Giurisprudenza - CORTE DI CASSAZIONE - Sentenza 17 marzo 2016, n. 5346

Bracciante agricolo - Iscrizione delle liste nominative dei lavoratori agricoli - Diritto - Onere probatorio

 

Fatto e diritto

 

La causa è stata chiamata all'adunanza in camera di consiglio del 24 febbraio 2016 - cui è stata differita d’ufficio dal 28.1.2016, ai sensi dell'art. 375 c.p.c., sulla base della seguente relazione, redatta a norma dell’art. 380 bis c.p.c.:

"Con la sentenza impugnata, la Corte di appello di Palermo, su gravame di B.F., confermava la decisione di primo grado che aveva respinto il ricorso della predetta inteso al riconoscimento del diritto all’iscrizione delle liste nominative dei lavoratori agricoli per gli anni dal 1979 al 1995 quale dipendente di un'azienda della quale era titolare L.V.A. (cognato della ricorrente).

Rilevava la Corte che, in caso di contestazione da parte dell’INPS, lo status di bracciante agricolo doveva essere accertato con onere della prova a carico del lavoratore e che, nella specie, tale onere era stato disatteso in quanto le prove testimoniali assunte non erano state esaustive, dovendo ritenersi che l’appellante fosse decaduta dalla prova a mezzo di altro teste (M.R.), per avere il difensore della predetta rinunciato alla relativa audizione, cui non si era opposto l’INPS, ed attesa la tardiva indicazione di altro teste e l’inammissibilità della relativa prova, quale conseguenza della mancata illustrazione dei motivi dell’omissione della preventiva indicazione e delle ragioni della sua indispensabilità ai fini della decisione.

Per la cassazione di tale decisione ricorre la B., affidando l'impugnazione a quattro motivi, cui resiste, con controricorso, l’INPS. Con il primo motivo, la B. si duole della omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia, rilevando che la Corte del merito non ha tenuto conto del materiale probatorio regolarmente acquisito e che comunque erroneamente ne ha ritenuto l'insufficienza, pur non avendo provveduto al coordinamento delle risultanze della compiuta attività istruttoria. Osserva che la inattendibilità del teste B.M. è stata ritenuta solo sulla base del rapporto di coniugio con la ricorrente e non sulla base del contenuto della prova testimoniale.

Con il secondo motivo, viene dedotta violazione ed errata applicazione dell'art. 245 c.p.c., rilevandosi che la rinuncia unilaterale alla prova (nello specifico alla deposizione del teste M.) non è sufficiente ad escluderla dal processo, in virtù del principio dell’acquisizione processuale, in base al quale l’elemento di prova, una volta introdotto nel processo, rimane definitivamente acquisito, potendo essere utilizzato sia dalla controparte, che dal giudice, il quale non avrebbe dovuto consentirne la rinunzia proprio per la insufficienza dell’istruttoria. Con il terzo motivo, viene poi censurata la decisione per violazione ed errata applicazione dell’art. 421 c.p.c., in relazione al mancato ricorso da parte del giudice ai poteri istruttori d’ufficio, esercitabili proprio in relazione alla circostanza che l'istruttoria era stata valutata insufficiente. Con il quarto motivo, la ricorrente si duole della violazione e dell’errata applicazione dell'art. 437, comma 2, cpc, sul rilievo della possibilità di ammettere d’ufficio, anche in grado d’appello, in deroga al principio dispositivo della prova, prova testimoniale non ritualmente articolata, in base ad una valutazione di fatto in base alla indispensabilità del mezzo probatorio, ove sia ritenuta non accertata la sussistenza del fatto costitutivo del diritto.

Il primo motivo deve essere disatteso, essendo sufficiente rilevare che l'apprezzamento elaborato dalla Corte territoriale sul negativo riscontro in ordine alla effettiva esistenza dello status di lavoratrice agricola della B. si sottrae ad ogni sindacato di legittimità, anche all'esito della rinnovata formulazione dell’art. 360 c.p.c., n. 5, come novellato dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, conv. in L. 7 agosto 1912, n. 134 (ndr L. 7 agosto 2012, n. 134), applicabile ratione temporis. Nella interpretazione resa dalle sezioni unite di questa Corte alla luce dei canoni ermeneutici dettati dall'art. 12 preleggi (vedi Cass. S.U. 7 aprile 2014 n.8053), la disposizione va infatti letta in un’ottica di riduzione al minimo costituzionale del sindacato di legittimità sulla motivazione, così che in tal modo è stato ritenuto denunciabile in cassazione solo l’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente alla esistenza della motivazione in sé, purché il vizio emerga dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali, esaurendosi nelle ipotesi di "mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico", nella "motivazione apparente", nel contrasto irriducibile fra motivazioni inconciliabili" e nella "motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile" esclusa qualsiasi rilevanza del semplice difetto di "sufficienza" della motivazione. Nello specifico la motivazione, congrua e completa per quanto innanzi detto, appare coerente altresì con i precetti normativi che disciplinano la materia come delineati dalla esegesi elaborata da questa Corte, e si sottrae, pertanto, alle censure formulate sul punto, dalla ricorrente. Peraltro, l’inattendibilità del teste B.M., soltanto adombrata in forma dubitativa, non è stata rilevante per escludere il valore della dichiarazione dallo stesso resa, avendo il giudice piuttosto ritenuto sia che la deposizione era stata generica, sia che era richiesto che la presenza sui luoghi per potere confermare le circostanze oggetto di prova fosse continua, il che era da escludere per stessa ammissione del teste, dipendente della Cassa di Risparmio.

Quanto al secondo motivo, deve osservarsi che nel rito del lavoro una decadenza a carico della parte per la mancata comparizione all'udienza fissata per l'espletamento della prova si produce soltanto per effetto di provvedimento emesso in tal senso dal giudice su istanza della controparte comparsa, mentre non può ritenersi configurare rinuncia implicita all'assunzione dei testi richiesti il semplice silenzio serbato dalla parte richiedente dopo l'ammissione, atteso che la legge non prevede un obbligo per la parte di "insistere" per l'assunzione di una prova regolarmente indicata e ammessa e che la rinuncia alla prova deve essere esplicitata dalla parte che l'aveva indicata e produce effetto solo in seguito all'adesione delle altre parti e al consenso del giudice.

Nella specie deve ritenersi verificato tale effetto in conseguenza dell’adesione della controparte alla rinuncia espressa dalla ricorrente, come affermato nella sentenza impugnata (cfr. Cass. 8.8.2003 n. 12004).

Infine, devono essere disattese anche le ulteriori censure, relative all'uso dei poteri istruttori d’ufficio.

Se è da ritenere ormai principio acquisito che nel rito del lavoro, ai sensi di quanto disposto dagli artt. 421 e 437 cod. proc. civ., essi non hanno più carattere discrezionale, ma si presentano come un potere - dovere, del cui esercizio o mancato esercizio il giudice deve dar conto (Cass. S.U. 17 giugno 2004, n. 11353), è però anche vero che al fine di poter censurare con il ricorso per Cassazione l'inesistenza di alcuna motivazione circa la mancata attivazione di tali poteri occorre dimostrare di averne sollecitato l’esercizio, poiché diversamente si introdurrebbe per !a prima volta in sede di legittimità un tema totalmente nuovo rispetto a quelli dibattuti nelle fasi di merito. Del resto, proprio la menzionata sentenza della Sezioni Unite ha avuto cura di precisare, fra l'altro, che "il giudice - in ossequio a quanto prescritto dall'art. 134 c.p.c. ed al disposto di cui all'art. 111 Cost., comma 1, sul "giusto processo regolato dalla legge" - deve esplicitare le ragioni per le quali reputa di far ricorso all'uso dei poteri istruttori o, nonostante la specifica richiesta di una della parti, ritiene, invece, di non farvi ricorso" e che "Il relativo provvedimento può così, essere sottoposto al sindacato di legittimità per vizio di motivazione al sensi dell'art. 360 c.p.c., n. 5 qualora non sia sorretto da una congrua e logica spiegazione nel disattendere la richiesta di mezzi istruttori relativi ad un punto della controversia che, se esaurientemente istruito, avrebbe potuto condurre ad una diversa decisione della controversia". (Cass. Sez. L, Sentenza n. 14731 del 26/06/2006, Sez. L, Sentenza n. 29006 del 10/12/2008; Sez. L, Sentenza n. 6023 del 12/03/2009).

Non è censurabile, quindi, con ricorso per cassazione l'omesso esercizio dei poteri istruttori ufficiosi da parte del giudice di merito ove la parte non abbia investito lo stesso giudice di una specifica richiesta in tal senso, indicando anche i relativi mezzi istruttori. Il che non risulta essere stato effettuato nel caso che ci occupa, laddove la ricorrente si limita solo in questo grado a prospettare la necessità dell'integrazione istruttoria ad opera del giudice.

Alla stregua delle esposte considerazioni, si propone il rigetto del ricorso, ritenutone la manifesta infondatezza ex art. 375, primo comma, n. 5 c.p.c.".

Sono seguite le rituali comunicazioni e notifica della suddetta relazione, unitamente al decreto di fissazione della presente udienza in Camera di consiglio.

Il Collegio ritiene di condividere integralmente il contenuto e le conclusioni della riportata relazione e concorda, pertanto, sul rigetto dello stesso.

Al rigetto del ricorso consegue, per il principio della soccombenza, la condanna della ricorrente alla rifusione delle spese del presente giudizio di legittimità - liquidate come da dispositivo - in favore dell’INPS.

La circostanza che il ricorso sia stato proposto in tempo posteriore al 30 gennaio 2013 impone di dar atto dell’applicabilità dell’art. 13, comma 1 quater, d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, nel testo introdotto dall'art. 1, comma 17, legge 24 dicembre 2012, n. 228. Invero, in base al tenore letterale della disposizione, il rilevamento della sussistenza o meno dei presupposti per l’applicazione dell'ulteriore contributo unificato costituisce un atto dovuto, poiché l’obbligo di tale pagamento aggiuntivo non è collegato alla condanna alle spese, ma al fatto oggettivo - ed altrettanto oggettivamente insuscettibile di diversa valutazione - del rigetto integrale o della definizione in rito, negativa per l’impugnante, dell’impugnazione, muovendosi, nella sostanza, la previsione normativa nell’ottica di un parziale ristoro dei costi del vano funzionamento dell'apparato giudiziario o della vana erogazione delle, pur sempre limitate, risorse a sua disposizione (così Cass., Sez. Un., n. 22035/2014).

 

P.Q.M.

 

Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità, liquidate in euro 100,00 per esborsi, euro 2500,000 per compensi professionali, oltre accessori come per legge, nonché al rimborso delle spese generali in misura del 15.

Ai sensi dell’art. 13, co. 1 quater, del d.P.R. n. 115 del 2002 dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13.