Giurisprudenza - CORTE DI CASSAZIONE - Sentenza 17 marzo 2016, n. 5308

Rapporto di lavoro - Trasferimento - Dequalificazione - Reintegrazione nelle funzioni precedenti o in funzioni equivalenti - Accertamento

 

Fatto

 

Con ricorso del 14.3.2002 V.P., dipendente del Comune di Siracusa, agiva nei confronti del datore di lavoro davanti al Tribunale di Siracusa, chiedendo accertarsi il proprio diritto - anche ai sensi dell’art. 13 Stat. Lav e 2087 cc e previa dichiarazione di nullità delle note di trasferimento nr. 39001 del 6.6.2000 e nr. 65465 del 20.9.2000, alla reintegrazione nelle funzioni precedenti o in funzioni equivalenti ed al risarcimento dei danni subiti per illegittima dequalificazione ed emarginazione (mobbing) nella misura di:

- £. 200milioni per danno alla salute e biologico;

- £.100milioni per danno professionale, all'immagine, alla camera ed alla dignità personale, da  valutare in via equitativa in rapporto alle retribuzioni percepite durante il periodo di dequalificazione, oltre rivalutazione ed interessi;

- £. 100milioni per danno morale ed esistenziale.

Il Comune di Siracusa eccepiva in via preliminare la continenza del giudizio rispetto alla causa già pendente presso altro Giudice dell’ufficio nonché la carenza di interesse e la infondatezza della domanda.

Il Giudice del Lavoro, con sentenza del 16.10.2004, respinta la preliminare eccezione di identità dei giudizi, dichiarava cessata la materia del contendere sulla domanda relativa alla reintegra nelle mansioni e condannava il Comune di Siracusa al risarcimento del danno, nella misura di € 20.000 per danno biologico ed € 47.000 per danno esistenziale.

Proponeva appello il Comune di Siracusa ribadendo che sugli stessi fatti era intervenuta precedente sentenza -passata in giudicato- ed instando, comunque, per il rigetto delle domande.

Il V. proponeva appello incidentale, censurando la quantificazione del danno operata in sentenza.

Dopo avere disposto consulenza medico legale, la Corte d’Appello di Catania, con sentenza del 15.11-13.12/2012, in riforma della sentenza di primo grado ed in accoglimento della questione preliminare sollevata dal Comune, dichiarava improponibile la originaria domanda ritenendo l’abusivo frazionamento della azione di risarcimento del danno.

Avverso la sentenza propone ricorso in Cassazione il V., articolato in due motivi.

Resiste con controricorso il Comune di Siracusa.

 

Diritto

 

1. Con il primo motivo il ricorrente denunzia - ai sensi dell’art. 360 nr. 5 cpc - omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia.

Censura la statuizione della Corte territoriale - che aveva ritenuto la identità tra la azione esercitata e quella già costituente oggetto del procedimento nr. 723/2001, definito con sentenza del Tribunale di Siracusa (nr. 2014/02) passata in giudicato- facendo leva sulla autonomia della azione di mobbing proposta rispetto alle singole condotte vessatorie, ciascuna potenzialmente oggetto di azione autonoma. Tale diversità portava ad escludere nella fattispecie la applicabilità del divieto di frazionamento della domanda, dovendo anche tenersi conto dei più gravosi oneri probatori sottesi al mobbing.

Come risultava dalla stessa sentenza di appello, egli aveva chiesto nel primo giudizio, definito con sentenza nr 2014/2002, l’annullamento degli atti di trasferimento, con condanna del Comune alla riassegnazione nell’ufficio di provenienza ed, in subordine, al risarcimento del danno. Nel presente giudizio aveva chiesto, invece, il risarcimento dei danni subiti in conseguenza della illegittima dequalificazione ed emarginazione.

Il motivo è inammissibile.

Nella fattispecie trova applicazione ratione temporis ( ai sensi dell’art. 54 , co. 3 di 83/2012) il nuovo testo dell’art. 360 co.1 nr. 5 cpc, in quanto la sentenza impugnata è stata pubblicata in data successiva all’11 settembre 2012 sicché il vizio della motivazione è deducibile soltanto in termini di "omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti.

Come chiarito dalla giurisprudenza di questa Corte (Cass. S.U. 22.9.2014 nr 19881 ; Cass. S.U. 7.4.2014 nr. 8053) la riformulazione dell’art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ., disposta dall'art. 54 del d.l. 83/2012 deve essere interpretata, alla luce dei canoni ermeneutici dettati dall'art. 12 delle preleggi, come riduzione al "minimo costituzionale" del sindacato di legittimità sulla motivazione; è pertanto denunciabile in cassazione solo l'anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all'esistenza della motivazione in sé, purché il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali.

Tale anomalia si esaurisce nella "mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico", nella "motivazione apparente", nel "contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili" e nella "motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile", esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di "sufficienza" della motivazione.

Ne consegue che, nel rigoroso rispetto delle previsioni degli artt. 366, primo comma, n. 6, e 369, secondo comma, n. 4, cod. proc. civ., il ricorrente deve indicare il "fatto storico", il cui esame sia stato omesso, il "dato", testuale o extratestuale, da cui esso risulti esistente, il "come" e il "quando" tale fatto sia stato oggetto di discussione processuale tra le parti e la sua "decisività".

Nella fattispecie il vizio non è denunziato nei termini sopra precisati, lamentandosi non l’omesso esame di un fatto storico- che neppure viene individuato- ma piuttosto la erroneità della statuizione di accoglimento del primo motivo di appello .

2. Con il secondo motivo il ricorrente denunzia la violazione dell’art. 111 della Costituzione.

Rileva che la Corte di appello aveva richiamato a fondamento della decisione la giurisprudenza delle Sezioni Unite relativa al divieto di frazionamento della domanda, giurisprudenza di carattere innovativo e risalente soltanto all’anno 2007 (sentenza nr. 23276/2007). Assume che, in conformità al valore del giusto processo, di cui era corollario il principio di effettività della tutela giurisdizionale, doveva escludersi la applicabilità delle preclusioni derivanti da tale giurisprudenza innovativa, costituente overuling, a fatti processuali verificatisi anteriormente alla pronunzia, per i quali la parte aveva confidato incolpevolmente nella precedente e consolidata interpretazione, ammissiva del frazionamento della domanda.

I due giudizi in questione erano stati introdotti in epoca anteriore, rispettivamente il primo con ricorso del 27.4.2001 e quello in corso con atto del 14.3.2002.

La Corte di Appello aveva motivato la decisione in punto di retroattività del divieto di frazionamento con il richiamo alla definizione di overuling offerta dalle Sezioni Unite con la pronunzia nr. 15144/11, ritenendo sussistere nella fattispecie una ipotesi di interpretazione "evolutiva" delle regole del processo- come tale prevedibile dalla parte- e non già una evenienza di interpretazione "correttiva" rispetto ad un precedente indirizzo consolidato, questa sola connotata da imprevedibilità.

II ricorrente richiama il precedente di questa Corte di cui alla sentenza nr. 28286/2011- (rispetto al quale la Corte territoriale si esprimeva in dichiarata difformità) - che, a suo dire, indica una regola diversa - e più corretta - di applicazione nel tempo del principio di infrazionabilità della domanda.

Il motivo è infondato, pur dovendosi provvedere alla correzione della motivazione della sentenza impugnata in punto di diritto, ex art 384 u.c. cpc.

La Corte territoriale ha erroneamente evocato, invero, il principio di infrazionabilità della domanda, consacrato con l’arresto di S.U. sent. 23276/07.

Per quanto si legge nella sentenza impugnata con il ricorso introduttivo dell’odierno giudizio "Il ricorrente premetteva in fatto le stesse identiche circostanze dedotte con il primo ricorso (v. in particolare pp. 1-7), aggiungendo soltanto l'episodio relativo alla interruzione della telefonata- in ogni caso accaduto nel maggio 2000, e dunque antecedentemente alla proposizione del primo ricorso... " sicché io stesso giudice d’appello conclude " appare, dunque, invero incontestabile che il primo giudizio intentato dal V. contro il Comune di Siracusa avesse ad oggetto esattamente gli stessi fatti posti a fondamento delle pretese poi avanzate con il secondo ricorso ".

Del pari è pacifico che il primo giudizio avesse egualmente ad oggetto (anche) il risarcimento del danno e che la relativa pronunzia fosse passata in giudicato (circostanza, quest’ultima, di cui pure dà atto la sentenza d’appello).

Poste queste premesse, la Corte d’Appello avrebbe dovuto motivare la pronunzia di improponibilità della domanda non già in ragione del divieto di frazionamento della azione giudiziaria ma in ragione della preesistenza del giudicato, con conseguente preclusione alla riproposizione di quanto già dedotto o deducibile.

Per consolidato insegnamento di questa Corte il carattere normalmente unitario della domanda risarcitoria per equivalente pecuniario - il cui oggetto è, di regola, rappresentato dalla perdita patrimoniale e non patrimoniale subita dal danneggiato nella sua globalità e non nei singoli elementi che la compongono - implica la necessità di considerare la domanda risarcitoria fondata sul dedotto illecito del convenuto come comprensiva di tutte le possibili voci di danno (e non solo alcune di esse) sicché la nuova domanda fondata su voci di danno ulteriori rispetto a quelle già azionate resta investita dalla preclusione derivante dal primo giudicato (ex plurimis: sez. IlI, 06/12/2005, n. 26687; Cass. 7 dicembre 2004 n. 22987; Cass. 2 giugno 2000 n. 7358).

Ciò su cui ha inciso la pronunzia delle Sezioni Unite 23276/07, sulla infrazionabilità della domanda, è unicamente la possibilità, in epoca anteriore riconosciuta all’attore, di apporre una riserva esplicita di volere agire soltanto per una parte dei danni, rinviando ad altro procedimento il soddisfacimento di ulteriori ragioni di credito.

Tale questione è nella specie del tutto irrilevante giacché nella stessa sentenza d’appello si legge che il V. non aveva formulato in seno al ricorso depositato in data 27 aprile 2001 alcuna riserva di voler successivamente agire per gli ulteriori danni derivati dai medesimi fatti allegati.

Per superare la preclusione (del giudicato) l'odierno ricorrente invoca la novità della causa petendi ed, in particolare, la autonomia del mobbing rispetto alle singole condotte illecite in cui esso si sostanzia.

Tale rilievo è infondato.

L’ accertamento contenuto nella pronuncia passata in giudicato preclude il riesame della questione nella causa introdotta posteriormente tra gli stessi soggetti laddove i due giudizi abbiano identici elementi costitutivi dell'azione (soggetti, "causa petendi" e "petitum") anche se il giudizio successivo abbia finalità diverse; ex plurimis: Cass. 23 dicembre 1999 n. 14477; Cass. 8 ottobre 2002 n. 14414; Cass. sez. lav. 21/07/2006, n. 16781.

Nella fattispecie non vi è novità della causa petendi, in quanto a fronte della già rilevata identità dei fatti materiali esposti vi è, piuttosto, soltanto un mutamento della loro qualificazione giuridica da parte dell’attore; la qualificazione, per come è noto, non entra a far parte della domanda- e perciò non la identifica- trattandosi di compito rimesso in via esclusiva al giudicante.

Il ricorso deve essere pertanto respinto.

Le spese, liquidate in dispositivo, seguono la soccombenza.

Trattandosi di giudizio instaurato successivamente al 30 gennaio 2013 sussistono le condizioni per dare atto- ai sensi dell’art. 1 co 17 L. 228/2012 (che ha aggiunto il comma 1 quater all’art. 13 DPR 115/2002) - della sussistenza dell’obbligo di versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la impugnazione integralmente rigettata.

 

P.Q.M.

 

Rigetta il ricorso.

Condanna parte ricorrente al pagamento delle spese, che liquida in € 3.000 per compensi ed € 100 per esborsi oltre spese forfettarie nella misura del 15% IVA e CPA.

Ai sensi dell’art. 13 co. 1 quater del DPR 115 del 2002 dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente principale dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale a norma del comma 1 bis dello stesso articolo 13.