Giurisprudenza - CORTE DI CASSAZIONE - Sentenza 02 marzo 2016, n. 12193

Reati tributari - Configurazione del reato di occultamento di documenti contabili ex art. 10, D.Lgs. n. 74/2000 - Acquisizione della documentazione mancante presso lo studio del commercialista - Sussiste

 

Ritenuto in fatto

 

1. Con sentenza del 15/7/2014, la Corte di appello di Brescia confermava la pronuncia emessa l'8/11/2013 dal locale Tribunale, con la quale G.M. era stato riconosciuto colpevole dei delitti di cui agli artt. 8 e 10, d. Igs. 10 marzo 2000, n. 74 e condannato alla pena di due anni e otto mesi di reclusione; allo stesso - quale rappresentante della "S.S.C. s.r.l. di M.G." e della "E.C. s.r.l.", società di fantasia - era contestato di aver emesso fatture per operazioni inesistenti al fine di consentire l'evasione delle imposte alla "I.C.I." (il cui legale rappresentate era coimputato), nonché di aver occultato o distrutto i relativi documenti e scritture contabili.

2. Propone ricorso per cassazione il M., a mezzo del proprio difensore, deducendo i seguenti motivi:

- erronea applicazione di legge penale con riguardo al delitto di cui all'art. 10, d. Igs. n. 74 del 2000. La Corte di appello avrebbe condannato il M. in difetto dei presupposti di cui alla norma in oggetto, specie con riguardo all'occultamento della documentazione; nel caso di specie, infatti, tutta la contabilità poteva esser ricostruita anche aliunde, e quanto rinvenuto presso l'abitazione del ricorrente non avrebbe consentito - di per sé - di pervenire al medesimo risultato. Il M., peraltro, non avrebbe occultato alcunché, atteso che la documentazione contabile tutta era custodita presso lo studio di un commercialista; per tacer, poi, della denuncia di smarrimento presentata al riguardo dallo stesso ricorrente, in data 4/12/2012;

- erronea applicazione di legge penale con riguardo al delitto di cui all'art. 8, d. Igs. n. 74 del 2000. La sentenza avrebbe confermato la condanna sebbene non sussista la prova della condotta ascritta; nessun elemento istruttorio, infatti, consentirebbe di affermare che le fatture in oggetto fossero state emesse proprio dal M.. Né, al riguardo, potrebbe supplire la fictio iuris di cui all'art. 9, stesso decreto; ed invero, l'intero compendio probatorio condurrebbe a ritenere che le fatture in oggetto fossero state emesse da «diversi e plurimi soggetti giuridici, non esclusi gli pseudo titolari delle "società cartiere"»;

- violazione e falsa applicazione dell'art. 192 cod. proc. pen.. La responsabilità del M. sarebbe stata confermata pur in assenza di indizi gravi, precisi o concordanti, inidonei a dimostrare che lo stesso avesse emesso le fatture per operazioni inesistenti;

- erronea applicazione dell'art. 99, comma 4, cod. pen.. La Corte avrebbe violato la norma in esame atteso che, a fronte di una recidiva pacificamente facoltativa (non già, dunque, ex art. 99, comma 5, cod. pen.), avrebbe applicato il relativo aumento di pena senza fornire adeguata motivazione; con la precisazione, peraltro, che la stessa contestazione non riguarderebbe il carattere infraquinquennale, atteso che il nuovo delitto non colposo tributario non sarebbe stato commesso dal M. nei cinque anni dalla precedente condanna.

3. Il ricorso è manifestamente infondato; al riguardo, i primi tre motivi possono essere trattati in modo congiunto, attesane la sostanziale identità di contenuto.

Al riguardo, occorre innanzitutto ribadire che il controllo del Giudice di legittimità sui vizi della motivazione attiene alla coerenza strutturale della decisione di cui si saggia l'oggettiva tenuta sotto il profilo logico-argomentativo, restando preclusa la rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione e l'autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti (tra le varie, Sez. 3, n. 12110 del 19/3/2009, Campanella, n. 12110, Rv. 243247). Si richiama, sul punto, il costante indirizzo di questa Corte in forza del quale l'illogicità della motivazione, censurabile a norma dell'art. 606, comma 1, lett e), cod. proc. pen., è soltanto quella evidente, cioè di spessore tale da risultare percepibile ictu oculi, ciò in quanto l'indagine di legittimità sul discorso giustificativo della decisione ha un orizzonte circoscritto, dovendo il sindacato demandato alla Corte di cassazione limitarsi, per espressa volontà del legislatore, a riscontrare l'esistenza di un logico apparato argomentativo (Sez. U., n. 47289 del 24/9/2003, Petrella, Rv. 226074).

In altri termini, il controllo di legittimità sulla motivazione non attiene alla ricostruzione dei fatti né all'apprezzamento del Giudice di merito, ma è limitato alla verifica della rispondenza dell'atto impugnato a due requisiti, che lo rendono insindacabile: a) l'esposizione delle ragioni giuridicamente significative che lo hanno determinato; b) l'assenza di difetto o contraddittorietà della motivazione o di illogicità evidenti, ossia la congruenza delle argomentazioni rispetto al fine giustificativo del provvedimento. (Sez. 2, n. 21644 del 13/2/2013, Badagliacca e altri, Rv. 255542; Sez. 2, n. 56 del 7/12/2011, dep. 4/1/2012, Siciliano, Rv, 251760).

Se questa, dunque, è l'ottica ermeneutica nella quale deve svolgersi il giudizio della Suprema Corte, le censure che il ricorrente muove al provvedimento impugnato si evidenziano come manifestamente infondate; ed invero, dietro la parvenza di una violazione di legge lo stesso di fatto invoca al Collegio una nuova e diversa valutazione delle medesime risultanze istruttorie già esaminate dai Giudici di merito (ruolo svolto dal M. nella società, documentazione rinvenuta presso la sua abitazione), sollecitandone una lettura alternativa e più favorevole.

Il che, come riportato, non è consentito.

Il gravame, inoltre, oblitera del tutto che la Corte di appello ha confermato la condanna in forza di un adeguato percorso logico-giuridico, fondato su precise emergenze istruttorie e privo di qualsivoglia illogicità; come tale, non censurabile in questa sede.

4. In particolare, con riguardo all'imputazione di cui all'art. 8, d. Igs. n. 74 del 2000 - e premesso il carattere pacifico dell'annotazione, nella contabilità della "I.", di fatture soggettivamente false, emesse dalle citate "S.S.C." ed "E.C. s.r.l." - la sentenza ha evidenziato che la riferibilità delle stesse al ricorrente è risultata provata in forza di plurimi elementi: 1) presso la sua abitazione erano stati rinvenuti gli originali di fatture emesse (tra gli altri) dalle due società, con tanto di timbri utilizzati per la compilazione delle fatture poi annotate dal C.; 2) presso lo stesso immobile era stata rinvenuta parte della documentazione contabile dell'impresa di quest'ultimo, della quale il ricorrente medesimo aveva (falsamente) denunciato la scomparsa. Orbene, in forza di questi elementi oggettivi, la Corte di appello ha concluso - con affermazione non viziata e, pertanto, non censurabile - non solo che il M. aveva emesso le fatture contestate, ma anche che lui stesso era l'amministratore di fatto della I.; affermazione ancor più avvalorata dalla mancanza di qualsivoglia giustificazione - giammai offerta dal ricorrente - in ordine alla disponibilità di quel materiale.

5. Con riguardo, poi, alla contestazione sub art. 10, la Corte di merito - ancora ribadito il pacifico dato del rinvenimento della contabilità "I." presso il M., che l'aveva denunciata smarrita - ha affermato che, in tema di reati tributari, l'impossibilità di ricostruire il reddito od il volume d'affari derivante dalla distruzione o dall'occultamento di documenti contabili non deve essere intesa in senso assoluto, sussistendo anche quando sia necessario procedere all'acquisizione presso terzi della documentazione mancante; in tal modo, quindi, la sentenza ha, per un verso, risposto ad una specifica doglianza, peraltro riproposta anche in questa sede in termini identici e, per altro verso, aderito ad un orientamento interpretativo consolidato e da ribadire in questa sede (Sez. 3, n. 36624 del 18/7/2012, Pratesi, Rv. 253365; Sez. 3, n. 39711 del 4/6/2009, Acerbis, Rv. 244619).

6. Orbene, a fronte di una motivazione logica e congrua nei termini suddetti, il ricorso risulta oltremodo generico, reiterativo delle questioni già sollevate in sede di appello ed insensibile alle risposte alle stesse fornite dalla Corte di merito; in termini meramente assertivi ed apodittici, infatti, il M. sostiene che la documentazione rinvenuta presso di sé non sarebbe risultata necessaria alla ricostruzione dei movimenti patrimoniali della ditta in oggetto; che lo stesso non aveva coscienza e volontà di occultare alcunché (in quanto ne aveva denunciato lo smarrimento); che il ritrovamento degli originali delle fatture e dei timbri delle due emittenti, ancora presso l'abitazione del M., di per sé nulla proverebbe in ordine al delitto di cui all'art. 8, d. Igs. n. 74 del 2000, difettando la prova che proprio il ricorrente avesse emesso le fatture in oggetto.

I primi tre motivi, pertanto, risultano del tutto infondati.

7. Alle stesse conclusioni, infine, perviene il Collegio anche in ordine al quarto.

Al riguardo, ritiene innanzitutto la Corte che il riferimento alla recidiva infraquinquennale, contenuto in sentenza, costituisca un mero refuso, atteso che la stessa risulta contestata esclusivamente come reiterata e specifica; quel che, in ogni caso, non incide affatto sulla motivazione, avendo la sentenza adeguatamente argomentato in ordine alla pericolosità del soggetto, tale da giustificare l'applicazione della contestata recidiva. In particolare, il Collegio ha evidenziato che «il M. risulta gravato da ben otto precedenti condanne, tre delle quali specifiche», in uno con la «non trascurabile gravità soggettiva dei fatti, indice di una spiccata pericolosità sociale»; così, peraltro, da non consentire di riconoscere le circostanze attenuanti generiche.

Risulta presente ed adeguata, pertanto, quella motivazione che il ricorso assume non sussistere.

Il gravame, pertanto, deve essere dichiarato inammissibile. Alla luce della sentenza 13 giugno 2000, n. 186, della Corte costituzionale e rilevato che, nella fattispecie, non sussistono elementi per ritenere che «la parte abbia proposto il ricorso senza versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità», alla declaratoria dell'inammissibilità medesima consegue, a norma dell'art. 616 cod. proc. pen., l'onere delle spese del procedimento nonché quello del versamento della somma, in favore della Cassa delle ammende, equitativamente fissata in euro 1.000,00.

E senza che rilevi, peraltro, la prescrizione dei reati, maturata prima della sentenza di appello. Ed invero, come affermato recentemente dal Supremo Collegio (Sez. U, 17 dicembre 2015, Ricci, non ancora depositata), la Corte di cassazione, adita con ricorso inammissibile, non può dichiarare la prescrizione del reato intervenuta prima della sentenza di appello, ma non rilevata né eccepita in quella sede o nei motivi di ricorso. Esattamente come nel caso di specie.

 

P.Q.M.

 

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 1.000,00 in favore della Cassa delle ammende.