Giurisprudenza - COMMISSIONE TRIBUTARIA PROVINCIALE RIETI - Ordinanza 17 dicembre 2015

Imposte e tasse - Imposta unica sulle scommesse - Soggettività passiva dei centri di raccolta dati (o CTD ) operanti come ricevitorie per conto del bookmaker estero - Decreto legislativo 23 dicembre 1998, n. 504 ("Riordino dell'imposta unica sui concorsi pronostici e sulle scommesse, a norma dell'art. 1, comma 2, della legge 3 agosto 1998, n. 288"), artt. 3 e 4, comma 1, lett. b), n. 3; legge 13 dicembre 2010, n. 220 ("Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge di stabilità 2011)"), art. 1, comma 66, lett. b)

 

Osserva

 

1. La ricorrente gestisce un centro di raccolta delle scommesse, per conto di S. International, che, per quanto riguarda l'Italia, ha ceduto il ramo di azienda relativo ai giochi ed alle scommesse, a S.M. Limited.

In particolare, la ricorrente ha con la S. un contratto di ricevitoria, in base al quale raccoglie le scommesse dei singoli scommettitori e le trasmette a S., pagando poi l'eventuale vincita. In sostanza, il giocatore prende visione, all'interno della ricevitoria, delle proposte di scommessa fatte da S. (in genere su un monitor telematico), compila una schedina con la scommessa che intende accettare e la consegna al ricevitore, il quale la trasmette a S. Quando quest'ultimo ha ricevuto la volontà dello scommettitore, quello è il momento in cui si conclude il contratto. 

Se il giocatore vince, la somma viene pagata direttamente da S..

Così che la ricevitoria non è il soggetto che organizza le scommesse, in quanto non stabilisce su cosa e per quanto scommettere e non decide quale sia la vincita da corrispondere al giocatore.

L'organizzatore della scommessa è il bookmaker (nel nostro caso S.) mentre la ricevitoria funge da centro di trasmissione dei dati necessari alla conclusione del gioco.

2. L'Agenzia delle Entrate pretende il pagamento della imposta sulle scommesse anche dal ricevitore.

Ciò fa sulla base dell'art. 3 d.lgs. 504/1998 come interpretato dall'art. 1 comma 66, lettera B) legge 220/2010.

La prima delle due norme stabilisce che: "soggetti passivi dell'imposta unica sono coloro quali gestiscono, anche in concessione, i concorsi pronostici e le scommesse". Norma oggetto di interpretazione autentica da parte dell'art. 1, e 66, lett. b), L. 220/2010, che, allo scopo di eliminare ogni dubbio sull'equiparazione delle scommesse offerte dagli allibratori muniti di concessione italiana rispetto a quelli residenti in altro Stato Membro dell'Unione europea, ed operanti con modali transfrontaliera, che ne sono privi (cfr. art. 1, co. 6 L. 220/2010), ha disposto che "... l'art. 3 del decreto legislativo 23 dicembre 1998, n. 504, si interpreta nel senso che soggetto passivo d'imposta è chiunque, ancorché in assenza ... della concessione rilasciata dal Ministero dell'economia e delle finanze - Amministrazione autonoma dei monopoli di Stato - gestisce con qualunque mezzo, anche telematico, per conto proprio o di terzi, anche ubicati all'estero, concorsi pronostici o scommesse di qualsiasi genere. Se l'attività è esercitata per conto terzi, il soggetto per conto del quale l'"attività esercitata è obbligato solidalmente al pagamento dell'imposta e delle relative sanzioni".

Sulla base di questa ultima norma, l'Agenzia ritiene che i centri di raccolta dati siano "gestori" di scommesse per conto terzi, ossia per conto dei bookmaker (nel nostro caso per conto di S.), con la conseguenza di essere soggetti passivi di imposta. 

3. La questione se i centri di raccolta dati siano o meno soggetti passivi di imposta è stata posta al giudice tributario in occasioni diverse. Allo stato prevale la tesi affermativa, che, ritenendo che i centri di raccolta dati "gestiscono" per conto dei bookmaker le scommesse, ritiene che essi ricadano nella previsione dell'art. 1 comma 66 legge 220/ 2010, e dunque siano soggetti passivi dell'imposta. Con i centri di raccolta è conseguentemente obbligato in via solidale il bookmaker di riferimento.

 Questa tesi, per come anche documentato in atti, essendo di gran lunga più diffusa della tesi contraria, costituisce, allo stato, il diritto vivente, o comunque costituisce l'interpretazione corrente del combinato disposto (art. 3 d.lgs. n. 504 del 1998 e art. 1 comma 66 l. 220/2010) in tema di soggetti passivi dell'imposta di consumo.

Questa interpretazione è però sospettata di illegittimità costituzionale per le ragioni, evidenziate dalla ricorrente, che si andranno ad evidenziare in seguito e che questa Commissione fa proprie, condividendole.

1. La rilevanza della questione.

La ricorrente (centro di raccolta dati) contesta di dovere pagare l'imposta di consumo, meglio, contesta che le due norme suindicate, si possano riferire alla sua attività. E' di tutta evidenza dunque che, per poter decidere il ricorso (se la ricorrente sia o meno soggetto d'imposta) deve farsi applicazione di quelle norme, e precisamente, della prima, quale formulazione originaria del precetto, della seconda quale interpretazione autentica del medesimo. 

Se la norme vengono intese nel senso che le ricevitorie sono soggetti passivi d'imposta, il ricorso dovrà essere rigettato, viceversa se le norme sono intese come non riferibili alle ricevitorie, il ricorso andrà accolto.

Si intuisce, senza bisogno di alcuna altra argomentazione, che la decisione dipende dalla interpretazione che si vorrà dare alle suddette disposizioni. E tuttavia non si tratta di scegliere tra due interpretazioni diverse, così che la questione non è solo di tipo interpretativo. Come si è detto opinione corrente ha già scelto una interpretazione (e la norma, come è noto, è l'esito della interpretazione). Questa Commissione dunque prende atto che esiste un'interpretazione corrente, che porta a ritenere le ricevitorie come obbligate al pagamento dell'imposta, ma ritiene altresì che tale interpretazione corrente produca una norma incostituzionale. Dunque, la rilevanza della questione è nel fatto che la norma, quale esito dell'interpretazione corrente di quelle disposizioni, è nel senso della imponibilità e che la causa non può essere decisa se non applicandola.

Più precisamente.

Sì può obiettare che è allora sufficiente che il giudice scelga l'una o l'altra delle suddette interpretazioni per decidere la causa, senza bisogno che sollevi questione di legittimità costituzionale. O, più precisamente, si può obiettare che questo giudice non può sollevare la questione senza avere prima sondato la possibilità di una interpretazione della norma in un senso conforme a Costituzione. 

Va osservato al riguardo, quanto a questo ultimo aspetto, che qui la rilevanza della questione è data dalla possibilità che la norma si riferisca anche alle ricevitorie quali soggetti d'imposta. E l'unica opzione interpretativa che è rimessa al giudice è solo di ritenere applicabile o meno la suddetta disciplina anche ai centri di raccolta delle scommesse.

 Se il giudice decide che la norma non si applica alle ricevitorie, non fa un'interpretazione compatibile con la Costituzione, piuttosto esclude semplicemente che la norma, conforme o meno che sia alla Costituzione, non si applica affatto al suo caso. 

La necessità di sondare se vi sia un'interpretazione compatibile con la Costituzione sorge solo dopo che il giudice avrà deciso che la norma si applica anche alle ricevitorie. Solo a quel punto, ritenuta applicabile la norma, e dunque scelta l'interpretazione che conduce a quell'esito, potrebbe essere obbligo del giudice verificare se vi sia un'interpretazione possibile che renda la norma compatibile con la Costituzione.

 A ben vedere però il giudice rimettente non è obbligato ad una tale verifica quando l'interpretazione della cui costituzionalità egli dubita, costituisce diritto vivente, è, in altri termini, un'interpretazione seguita correntemente nella giurisprudenza. E' regola più volte affermata che: "in presenza di un diritto vivente non condiviso dal giudice a quo perché ritenuto costituzionalmente illegittimo, questi ha la facoltà di optare tra l'adozione, sempre consentita, di una diversa interpretazione, oppure - adeguandosi al diritto vivente - la proposizione della questione davanti a questa Corte; mentre è in assenza di un contrario diritto vivente che il giudice rimettente ha il dovere di seguire l'interpretazione ritenuta più adeguata ai principi costituzionali (cfr. ex plurimis sentenze n. 226 del 1994, n. 296 del 1995 e n. 307 del 1996 e da ultimo n. 113 del 2015)".

 Nel caso presente, le corti di merito (non v'è ancora alcuna pronuncia della Corte di Cassazione) sono quasi unanimemente, con pochissime eccezioni, orientate verso la tesi per cui la norma si applica alle ricevitorie, considerandole soggetti passivi d'imposta. E l'orientamento sta ricevendo l'avallo delle Commissioni Regionali (CTR Bari n. 769/13/2015; CTR Milano n. 1458/15/2015. CTR Napoli n. 4615/17/2015). 

2. La questione poi non appare manifestamente infondata. 

E' regola che il requisito della non manifesta infondatezza non comporta che il giudice sia convinto della piena fondatezza, ma è sufficiente che abbia oggettive ragioni di dubbio sulla costituzionalità della norma (Corte cost. 143 del 1982) per i seguenti

 

Motivi

 

1. Violazione dell'art. 53 comma 1 della Costituzione in relazione al principio di capacità contributiva. 

L'imposta sulle scommesse è, per opinione pacifica, un'imposta indiretta, che colpisce il consumo di ricchezza del giocatore.

L'imposta grava sullo scommettitore anche se è riscossa dal concessionario e da questi girata all'erario. Di conseguenza la capacità contributiva su cui è commisurata l'imposta unica è quella dello scommettitore privato.

Il consumo della scommessa è dunque indice indiretto di capacità contributiva. 

Come è tipico delle imposte indirette, l'onere relativo può essere (dovrebbe essere) trasferito sul consumatore della ricchezza tassata, ossia sul giocatore.

 In sostanza, proprio in quanto il concessionario non è il soggetto gravato dall'imposta, ma solo colui che materialmente ne versa il gettito all'erario, egli deve poter trasferire l'onere relativo sul soggetto passivo, ossia sul giocatore. Diversamente l'imposta, pensata per colpire il "consumo" della scommessa da parte dello scommettitore, finisce con il gravare sul concessionario, tradendo la sua natura di imposta di consumo. Ne segue che soltanto se l'imposta potrà effettivamente gravare sul consumatore o su soggetto capace di trasferire a quest'ultimo l'onere relativo, potrà ritenersi rispettato il criterio della capacità contributiva. 

Se si intendono gli art. 3 d.lgs. 504/1998 e 1 comma 66 l. 220/2010 nel senso che la ricevitoria è un gestore per conto terzi della scommessa, e dunque soggetto passivo d'imposta, l'esito è la violazione del principio di capacità contributiva.

In nessun modo infatti la ricevitoria potrà traslare sullo scommettitore l'onere dell'imposta. 

Non v'è alcuna norma infatti che consenta o imponga al centro di elaborazione dati di rivalersi sullo scommettitore o di effettuare la ritenuta sulle puntate ricevute o sulle vincite versate. Piuttosto la disciplina amministrativa prevede il contrario (D.M. 111/2006). 

La ricevitoria non può effettuare una tale traslazione neanche in via indiretta, ossia modificando le quote di scommessa, poiché non ha alcun potere di farlo, essendo le quote, cosi come le percentuali di vincita stabilite direttamente dal bookmaker (nel nostro caso S.).

 E del resto, di fatto, il contratto tra il bookmaker ed il ricevitore vieta a quest'ultimo ogni forma di ingerenza nella determinazione della scommessa e delle quote relative.

 Il centro elaborazione dati, ricevuta la somma da parte dello scommettitore, deve trasmetterla al bookmaker, verso cui ha un obbligo di rendicontazione, così che in alcun modo la ricevitoria può traslare sullo scommettitore (neanche materialmente) l'imposta che, secondo l'interpretazione corrente, è tenuto a versare all'erario.

Più precisamente.

Alla ricevitoria (obbligato "principale") è preclusa la facoltà di rivalersi sul bookmaker (obbligato "dipendente"), per l'esplicito divieto dell'art. 64, co. 3, dPR 600/1973, che - al contrario - attribuisce il diritto di rivalsa all'obbligato "dipendente", dunque, al bookmaker. In secondo luogo, quand'anche fosse superabile il disposto del predetto art. 64, co. 3, del dPR 600/1973, la rivalsa/regresso nei confronti dei bookmaker traslerebbe l'onere del tributo su un soggetto (il bookmaker, appunto) che non il titolare della capacità contributiva destinata dal Legislatore a venire incisa (lo scommettitore). 

Ne segue che l'attribuzione al titolare di ricevitoria dell'onere dell'Imposta Unica viola il dettato costituzionale, in quanto colpisce un soggetto che non possiede la capacità contributiva individuata dal Legislatore quale fatto generatore del tributo (consumo di ricchezza nelle scommesse) e che, al contempo, non ha alcuna possibilità di traslarne l'onere su chi la possiede (lo scommettitore). 

2. Violazione del principio di uguaglianza di cui all'art. 3 della Costituzione.

Le disposizioni denunciate pongono il medesimo carico d'imposta sul "gestore per conto proprio" (il bookmaker) e sul "gestore per conto terzi" (il titolare di ricevitoria), accomunando così situazioni oggettivamente diverse sotto molteplici profili. 

Innanzitutto, l'attività del bookmaker è astrattamente, ma anche di fatto, diversa da quella svolta per suo conto dalla ricevitoria. Mentre il bookmaker sceglie gli eventi su cui i giocatori sono invitati a effettuare scommesse (cosiddetto "palinsesto" ovvero "programma di accettazione" ai sensi dell'art. 5, co. 4, D.M. 111/2006), fissa le quote delle scommesse (vale a dire, il loro prezzo) e le loro condizioni contrattuali e, come visto, stipula in nome proprio i contratti di scommessa assumendone i diritti e gli obblighi, la ricevitoria si limita a fornirgli il supporto logistico esterno, mettendolo in contatto materiale con i giocatori, trasmettendo le rispettive volontà contrattuali ed i relativi flussi di provvista, e, in definitiva, eseguendo tutte e soltanto le direttive e le istruzioni ricevute dal bookmaker. Nessun ruolo, al contrario, ha la ricevitoria con riferimento alle altre fasi economico-giuridiche della scommessa: non partecipa alla formazione del palinsesto di gioco, né alla quotazione delle scommesse; è soggetto terzo rispetto al contratto di scommessa stipulato tra i bookmaker ed il giocatore; non vanta diritti sulla puntata; non risponde delle vincite; ed, infine, ha l'obbligo di pagarle, non già a titolo e con provvista propri, e bensì in esecuzione del mandato ricevuto da parte del bookmaker e con la provvista da lui fornita. Il bookmaker è il mandante della ricevitoria, dei cui incarichi quest'ultima è mera esecutrice.

Non meno diverse sono le utilità ritratte dai due soggetti dalla loro attività. Mentre, infatti, il ricavo del bookmaker è costituito dal valore delle scommesse stipulate, quello della ricevitoria è dato dalla provvigione che il bookmaker gli riconosce.   Dal punto di vista strettamente tributario, vale la pena di evidenziare l'effettivo rapporto sussistente tra i due soggetti nei confronti del presupposto d'imposta, che, lo si ricorda, C. Cost. n. 350/2007 ha individuato nel contratto di scommessa. Mentre il bookmaker è parte del contratto di scommessa ed è titolare dei diritti (incameramento delle puntate) e degli obblighi (pagamento delle vincite) che ne conseguono, la ricevitoria si limita a "ricevere le schede di partecipazione e riscuotere le poste da parte dei concorrenti ..." per conto del primo (come esplicitamente previsto dall'art. 55, dPR n. 581/1951), al contratto di scommessa rimanendo completamente estranea.

Diverso è anche il rapporto con la provvista versata dallo scommettitore. Mentre, infatti, il bookmaker né è il proprietario ed è munito del potere giuridico di disporne, la ricevitoria è un mero mandatario all'incasso con precisi obblighi di rendicontazione, e con l'obbligo di riversare al primo tutto quanto ricevuto e movimentato, al netto delle sole vincite pagate ai giocatori e, in via di compensazione, delle provvigioni maturate a corrispettivo della propria attività.

 Infine, anche con specifico riferimento alla capacità contributiva destinata a venire incisa (quella dello scommettitore), la posizione del bookmaker è profondamente diversa da quella della ricevitoria. Mentre il primo può realizzare la volontà legislativa di incidere la ricchezza dello scommettitore, e mediante quote (ovvero "prezzi" della scommessa) meno favorevoli e, comunque, rinvenire la provvista necessaria all'assolvimento del tributo nelle puntate raccolte, ciò non è sicuramente possibile per il ricevitore, a motivo dell'assenza di rapporti giuridici e/o economici con lo scommettitore.

 La giurisprudenza di merito (ad es. CTP Napoli, n. 29890/30/2014) ha tentato di superare quest'ultima obiezione, affermando che il titolare di ricevitoria potrebbe liberarsi dell'onere dell'imposta mediante appositi accordi con il bookmaker che lo autorizzassero a prelevare l'imposta dalla puntata. La tesi, tuttavia, non ha pregio, per due ordini di ragioni. In primo luogo, la necessità di un simile accordo, lungi dal giustificare la discriminazione lamentata, la conferma, in quanto evidenzia l'inidoneità della norma a garantire da sola la ragionevolezza della discriminazione (senza, cioè, l'intervento di atti di autonomia contrattuale, rimessi alla convenienza e alla forza imprenditoriale dei privati). In secondo luogo, alla traslazione dell'onere tributario dal "gestore per conto terzi" (ricevitoria) sul terzo beneficiario della gestione (bookmaker), come già visto, osta il fatto che la responsabilità di quest'ultimo ha natura "dipendente" ed è, quindi, accompagnata dal diritto di rivalsa nei confronti del responsabile "principale" (il "gestore per conto terzi") ex art. 64, co. 3, dPR 600/1973.

Posto, quindi, che bookmaker e titolare di ricevitoria sono soggetti radicalmente diversi, la loro equiparazione dal punto di vista della responsabilità tributaria non può trovare ragionevole giustificazione e si risolve in una discriminazione contraria al principio di uguaglianza.

 Infine, a sostegno dell'assoggettamento all'imposta del titolare di ricevitoria, neppure potrà invocarsi un'esigenza di supposta parità di trattamento fiscale delle scommesse organizzate da soggetti titolari di concessione con quelle organizzate da soggetti privi di tale titolo. Al contrario, è proprio l'attribuzione della soggettività passiva alla ricevitoria, per definizione priva di concessione, a violare tale principio. Infatti, nel sistema concessorio, l'unico soggetto passivo è l'allibratore titolare di concessione (cfr. art. 16, D.M. 111/2006), e giammai la "sua" ricevitoria.

3. Violazione del principio di proporzionalità e ragionevolezza della legge di cui all'art. 3 della Costituzione.

Corollari del principio di uguaglianza tutelati dal medesimo art. 3 Cost. sono i principi di ragionevolezza delle leggi e di proporzionalità (cfr. ad es. C. Cost. n. 2/1999 in cui si è giudicato che la disposizione ivi scrutinata era "... irragionevole, contrastando con il principio di proporzione, che è alla base della razionalità che informa il principio di eguaglianza ..."). Questi principi si sostanziano nel rapporto che deve sussistere tra l'obiettivo della norma ed i mezzi che il Legislatore ha approntato per il suo raggiungimento, essendo sufficiente, per dubitare della sua costituzionalità, il riscontro della sua intrinseca irragionevolezza (cfr. C. Cost. n. 104/2003[8]), senza necessità di rinvenire alcun tertium comparationis (cfr. C. Cost. n. 23/2011[9]).

Conseguentemente, la norma sarà intrinsecamente irragionevole e non proporzionale se, da un lato, è inidonea a realizzare i fini che dovrebbero giustificarla e, dall'altro, comprime in modo abnorme od eccessivo altri diritti costituzionalmente tutelati. 

Esemplarmente C. Cost. n. 89/1996 ha giudicato che il "test di ragionevolezza" costituisce "... un apprezzamento di conformità tra la regola introdotta e la «causa» normativa che la deve assistere: ove la disciplina positiva si discosti dalla funzione che la stessa è chiamata a svolgere nel sistema e ometta, quindi, di operare il doveroso bilanciamento dei valori che in concreto risultano coinvolti, sarà la stessa «ragione» della norma a venir meno, introducendo una selezione di regime giuridico priva di causa giustificativa e, dunque, fondata su scelte arbitrarie che ineluttabilmente perturbano il canone dell'eguaglianza. 

Ogni tessuto normativo deve anzi presentare, una «motivazione» obiettivata nel sistema, che si manifesta come entità tipizzante del tutto avulsa dai «motivi», storicamente contingenti, che possono avere indotto il legislatore a formulare una specifica opzione: se dall'analisi di tale motivazione scaturirà la verifica di una carenza di «causa» o «ragione» della disciplina introdotta, allora e soltanto allora potrà dirsi realizzato un vizio di legittimità costituzionale della norma, proprio perché fondato sulla «irragionevole» e per ciò stesso arbitraria scelta di introdurre un regime che necessariamente finisce per omologare fra loro situazioni diverse o, al contrario, per differenziare il trattamento di situazioni analoghe ..." (cfr. altresì ex multis C. Cost. n. 245/2007). 

I predetti principi sono stati ripetutamente applicati dalla Consulta anche in materia fiscale, ad esempio, con le sentenze nn. 281/2011 e 10/2015.

 Con la prima è stata dichiarata l'illegittimità costituzionale dell'art. 85, co. 1, del dPR 29 settembre 1973; n. 602, in materia di riscossione tributaria, nella parte in cui prevedeva che il valore di assegnazione allo Stato del bene pignorato all'esito del terzo incanto negativo fosse svincolato da quello di mercato. Tale decisione riposa sul giudizio di irragionevolezza del Legislatore nel prevedere che il valore di espropriazione del bene era individuato in maniera del tutto avulsa rispetto al suo reale valore; e ciò, nonostante che il trasferimento immobiliare abbia la finalità di trasformare il bene in denaro per il soddisfacimento dei creditori e non certo di infliggere una sanzione atipica al debitore inadempiente.

 Pertinente è anche la recentissima C. Cost. n. 10/2015 che ha dichiarato l'incostituzionalità della c.d. Robin, Hood tax (art. 81, co. 16, 17 e 18, D.L. n. 112/2008), giudicata irrazionale per la sua inidoneità a conseguire il duplice obiettivo che avrebbe dovuto giustificarla; vale a dire, da un lato, la tassazione dell'extra profitto derivante ai petrolieri dalle particolari conformazioni del mercato e, dall'altro, la salvaguardia degli interessi dei consumatori mediante il divieto di traslazione. 

Con riferimento al test di proporzionalità, la Corte ha chiarito che esso si risolve nel necessario contemperamento dei diversi  principi e valori di rango costituzionale coinvolti; contemperamento, da considerarsi diretta espressione del generale canone di ragionevolezza (C. Cost. n. 220/1995). Infatti, "... il test di proporzionalità, utilizzato ... spesso insieme con quello di ragionevolezza ... richiede di valutare se la norma oggetto di scrutinio, con la misura e le modalità di applicazione stabilite, sia necessaria e idonea al conseguimento di obiettivi legittimamente perseguiti, in quanto, tra più misure appropriate, prescriva quella meno restrittiva dei diritti a confronto e stabilisca oneri non sproporzionati rispetto al perseguimento di detti obiettivi ..." (C. Cost. n. 1/2014).

 Al proposito, si rammenti che l'intervento legislativo del 2010 trovava il suo esplicito obiettivo nella volontà legislativa di equiparare la tassazione delle scommesse offerte dai bookmaker nazionali muniti di concessione a quella dei bookmaker (per lo più esteri) che ne erano privi, "... garantendo altresì maggiore effettività al principio di lealtà fiscale nel settore del gioco e recuperando base imponibile e gettito a fronte di fenomeni di elusione ed evasione fiscali nel medesimo settore ..." (cfr. art. 1, co. 64, L. 220/2010). Ebbene, le considerazioni svolte nei paragrafi che precedono dimostrano come tali finalità, seppur in astratto idonee a giustificare con il tributo l'incisione del diritto di proprietà del contribuente, non vengano affatto realizzate in concreto dall'intervento normativo del 2010 e dall'assetto dell'Imposta Unica che ne è derivato.

In primo luogo, l'intervento non realizza alcuna equiparazione soggettiva tra gli operatori del mercato, non proponendo affatto un'equazione fra ricevitori "fuori concessione" (quale l'odierna ricorrente) e ricevitori "in concessione", né dei bookmaker " fuori concessione" (come quelli esteri) a bookmaker "in concessione" (cioè, i concessionari nazionali).

 Quanto ai ricevitori, è agevole osservare che quelli "in concessione" non vengono mai chiamati ad alcun versamento a titolo di Imposta Unica. A riprova di ciò, il D.M. 111/2006, mentre all'art. 2 ammette esplicitamente che l'allibratore/concessionario possa avvalersi di ricevitorie (denominate i luoghi di vendita") , all'art. 16 riconosce non meno chiaramente l'allibratore /concessionario come unico debitore dell'imposta, prevedendo addirittura le modalità pratiche con cui essa deve venire assolta ("... il concessionario effettua il pagamento delle somme dovute, a titolo di imposta unica nonché le vincite ed i rimborsi non riscossi di cui all'art. 20, comma 2, con le modalità stabilite dal decreto del Presidente della Repubblica 8 marzo 2002, n. 66 ..."). 

Quanto, invece, alla posizione dei bookmaker, mentre quelli titolari di concessione sono obbligati al pagamento, quelli privi di  concessione che si avvalgono di ricevitorie (come, nel caso di specie, S.bet) non sono assoggettati al medesimo obbligo. A questi ultimi, infatti, che secondo il modello della "gestione per conto terzi" sono meri obbligati "dipendenti", l'art. 64, co. 3, dPR 600/1973 attribuisce il diritto di regresso integrale nei confronti della ricevitoria.

 In secondo luogo, non è realizzato neppure l'effetto dell'equiparazione fiscale delle scommesse "in concessione" rispetto a quelle "fuori concessione" e, quindi, del "... recuper[o di] base imponibile e di gettito a fronte di fenomeni di elusione ed evasione fiscali ...". Si è visto, infatti, che il titolare di ricevitoria cui è addossato l'onere dell'imposta non ha alcuna possibilità di traslarlo sugli scommettitori; e, pertanto, se mai le scommesse "fuori concessione" fossero state davvero stipulare in evasione d'imposta prima della L. 220/2010, tale situazione non è sicuramente cambiata a tutt'oggi. 

L'inidoneità degli strumenti approntati dalla L. 220/2010 per raggiungere gli obiettivi dichiarati dal Legislatore (sottoposizione alla medesima contribuzione delle scommesse offerte da qualunque allibratore e, quindi, realizzazione dell'equa contribuzione di cui all'art. 53 Cost.) è, dunque, di solare evidenza. 

Ma, all'irragionevolezza della novellazione introdotta dall'art. 1, comma 66, lett. b) , della L. 220/2010 nel contesto della presente causa si perviene, oltre che sul piano intrinseco, anche nella diversa prospettiva della retroattività. Se è vero che non sussiste un divieto costituzionale delle leggi extrapenali retroattive (art. 25 Cost.), queste soggiacciono però ad un più penetrante scrutinio, a salvaguardia dei "... fondamentali valori di civiltà giuridica posti a tutela dei destinatari della norma e dello stesso ordinamento, tra i quali vanno ricompresi il rispetto del principio generale di ragionevolezza e di eguaglianza,[e] di tutela dell'affidamento legittimamente sorto nei soggetti, quale principio connaturato allo Stato di diritto ..." (C. Cost. n. 282/2005; nonché C. Cost. n. 156/2007). Il criterio della costituzionalità delle leggi retroattive in materia extra-penale si riconduce, ancora una volta, alla loro ragionevolezza. In punto, C. Cost. n. 416/1999 ha giudicato: "... Il legislatore ha il potere di regolare autonomamente, sulla base dell'art. 10 Cost., situazioni pregresse ... in quanto il divieto di retroattività della legge, pur costituendo fondamentale valore di civiltà giuridica e principio generale dell'ordinamento ... non è stato elevato a dignità costituzionale, eccettuata la previsione dell'art. 25 Cost. relativa alla legge penale, sicché, fuori da tale ultima materia, può emanare norme con efficacia retroattiva, a condizione che [anche] la retroattività sia giustificata sul piano della ragionevolezza e non si ponga in contrasto con altri valori e interessi costituzionalmente protetti (sent. n. 229 del 1999; sent. n. 211 del 1997, n. 390 del 1995), tra i quali è compreso l'affidamento del cittadino nella sicurezza giuridica ..." (Conformi, ex multis, C. Cost. n. 419/2000; C. Cost. n. 446/2002).

 La speciale sensitività costituzionale della retroattività che è insita nelle leggi interpretative è questione ben nota ai Giudici delle Leggi. Ad esempio, C. Cost. n. 409/2005 ha statuito che "... al di fuori della materia penale ... ciò che conta precipuamente ai fini del sindacato di legittimità costituzionale di una legge retroattiva non è l'esistenza dei presupposti ... per l'emanazione di una legge interpretativa, quanto piuttosto la non irragionevolezza della sua efficacia retroattiva e l'inesistenza di violazioni di altri principi costituzionali ... questa Corte ha ritenuto che in linea generale, l'affidamento del cittadino nella sicurezza giuridica - essenziale elemento dello Stato di diritto non può essere leso da disposizioni retroattive, che trasmodino in regolamento irrazionale di situazioni sostanziali fondate su leggi anteriori (ex plurimis, sent. n. 446/2002)...".

 La soluzione non muta neppure per le leggi formalmente di interpretazione autentica, come è il casa della L. 220/2010. C. Cost. n. 252/2000 ha giudicato: "... siccome la disposizione censurata è norma di interpretazione autentica con efficacia retroattiva ... è soggetta, tra gli altri, al limite del rispetto del principio dell'affidamento dei consociati nella certezza dell'ordinamento giuridico ...". 

Ciò che conta, non è tanto la natura formale o dichiarata di legge di interpretazione autentica, e perciò, tecnicamente retroattiva, quanto la sua "... adeguata giustificazione sul piano della ragionevolezza ..." (C. Cost. n. 374/2002). Si veda pure C. Cost. n. 274/2006, che ha precisato "... nel giudizio di legittimità costituzionale delle norme di interpretazione autentica non è precisivo verificare se la norma abbia carattere effettivamente interpretativo (e sia perciò retroattiva) ovvero sia innovativa con efficacia retroattiva, in quanto il divieto di retroattività della legge non è stato elevato a dignità costituzionale, salva per la materia penale la previsione dell'art. 25 cost. ... purché la retroattività trovi adeguata giustificazione sul piano della ragionevolezza e non contrasti con altri valori ed interessi costituzionalmente protetti ...". Neppure rileva, infine, che la norma di interpretazione autentica venga adottata in presenza di incertezze nell'applicazione di una precedente norma o di contrasti giurisprudenziali, oppure fissi con la scelta legislativa una delle possibili varianti interpretative del testo originario; ciò che conta è che l'interpretazione prescelta dal Legislatore, che così assurge a precetto positivo, "... non contrasti con altri valori e interessi costituzionalmente protetti e trovi adeguata giustificazione sul piano della ragionevolezza ..." (C. Cost. n. 160/2013).

4. Impossibilità di una interpretazione costituzionalmente orientata. Dalle motivazioni che precedono, esposte dalla ricorrente e fatte proprie da queste Commissione, risulta peraltro impossibile un'interpretazione costituzionalmente orientata delle norme denunciate, intese come applicabili anche alle ricevitorie. 

Se infatti si assume che anche il centro di raccolta dati è soggetto passivo dell'imposta, gli effetti che si sono denunciati come incostituzionali sono inevitabili, e discendono proprio dall'avere ricompreso le ricevitorie tra i soggetti tenuti al pagamento del tributo. 

In altri termini, per sfuggire alle conseguenze denunciate, l'unico modo è di intendere le suddette norme nel senso che non si applicano alle ricevitorie.

 Ma questa non è un'interpretazione costituzionalmente orientata delle disposizioni denunciate, quanto la loro disapplicazione al caso concreto.

 E' pure una strada percorribile, ma, come si è detto, rifiutata dal diritto vivente. 

Ed è rispetto alla interpretazione che ne dà il diritto vivente che si solleva dunque la questione di legittimità costituzionale.

 

P.Q.M.

 

Visto l'art. 23 della legge 87/1953;

Ritenutane la rilevanza e la non manifesta infondatezza, rimette alla Corte costituzionale la questione di legittimità costituzionale degli articoli 3 e 4 comma 1, lettera b) numero 3 del d.lgs. 504/1998 e art. 1 comma 66 lettera b) della legge n. 220 del 2010, in relazione agli articoli 3, 53 della Costituzione, nella parte in cui vengono interpretati come applicabili ai centri di raccolta dati, facendo di questi ultimi dei soggetti passivi della imposta unica sulle scommesse, per i motivi esposti in narrativa.

 Sospende il giudizio e dispone l'immediata trasmissione degli atti alla Corte costituzionale. Dispone che la presente ordinanza sia notificata a cura della Segreteria alle parti, al Presidente del Consiglio dei ministri e sia comunicata ai Presidenti delle due camere del Parlamento.

 

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Provvedimento pubblicato nella G.U. della Corte Costituzionale 30 marzo 2016, n.13.