Giurisprudenza - CORTE DI CASSAZIONE - Sentenza 30 marzo 2016, n. 6179

Assegno di pensione integrativa - Perequazione - Domanda - Esclusi i trattamenti pensionistici superiori a 5 volte il trattamento minimo INPS

 

Svolgimento del processo

 

1 - La Corte di Appello di Venezia, con sentenza depositata il 28.11.2008, in parziale riforma della sentenza del Tribunale di Pordenone del 26.2.2005, ha dichiarato il diritto di F. B., S. B., C. C., L. D. R., R. L., E. M. e V. S. a percepire la perequazione dell'assegno di pensione integrativa, ex art. 1 d.lgs 503/1992, solo per l'anno 1998. Ha respinto ogni altra domanda proposta dai ricorrenti nei confronti di Unicredito Italiano s.p.a. e Unicredit Banca s.p.a., rigettando l'appello incidentale e compensando fra le parti le spese del grado.

2 - La Corte, premesso che gli appellati principali, ex dipendenti del Credito Romagnolo, poi divenuto Rolo Banca 1474 s.p.a., erano tutti titolari di trattamento pensionistico integrativo a carico di un fondo aziendale istituito mediante accordo collettivo nazionale, ha evidenziato, per quel che qui rileva, che:

a) sino a tutto l'anno 1997 la cosiddetta "clausola oro" aveva garantito il costante adeguamento della retribuzione pensionabile alla dinamica retributiva del personale ancora in servizio;

b) per l'anno 1998 nulla era stato corrisposto in quanto, erroneamente, l'istituto di credito aveva ritenuto applicabili alle prestazioni integrative sia il 4° comma dell'art. 59 legge n. 449/1997 (che aveva esteso ai trattamenti integrativi le modalità di perequazione proprie del regime generale), sia il comma 13 della medesima disposizione, con il quale era stato previsto il blocco della perequazione per le pensioni di importo superiore a 5 volte il trattamento minimo;

c) in realtà il comma 13 non poteva essere applicato anche ai trattamenti integrativi, poiché riferito in via esclusiva alle pensioni in regime obbligatorio ed alle forme di questo sostitutive;

d) il riconoscimento del diritto alla perequazione per l'anno 1998 non dava luogo ad alcuna duplicazione di beneficio, poiché la cosiddetta clausola oro aveva operato solo sino a tutto il 1997 e, tra l'altro, aveva adeguato il trattamento pensionistico ai livelli retributivi stabiliti per i dipendenti in servizio di pari grado nell'anno 1995;

f) nessun diritto potevano vantare i ricorrenti, appellati principali, per il periodo successivo al 1998, perché l'art. 34, comma 1, della legge n. 448/1998 aveva esteso alle pensioni erogate dai fondi integrativi ed aggiuntivi il meccanismo di rivalutazione delle pensioni in regime obbligatorio.

3 - Per la cassazione della sentenza ha proposto ricorso Unicredit s.p.a., succeduta a seguito di incorporazione a Unicredit Banca s.p.a., sulla base di tre motivi. Gli originari ricorrenti hanno resistito con controricorso ed hanno proposto ricorso incidentate censurando, con un unico motivo, il capo della decisione relativo alla ritenuta infondatezza della domanda per il periodo successivo all'anno 1998. La ricorrente principale ha resistito, a sua volta, con controricorso alla impugnazione incidentale. Entrambe le parti hanno depositato memorie ex art. 378 c.p.c.

 

Motivi della decisione

 

1.1. - Con il primo motivo del ricorso principale Unicredit s.p.a. denuncia "violazione dell'art. 59, commi 13 e 4 della legge n. 449/1997, in relazione all'art. 360 n. 3 c.p.c." e deduce che erroneamente la Corte territoriale ha ritenuto inapplicabile alle pensioni integrative il comma 13 della norma sopra richiamata, quando, in realtà, con il comma 4 il legislatore aveva manifestato la volontà di operare una totale equiparazione, ai fini della perequazione automatica, dei trattamenti pensionistici di fonte privata alle forme di previdenza obbligatoria. Il motivo si conclude con la formulazione del quesito, con il quale si chiede alla Corte di stabilire se "per effetto del combinato disposto di cui ai commi 4 e 13 dell'art. 59 della legge 21,12.1997 n. 449, l'esclusione della perequazione automatica di cui all'art. 11 d.lgs n. 503/1992 ai trattamenti pensionistici superiori a cinque volte il trattamento minimo INPS relativamente all'anno 1998 si estenda anche ai trattamenti integrativi di fonte contrattuale".

1.2. - Il motivo è infondato.

Il comma 4 dell'art. 59 della legge n. 449/1997 stabilisce che "a decorrere dal 1° gennaio 1998, per l'adeguamento delle prestazioni pensionistiche a carico delle forme pensionistiche di cui ai commi 1, 2 e 3 trova applicazione esclusivamente l’articolo 11 del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 503, con esclusione di diverse forme, ove ancora previste, di adeguamento anche collegate all'evoluzione delle retribuzioni di personale in servizio. Con effetto sui trattamenti liquidati a decorrere dal 1 gennaio 1998 alle medesime forme pensionistiche si applicano te disposizioni in materia di cumulo tra prestazioni pensionistiche e redditi da lavoro dipendente o autonomo previste dalla disciplina dell'assicurazione generale obbligatoria."

Il comma 13 della norma citata prevede che "sui trattamenti pensionistici superiori a cinque volte il trattamento minimo INPS dovuti dall'assicurazione generale obbligatoria per l’invalidità, la vecchiaia e i superstiti e dalle forme di essa sostitutive od esclusive non spetta la perequazione automatica al costo della vita prevista per l'anno 1998".

Questa Corte, già con le sentenze nn. 24777/2006 e 15769/2007, ha chiarito che il legislatore, nel dettare la disciplina sopra trascritta, da un lato ha voluto stabilire, con riguardo a tutte le forme pensionistiche e con decorrenza dal 1° gennaio 1998, un unico criterio di adeguamento al mutato costo della vita, ossia quello di cui al D.Lgs. n. 503 del 1992, art. 11, meno favorevole dei meccanismi precedenti ed in particolare di quelli colleganti l'evoluzione delle pensioni alle retribuzioni del personale in servizio; dall'altro ha previsto, a fini di contenimento della spesa pubblica, una restrizione temporanea del diritto alla perequazione, limitandolo con esclusivo riferimento ai trattamenti pensionistici dovuti dalla assicurazione obbligatoria e dalle forme sostitutive od esclusive.

E' stato evidenziato che l'art. 59 della legge n. 449/1997 costituisce "un corpus normativo che in ciascuna delle diverse disposizioni reca la precisa individuazione delle forme pensionistiche oggetto di regolamentazione", con la conseguenza che la disciplina dettata dal comma 13, anche per la sua natura eccezionale, oltre che temporanea, non può essere estesa a regimi pensionistici diversi da quelli espressamente contemplati nella disposizione.

Detti principi sono stati ribaditi, poi, dalle più recenti sentenze nn. 13573/2011, 10556/2013 e 1311/2014, nelle quali si è dato conto della diversa interpretazione accolta da Cass. n.12344/2010, ritenendola non condivisibile, sia perché era stata trascurata la natura eccezionale dell'intero comma 13, sia in quanto la pronuncia aveva valorizzato la ampia locuzione ("indice di perequazione delle pensioni") contenuta nell'ultima parte del comma in commento, senza considerare la stretta connessione, logica e temporale, di questa con il dettato dell'intero comma, che esordisce riferendosi espressamente ai soli trattamenti "dovuti dall'assicurazione generale obbligatoria per l'invalidità, la vecchiaia e i superstiti e dalle forme di essa sostitutive od esclusive".

Le ragioni che hanno indotto la Corte a disattendere l'unico precedente favorevole alla tesi qui sostenuta dall'istituto di credito ricorrente, sono condivise dal Collegio, che intende dare continuità all'orientamento prevalente e ribadire la tesi della natura non solo temporanea ma anche eccezionale della sospensione prevista dal comma 13, come tale non applicabile a trattamenti pensionistici diversi da quelli espressamente richiamati nella disposizione.

Non vale richiamare la recente pronuncia delle Sezioni Unite sulla natura previdenziale e non retributiva dei versamenti effettuati dal datore di lavoro in favore dei fondi di previdenza complementare, atteso che le ragioni per le quali il comma 13 risulta applicabile alle sole prestazioni richiamate nel testo normativo vanno individuate, come già detto, nella natura eccezionale della previsione e nel tenore inequivocabile della stessa.

Ne discende la infondatezza del primo motivo del ricorso principale.

2.1 - Con il secondo motivo la Unicredit s.p.a. denuncia ex art. 360 n. 3 c.p.c. "violazione dell'art. 11 del d.lgs n. 503/92 per avere riconosciuto il diritto al trattamento pieno, senza applicazione dei coefficienti decrescenti di cui all'art. 24, commi 4 e 5 della legge n. 41/1986, e senza detrarre quanto anticipatamente acquisito in forza della clausola oro scattata nel 1997".

Rileva la società ricorrente che la Corte territoriale avrebbe duplicato il beneficio, violando il generale divieto di cumulo dei meccanismi perequativi nel riconoscere l'intera variazione dell'indice dei prezzi verificatasi nel corso dell'anno 1997, quando in relazione a detto anno la pensione integrativa era già stata incrementata per effetto della cosiddetta "clausola oro". Aggiunge la ricorrente principale che l'art. 11 del d.lgs n. 503/1992 sarebbe stato violato anche sotto altro profilo, in quanto la sentenza impugnata aveva riconosciuto agli appellati la perequazione sull'intero importo della pensione, senza applicazione dei coefficienti di cui all'art. 24, commi 4 e 5 legge n. 41/1986. Il motivo si conclude con la formulazione del seguente quesito "dica la Corte se, in forza dell'estensione della perequazione automatica vigente nei regimi obbligatori anche ai trattamenti integrativi, trovi applicazione anche alle pensioni integrative l'art. 24, commi 4 e 5 legge n. 41/1986, che applica alle fasce di pensione superiori alla prima, l'indice di variazione in misura percentualmente ridotta".

2.1 - Il motivo, nella parte in cui fa riferimento al divieto di duplicazione del beneficio ed alla incompatibilità della perequazione per l'anno 1998 con gli effetti già prodotti dalla clausola oro, è inammissibile per violazione dell'art. 366 bis c.p.c., applicabile ratione temporis alla fattispecie, giacché la sentenza impugnata risulta pubblicata il 28 novembre 2008.

Secondo l’orientamento di questa Corte il principio di diritto previsto dalla norma sopra richiamata deve consistere in una chiara sintesi logico-giuridica della questione sottoposta al vaglio del giudice di legittimità, formulata in termini tali per cui dalla risposta negativa od affermativa che ad esso si dia, discenda in modo univoco l'accoglimento od il rigetto del gravame (si veda in tal senso fra le più recenti Cass. 11.9.2014 n. 19219).

E' stato anche affermato che il principio di diritto costituisce il punto di congiunzione tra la risoluzione del caso specifico e l'enunciazione del principio generale e, quindi, deve costituire la chiave di lettura delle ragioni esposte a sostegno del motivo, in modo da porre la Corte In condizione di rispondere ad esso con l'enunciazione di una regula iuris che sia, in quanto tale, suscettibile di ricevere applicazione in casi ulteriori (cfr. ex plurimis, Cass. nn. 11535/2008; 19892/2007).

Infine le Sezioni Unite di questa Corte hanno anche chiarito che "in caso di proposizione di motivi di ricorso formalmente unici, ma in effetti articolati in profili autonomi e differenziati di violazioni di legge diverse, sostanziandosi tale prospettazione nella proposizione cumulativa di più motivi, affinché non risulti elusa la "ratio" dell'art. 366-bis cod.proc.civ., deve ritenersi che tali motivi cumulativi debbano concludersi con la formulazione di tanti quesiti per quanti sono i profili fra loro autonomi e differenziati in realtà avanzati, con la conseguenza che, ove il quesito o i quesiti formulati rispecchino solo parzialmente le censure proposte, devono qualificarsi come ammissibili solo quelle che abbiano trovato idoneo riscontro nel quesito o nei quesiti prospettati, dovendo la decisione della Corte di cassazione essere limitata all'oggetto del quesito o dei quesiti idoneamente formulati, rispetto ai quali il motivo costituisce l'illustrazione." (Cass. 9 marzo 2009 n. 5624).

Il quesito formulato in calce al secondo motivo riguarda unicamente la asserita violazione dell'art. 24 della legge n. 41/1986 mentre non contiene alcun cenno alla questione della lamentata duplicazione del beneficio, quale effetto della operatività della clausola oro sino a tutto il 1997. Detta questione, pertanto, sebbene illustrata nel motivo, non può essere esaminata dalla Corte per le ragioni sopra indicate.

2.2. - Il secondo motivo, nella parte in cui denuncia la violazione dell'art. 24, commi 4 e 5 della legge n. 41/1986, deve essere esaminato congiuntamente al terzo, con il quale la società ricorrente denuncia "omessa pronuncia su un punto decisivo della controversia ex art. 360 n. 5 c.p.c." e rileva che la Corte territoriale non avrebbe dovuto recepire i conteggi allegati al ricorso in quanto gli stessi

avevano applicato l'indice di variazione dei prezzi, pari all'1,7% all'intera pensione, senza applicare le riduzioni previste dalla norma sopra richiamata. Evidenzia la ricorrente che la questione era stata prospettata a pag. 11 dell'atto di appello e che nelle conclusioni era stato chiesto di riformare la sentenza per avere erroneamente quantificato gli importi dovuti.

2.3 - Anche detti motivi sono inammissibili, in quanto gli stessi erroneamente prospettano un vizio di motivazione ex art. 360 n. 5 c.p.c. ed una violazione di legge, rilevante ai sensi del n. 3 dell'art. 360 c.p.c., a fronte di una asserita omessa pronuncia sul motivo di gravame con il quale, a detta della ricorrente, sarebbe stata censurata la sentenza del Tribunale che aveva recepito i conteggi depositati dai ricorrenti, errati per non avere tenuto conto dei coefficienti previsti dal richiamato art. 24.

Va qui ribadito che l’omessa pronuncia su alcuni dei motivi di appello - così come, in genere, l’omessa pronuncia su domanda, eccezione o istanza ritualmente introdotta in giudizio - risolvendosi nella violazione della corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato, integra un difetto di attività del giudice di secondo grado, che deve essere fatto valere dal ricorrente ex art. 360 n.4 c.p.c. e non con la denuncia della violazione di una norma di diritto sostanziale ex art. 360 n. 3 c.p.c., o del vizio di motivazione ex art. 360 n. 5 c.p.c., in quanto siffatte censure presuppongono che il giudice del merito abbia preso in esame la questione oggetto di doglianza e l’abbia risolta in modo giuridicamente non corretto ovvero senza giustificare adeguatamente la decisione. Solo la denuncia dell'error in procedendo, infatti, consente al giudice di legittimità, in tal caso giudice anche del fatto processuale, di effettuare l'esame, altrimenti precluso, degli atti del giudizio di merito e, così, anche dell'atto di appello. (in tal senso Cass. 27.10.2014 n. 22759).

Le Sezioni Unite di questa Corte, nel comporre il contrasto sorto nella giurisprudenza di legittimità sulle conseguenze della errata formulazione dei motivi, hanno affermato che "nel caso in cui il ricorrente lamenti l'omessa pronunzia da parte della impugnata sentenza,in ordine ad una delle domande o eccezioni formulate non è necessario che faccia espressa menzione della ricorrenza dell'ipotesi di cui all'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4 (con riferimento all'art. 112 c.p.c.), purché nel motivo su faccia inequivocabilmente riferimento alla nullità della decisione derivante dalla relativa omissione. Va invece dichiarato inammissibile il motivo allorquando, in ordine alla suddetta doglianza, il ricorrente sostenga che la motivazione sia stata omessa o insufficiente o si limiti ad argomentare sulla violazione dì legge" (Cass. S.U. 24.7.2013 n. 17931).

Il caso di specie è riconducibile alla seconda ipotesi, innanzitutto perché nei motivi non si fa riferimento alcuno alla nullità derivata dall'error in procedendo, ed anche perché, essendo applicabile ratione temporis l'art. 366 bis c.p.c., il . quesito, formulato In termini di violazione di legge in calce al secondo motivo e totalmente mancante nel terzo, privo anche del "motivo di sintesi", non risulta essere adeguato rispetto alla denuncia di nullità della sentenza per violazione dell'art. 112 c.p.c. (in tal senso in fattispecie analoga Cass. 31.10.2013 n. 24533).

3.1 - Con l'unico motivo di ricorso incidentale è denunciata ex art. 360 n. 3 c.p.c. " violazione e falsa applicazione dell'art. 34 comma 1 della legge 23 dicembre 1998 n. 448". Sostengono in sintesi i ricorrenti che la norma si limiterebbe a stabilire i criteri quantitativi di ripartizione delle quote di rivalutazione, lasciando immutata l'autonomia del regime integrativo rispetto a quello generale. Detta autonomia, a loro avviso, impedirebbe l'estensione alla pensione integrativa della disciplina concernente il blocco della rivalutazione, limitato al solo regime generale.

Il motivo si conclude con la formulazione del quesito, nel quale si riassumono le due opzioni esegetiche e si sollecita la Corte a ritenere corretta la interpretazione posta a fondamento del ricorso e disattesa dal giudice di appello.

3.2 - Il motivo è infondato.

L'art. 34 della legge n. 448/1998 al comma 1 stabilisce che "Con effetto dal 1° gennaio 1999, il meccanismo dì rivalutazione delle pensioni si applica per ogni singolo beneficiario in funzione dell'importo complessivo dei trattamenti corrisposti a carico dell'assicurazione generale obbligatoria e delle relative gestioni per i lavoratori autonomi, nonché dei fondi sostitutivi, esclusivi ed esonerativi della medesima e dei fondi integrativi ed aggiuntivi di cui all’articolo 59, comma 3, della legge 27 dicembre 1997, n. 449. L'aumento della rivalutazione automatica dovuto in applicazione del presente comma viene attribuito, su ciascun trattamento, in misura proporzionale all'ammontare del trattamento da rivalutare rispetto all’ammontare complessivo." I commi successivi disciplinano, poi, gli adempimenti necessari per la quantificazione della rivalutazione automatica e della quota gravante sul singolo trattamento e stabiliscono un obbligo di comunicazione al Casellario centrale delle pensioni il quale, sulla base dei dati trasmessi dagli enti interessati, comunica agli stessi "l'importo del trattamento complessivo del soggetto su cui attribuire gli incrementi".

Il tenore letterale della disposizione è chiaro nel riferimento ai "meccanismo di rivalutazione", del quale prevede la unicità, pur nella diversità dei trattamenti pensionistici goduti, stabilendo, a tal fine, l'obbligo di considerare l'importo complessivo di tutte le erogazioni effettuate in favore del beneficiario.

E', quindi, condivisibile la sentenza impugnata nella parte in cui evidenzia che il legislatore con la legge in commento ha portato a conclusione il processo di armonizzazione già da tempo in atto, imponendo un unico meccanismo di perequazione, da applicare sul trattamento pensionistico complessivamente considerato.

Proprio la unicità del meccanismo induce a ritenere la giuridica impossibilità di subordinare la spettanza del diritto a requisiti diversi, atteso che tutta la disciplina finalizzata a stabilire le modalità di calcolo della rivalutazione complessiva e la ripartizione della stessa fra le diverse gestioni pensionistiche, esclude in radice che possa ipotizzarsi quanto invocato dai ricorrenti incidentali, ossia che possa riconoscersi la perequazione, pacificamente non spettante secondo il regime generale, solo per il trattamento integrativo.

A dette conclusioni questa Corte è già pervenuta, sia pure incidentalmente, avendo osservato nella motivazione delle sentenze nn. 10556/2013 e 13573/2011 che non "giova alla tesi della ricorrente (banca) la formulazione della sopravvenuta L. 23 dicembre 1998, n. 448, che (art. 34) nel dettare la disciplina del meccanismo di rivalutazione delle pensioni con effetto dal 1 gennaio 1999, comprende esplicitamente nel trattamento complessivo le erogazioni a carico dei fondi integrativi e aggiuntivi" (disponendo che l'aumento della rivalutazione automatica dovuto "viene attribuito su ciascun trattamento in misura proporzionale all’ammontare del trattamento da rivalutare rispetto all'ammontare complessivo"), in quanto ciò non significa affatto che te dette erogazioni siano state soggette alla disciplina di cui alla precedente L. n. 449 del 1997, art. 59, comma 13".

4 - In conclusione entrambi i ricorsi devono essere respinti. La soccombenza reciproca giustifica l'integrale compensazione delle spese del giudizio di legittimità.

 

P.Q.M.

 

Rigetta entrambi i ricorsi. Compensa integralmente fra le parti le spese del giudizio di legittimità.