Giurisprudenza - CORTE DI CASSAZIONE - Sentenza 30 marzo 2016, n. 6114

Tributi - Avviso di accertamento - Rettifica del reddito imponibile a fini Irpef, Irap e Iva

 

Svolgimento del processo

 

1. Con la sentenza in epigrafe la C.T.R. del Lazio, Sez. Staccata di Latina, ha confermato la sentenza di primo grado che aveva accolto il ricorso proposto da R.C. avverso avviso di accertamento con il quale l’ufficio aveva provveduto a rettificare il reddito imponibile a fini Irpef, Irap e Iva per l’anno d’imposta 1999 sulla base dei parametri presuntivi di reddito di cui al D.P.C.M. 29 gennaio 1996, come modificato dal D.P.C.M. del 27/3/1997.

I giudici d’appello hanno infatti rilevato che, invitata al contraddittorio, la contribuente aveva dimostrato che svolge lavoro dipendente, come documentato dalle buste paga allegate; che all’attività di <<richiesta certificati e disbrigo pratiche>> dedica solo il tempo che ne resta libera; che i beni con cui operava erano vecchi e obsoleti.

Hanno quindi ritenuto che l’avviso di rettifica non fosse adeguatamente fornito di motivazione.

2. Avverso tale sentenza propone ricorso per cassazione l’Agenzia delle entrate sulla base di tre motivi, corredati dalla formulazione di quesiti ai sensi dell’art. 366-bis cod. proc. civ.

La contribuente ha depositato controricorso.

 

Motivi della decisione

 

3. Con il primo motivo l’Agenzia ricorrente deduce violazione dell’art. 112 c.p.c., in relazione all’art. 360, comma primo, n. 4, cod. proc. civ. lamentando vizio di ultrapetizione per avere la C.T.R. motivato il rigetto del proposto appello per la ritenuta mancanza di adeguata motivazione nell’avviso di rettifica, così eccedendo i limiti dell’eccezione proposta dalla contribuente, la quale aveva dedotto non carenza di motivazione, ma il difetto di prova a fondamento dell’accertamento.

Formula quindi il seguente quesito di diritto: <<dica codesta Corte di cassazione se violi l’art. 112 c.p.c. la sentenza della C.T.R. che ritenga l’atto impositivo impugnato dal contribuente nullo in quanto non adeguatamente fornito di motivazione, quando nel ricorso introduttivo del giudizio il contribuente medesimo si limitava ad eccepire che l’avviso di accertamento fosse sfornito di prova ad opera dell’ufficio, eccedendo in tal modo i limiti della domanda del ricorrente>>.

4. Con il secondo motivo, l’Agenzia deduce violazione dell’art. 3, comma 181, legge 28 dicembre 1998, n. 549, e dell’art. 39, comma primo, d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, in relazione dell’art. 360, comma primo, n. 3, c.p.c., per avere la C.T.R. ritenuto superato l’accertamento presuntivo mediante la semplice allegazione di fatti, peraltro del tutto generici, operata dal contribuente in assenza di qualsivoglia supporto probatorio.

5. Con il terzo mezzo la ricorrente deduce, in subordine, violazione e falsa applicazione dell’art. 39 d,lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, per avere la C.T.R. omesso di provvedere alla rideterminazione in concreto del reddito imponibile in base delle risultanze di causa.

6. E’ inammissibile e comunque infondato il primo motivo di ricorso.

La censura non si confronta con il reale contenuto della motivazione della sentenza impugnata, distorcendone il significato sulla base di una sola frase estrapolata dal resto.

Risulta evidente, invero, che la ratio decidendi riposa non già sul dato formale della adeguatezza o meno della motivazione dell’atto sul piano meramente formale, quanto sul rilievo della insufficienza del mero scostamento dei parametri considerati nel caso concreto in ragione della omessa considerazione da parte dell’ufficio delle giustificazioni rese dalla contribuente e degli elementi legati al caso concreto, che è tema centrale del giudizio quale introdotto dal ricorso del contribuente e ampiamente trattato nel contraddittorio delle parti in entrambi i gradi di merito.

7. E’ altresì infondato il secondo motivo.

Giova rammentare in premessa il principio, consolidato nella giurisprudenza di questa Corte, secondo cui la procedura di accertamento tributario standardizzato mediante l’applicazione dei parametri o degli studi di settore costituisce un sistema di presunzioni semplici, la cui gravità, precisione e concordanza non è ex lege determinata dallo scostamento del reddito dichiaro rispetto agli standards in sé considerati - meri strumenti di ricostruzione per elaborazione statistica della normale redditività - ma nasce solo in esito al contraddittorio da attivare obbligatoriamente, pena la nullità dell’accertamento, con il contribuente.

In tale sede, quest’ultimo ha l’onere di provare, senza limitazione alcuna di mezzi e di contenuto, la sussistenza di condizioni che giustificano l’esclusione dell’impresa dell’area dei soggetti cui possono essere applicati gli standards o la specifica realtà dell’attività economica nel periodo di tempo in esame, mentre la motivazione dell’atto di accertamento non può esaurirsi nel rilievo dello scostamento, ma deve essere integrata con la dimostrazione dell’applicabilità in concreto dello standards prescelto e con le ragioni per le quali sono state disattese le contestazioni sollevate dal contribuente.

L’esito del contraddittorio, tuttavia, non condiziona l’impugnabilità dell’accertamento, potendo il giudice tributario liberamente valutare tanto l’applicabilità degli standards al caso concreto, da dimostrarsi dall’ente impositore, quanto la controprova offerta dal contribuente che, al riguardo, non è vincolato alle eccezioni sollevate nella fase del procedimento amministrativo e dispone della più ampia facoltà, incluso il ricorso a presunzioni semplici, anche se non abbia risposto all'invito al contraddittorio in sede amministrativa, restando inerte. In tal caso, però, egli assume le conseguenze di questo suo comportamento, in quanto l'Ufficio può motivare l'accertamento sulla sola base dell'applicazione degli standards, dando conto dell'impossibilità di costituire il contraddittorio con il contribuente, nonostante il rituale invito, ed il giudice può valutare, nel quadro probatorio, la mancata risposta all'invito (Cass., Sez. U, n. 26635 del 18/12/2009

, Rv. 610691).

Nel caso di specie, diversamente da quanto dedotto dalla amministrazione ricorrente, non si ricava dalla motivazione della sentenza impugnata alcuna affermazione in contrasto con tale principio, né ragione per ritenere che la regola di giudizio in concreto applicata se ne discosti. La sentenza, al contrario si conforma ad esso, avendo postulato la necessità per l'amministrazione di offrire elementi di valutazione ulteriori rispetto a quello rappresentato dal mero scostamento dagli studi di settore, in presenza di emergenze istruttorie idonee a rappresentare una situazione reddituale ben diversa da quella presupposta dai parametri standard posti a fondamento dell'accertamento (quali il contestuale svolgimento di lavoro dipendente, sia pure part time; la vetustà e l'obsolescenza dei beni destinati all'esercizio dell'attività di lavoro autonomo).

8. è infondato anche il terzo motivo.

Non si ricava, invero, dalla sentenza impugnata, alcuna affermazione contrastante in contrasto con la norma asseritamente violata. La C.T.R. ha ritenuto non potersi ipotizzare una situazione di evasione di imposta, con ciò dunque escludendo l'esistenza di maggiori redditi da recuperare a tassazione e pertanto la necessità di una rideterminazione giudiziale degli stessi, sia pure difforme e riduttiva rispetto a quella operata dall'ufficio.

9. Il ricorso va pertanto rigettato, conseguendone la condanna della ricorrente al pagamento delle spese processuali, liquidate come da dispositivo.

 

P.Q.M.

 

Rigetta ricorso e condanna l'Agenzia ricorrente al pagamento delle spese processuali, liquidate in € 2.000,00, oltre accessori come per legge.