte EDU, 8 aprile 2014, Dhahbi c. Italia, p.to 31).

E ciò in applicazione del principio, ormai di comune acquisizione, della cd. "ragione più liquida", che, imponendo un approccio interpretativo con la verifica delle soluzioni sul piano dell'impatto operativo, piuttosto che su quello della coerenza logico sistematica, consente di sostituire il profilo di evidenza a quello dell'ordine delle questioni da trattare, stabilito dall'art. 276 c.p.c., in una prospettiva aderente alle esigenze di economia processuale e di celerità del giudizio, costituzionalizzata dall'art. 111 Cost. (Cass. 28 maggio 2014, n. 12002; Cass. s.u. 8 maggio 2014, n. 9936).

Risulta evidente, infatti, come il rispetto dell'ordine logico sistematico delle questioni devolute imporrebbe, nel caso di specie, la previa verifica di ammissibilità del rinvio pregiudiziale, sul presupposto della disciplina della fattispecie ad opera del diritto europeo. Il tema, sottoposto anche dal ricorso e illustrato in memoria, è certamente di delicato impegno per l'articolazione complessa del difficile "dialogo" tra Corti supreme, costituzionali ed europee: questa Corte è ben consapevole della possibile ricaduta di effetti, sull'indiscutibile non deferibilità tout court delle norme CEDU all'interpretazione della Corte di Giustizia dell'innovativa evoluzione comportata dall'entrata in vigore il 1° gennaio 2009 del Trattato di Lisbona del 13 dicembre 2007, ratificato e reso esecutivo con legge 2 agosto 2008, n. 130 (di modifica del Trattato sull'Unione europea e del Trattato istitutivo della Comunità europea), Trattato comportante il riconoscimento (art. 6, primo comma) dei diritti, libertà e principi sanciti nella Carta dei diritti fondamentali dell'UE (cd. di Nizza) con la conseguenza di essere pervenuti alla prospettata "trattatizzazione" indiretta della CEDU, alla luce della "clausola di equivalenza" contenuta nell'art. 52, terzo comma della Carta (nel caso di specie, in riferimento al principio di garanzia del diritto ad un giusto processo, ai sensi degli artt. 6 CEDU e 47 della Carta).

Ma va rilevato che la Corte di Giustizia non ha sinora adottato un consolidato indirizzo in proposito, avendo invece assunto, in vicende nelle quali la questione era stato sottoposta, pronunzie di assorbimento (come in sentenze 26 novembre 2014, cause riunite C-22/13, da C-61/13 a C-63/13, C-418/13, Mascolo e altri c. Miur. p.ti 35 n. 7 e 121; 6 settembre 2011, causa C-108/10, Scattolon c. Miur, P.ti 33 n. 4 e 84; quest'ultima di segno diverso da quella precedente, in identica vicenda, della Corte EDU 7 giugno 2011, Agrati e altri c. Italia). Il che autorizza il Collegio a ritenere tali scelte sintomatiche della cruciale problematicità dei profili interpretativi relativi all'efficacia e al rapporto tra Carta di Nizza e Convenzione dei diritti dell'uomo, posta dalla crescente domanda di tutela in materia di lavoro e diritti sociali nel faticoso rapporto tra le due Corti Europee, da ridefinire una volta realizzata la prevista adesione dell'UE al Consiglio d'Europa, come segnalato da avvertita dottrina. In sostanza dagli stessi pronunziati della Corte di Giustizia è lecito desumere che la suddetta "trattatizzazione" indiretta della CEDU (con la conseguente idoneità alla denunciabilità alla Corte di giustizia UE, alla luce della "clausola di equivalenza" contenuta nell'art. 52, terzo comma della Carta dei diritti fondamentali di Nizza) sia approdo da ritenersi non ancora raggiunto.

Da un canto, per la ripetuta negazione della consistenza della Carta alla stregua di strumento di tutela dei diritti fondamentali oltre le competenze dell'Unione europea (come, del resto, reiteratamente affermato dalla Corte di giustizia, sia prima che dopo l'entrata in vigore del Trattato di Lisbona; nel primo caso, tra le più recenti: ordinanza 17 marzo 2009, C-217/08, Mariano; nel secondo: sentenza 5 ottobre 2010, C-400/10 PPU, McB; ordinanza 12 novembre 2010, C-399/10, Krasimir e altri).

Dall'altro canto, per la ritenuta inapplicabilità della Carta ratione temporis a fattispecie, come quella in esame, relative a periodo anteriore alla data di entrata in vigore del Trattato di Lisbona, a partire dalla quale la Carta ha acquisito lo stesso valore dei Trattati, a norma dell'articolo 6, primo comma del Trattato UE: Corte giust. UE 26 marzo 2015, C-316/13, Fenoli c. Centre craide par le travail "La Jouvene", p.ti da 44 a 47).

E dunque, in tale quadro, questa Corte deve ribadire che presupposto della praticabilità del chiesto rinvio pregiudiziale è che la fattispecie sottoposta all'esame del giudice sia disciplinata dal diritto europeo - in quanto inerente ad atti dell'Unione, ad atti e comportamenti nazionali che danno attuazione al diritto dell’Unione, ovvero alle giustificazioni addotte ad uno Stato membro per una misura nazionale altrimenti incompatibile con il diritto dell’Unione - e non già da sole norme nazionali prive di ogni legame con tale diritto (Corte cost. 11 marzo 2011, n. 80; nello stesso senso; Cass. S.u. 13 giugno 2012, n. 9595).

Deve quindi il Collegio dare continuità alla recente giurisprudenza di questa Corte per la quale è ancora necessaria la ricorrenza, in funzione applicativa dell’art. 267 TFUE, del presupposto rappresentato dall’investitura del giudice nazionale di ultima istanza di "una controversia concernente il diritto dell’Unione" (Cass., 1 ottobre 2015, n. 19687; Cass. 30 ottobre 2014, n. 23066; Cass. 4 dicembre 2013, n. 27102).

Dalle superiori argomentazioni discende allora coerente il rigetto con la compensazione delle spese di giudizio, giustificata dalla sopravvivenza della pronuncia della Corte costituzionale alla sentenza impugnata.

 

P.Q.M.

 

Rigetta il ricorso, spese compensate.