Giurisprudenza - CORTE DI CASSAZIONE - Sentenza 17 marzo 2016, n. 5310

Rappoto di lavoro - Dipendente Coop - Malattia - Superamento del comporto - Licenziamento - Non sussiste - Sospensione degli obblighi indennitario-retributivo a carico del datore di lavoro

 

Fatto

 

Con ricorso del 23.3.2007, all'esito di un precedente procedimento di urgenza G.C. adiva il Tribunale di Civitavecchia proponendo domanda nei confronti della società L.P. srl per l'accertamento della nullità, inefficacia, illegittimità del licenziamento intimato in data 23.2.2005, con condanna della parte convenuta alla riammissione in servizio ed al risarcimento del danno oltre al pagamento delle retribuzioni maturate dal licenziamento alla reintegra - con relativi accessori - ed alla regolarizzazione previdenziale.

Esponeva di essere stata dipendente della parte convenuta presso il supermercato "C." all'interno del centro commerciale "L.P." in Ladispoli e di essere stata licenziata per superamento del periodo di comporto.

Deduceva la illegittimità del recesso per violazione dell'art. 129 CCNL Cooperative di distribuzione, assumendo che la norma contrattuale non prevedeva una causa di risoluzione del rapporto di lavoro ma la mera sospensione degli obblighi indennitario - retributivi a carico del datore di lavoro.

Lamentava altresì:

- la erroneità del computo del periodo di comporto, comprensivo delle assenze per infortunio

- la carenza di motivazione, per omessa indicazione dei periodi di malattia compresi nel comporto

- la natura discriminatone del licenziamento, in quanto determinato dalla sua qualità di rappresentante sindacale.

Si costituiva la società C. srl, acquirente della azienda della società L.P. srl, contestando il fondamento della domanda.

Il Tribunale rigettava la domanda, rilevando che l'art. 129 CCNL di categoria- a tenore del quale il lavoratore in malattia o infortunato sul lavoro aveva diritto alla conservazione del posto decorsi di 180 giorni per anno solare purché il periodo eccedente fosse considerato di aspettativa non retribuita- presupponeva la presentazione di una domanda di aspettativa da parte dei lavoratore; il giudicante riteneva altresì infondate o carenti di prova le ulteriori ragioni della azione.

Proponeva appello la G., chiedendo l'integrale accoglimento della domanda e censurando la Interpretazione offerta dell'art. 129 CCNL nonché le determinazione del Tribunale in punto di motivazione del recesso e computo del comporto Si costituiva la società C. srl, preliminarmente eccependo la improcedibilità dell'appello, in quanto non notificato nel termine di dieci giorni e, nel merito, contestando le ragioni della impugnazione; in via gradata eccepiva la compensatio lucri cum damno ed il colpevole ritardo della lavoratrice nel promuovere la azione giudiziaria.

La Corte di Appello di Roma- con sentenza del 23.10.2013- 27.1.2014 nr 8901-riteneva fondato il primo motivo di appello, statuendo che l'art. 129 CCNL, rettamente interpretato, non onerava il lavoratore della presentazione di una domanda per accedere alla aspettativa non retribuita; rigettata ogni eccezione di aliunde perceptum e percipiendum, dichiarava pertanto la illegittimità del licenziamento e condannava la società appellata alla reintegrazione della lavoratrice nel posto di lavoro ed al pagamento delle retribuzioni dal licenziamento alla reintegra- oltre rivalutazione- nonché al versamento dei contributi.

Ha proposto ricorso la società C. srl, articolato in 5 motivi; resiste con controricorso G.C.

La società C. srl ha depositato memorie.

 

Diritto

 

1. Con il primo motivo di ricorso la società C. srl censura la interpretazione dell'art. 129 CCNL Cooperative di distribuzione offerta dalla Corte territoriale, assumendone il contrasto tanto con il tenore testuale della norma contrattuale che con l'essenza stessa dell'istituto della aspettativa, come disciplinato dalla legge e dai contratti collettivi, implicante una manifestazione di volontà del lavoratore.

2. Con il secondo motivo di ricorso viene dedotta la violazione del canone ermeneutica di cui all'art. 1362 cc. Osserva la società ricorrente che l'utilizzo della congiunzione "purché" tra la proposizione principale, prevedente la conservazione del posto di lavoro e la proposizione successiva, che fissava le condizioni per la nascita del predetto diritto (tra le quali la imputazione ad aspettativa non retribuita dei periodo eccedente i 180 giorni per anno solare) rendeva palese trattarsi di un diritto incerto nell’an sicché la aspettativa avrebbe potuto non essere concessa. L'evento condizionante non poteva che consistere nella richiesta di aspettativa da parte del lavoratore.

Nella interpretazione della Corte, invece, la aspettativa non costituiva una delle condizioni del diritto ma un effetto automatico conseguente al verificarsi degli altri due presupposti (la assenza di malattia cronica e la trasmissione dei certificati medici).

Vi era altresì contraddittorietà della motivazione, nel punto in cui la Corte da un lato dava atto della natura della aspettativa come condizione dell'insorgenza del diritto dall'altro affermava che il periodo di 180 giorni doveva automaticamente considerarsi come aspettativa non retribuita, con ciò trascurando la riconosciuta qualificazione come condizione.

3. Con il terzo motivo di ricorso viene dedotta violazione e falsa applicazione degli artt. 1362 cc. e 2013 cc. in relazione alla affermazione, contenuta in sentenza, secondo cui la aspettativa non retribuita costituiva una mera qualificazione formale di quello che restava, comunque, un periodo di assenza per malattia; non vi era, in altri termini, mutamento del titolo della assenza. Tale assunto veniva fondato sull'utilizzo nei testo contrattuale dell'espressione verbale "sia considerato (di aspettativa)".

Il ricorrente sostiene che l'utilizzo della predetta espressione doveva invece intendersi nel senso che la assenza per malattia mutava titolo in aspettativa soltanto in presenza di una manifestazione di volontà del lavoratore; l' escludere la necessità di tale richiesta avrebbe privato il lavoratore del diritto, riconosciuto da consolidata giurisprudenza di questa Corte, a non vedere unilateralmente modificate le proprie condizioni di lavoro, stante la diversità degli effetti derivanti dalla aspettativa rispetto alla malattia ( assenza di retribuzione e contribuzione , maturazione di anzianità soltanto in ipotesi di rientro in servizio).

I tre motivi di ricorso, tra loro connessi, devono essere congiuntamente esaminati.

Con essi viene censurata la interpretazione dell'articolo 129 CCNL di distribuzione cooperativa, applicato al rapporto di causa, a tenore del quale:

1. Il lavoratore ammalato non in prova o infortunato sul lavoro ha diritto alla conservazione del posto per tutto il periodo di malattia o di infortunio fino ad avvenuta guarigione clinica purché:

I.) non si tratti di malattie croniche;

II.) siano esibiti dai lavoratore regolari certificati medici;

III.) Il periodo eccedente i 180 giorni, per anno solare, sia considerato di aspettativa senza retribuzione.

2. Tuttavia il periodo stesso è considerato utile ai fini dell'anzianità di servizio in caso di prosecuzione del rapporto o di decesso del lavoratore.

Nella interpretazione sostenuta dalla parte ricorrente il diritto alla conservazione del posto sarebbe condizionato dalla presentazione di una domanda del lavoratore di aspettativa senza retribuzione, nella fattispecie di causa carente.

Le censure sono infondate.

La norma dell'articolo 129 pone una disciplina di favore per i dipendenti delle imprese della distribuzione cooperativa, ai quali viene garantita la conservazione dei posto di lavoro fino alla guarigione clinica, senza fissazione di un periodo di comporto.

Tale diritto è condizionato alla esibizione da parte del lavoratore di regolari certificati medici ed alla assenza di malattie croniche.

Non si ricava invece dai testo contrattuale la necessità di una richiesta di aspettativa decorso il periodo di 180 giorni per anno solare. Invero la norma pattizia prevede un automatismo in ragione del quale il periodo eccedente i 180 giorni "viene considerato" come aspettativa non retribuita e dunque il dipendente non può continuare a ricevere il trattamento economico di malattia. Non vi è, cioè, una aspettativa in senso proprio né muta il titolo della assenza; il "dipendente resta assente per malattia ma non riceve sostegno economico, "come se" fosse in aspettativa non retribuita. In tal modo la norma contrattuale realizza un componimento tra l'Interesse del lavoratore alla conservazione del posto e quello dell'impresa a non sopportare a proprio carico l'onere economico del trattamento di malattia.

Una conferma di tale interpretazione si ricava dall’esame della disciplina del successivo titolo relativo alle aspettative non retribuite, nel cui ambito è disciplinata la presentazione della domanda ed il relativo termine (I lavoratori interessati all'aspettativa di cui al presente titolo avanzeranno formale richiesta alla Direzione dell'azienda dalla quale dipendono, con un preavviso di almeno sei giorni dalla data d'inizio dell'aspettativa stessa, fornendo la necessaria documentazione probatoria) laddove per l'articolo 129 manca del tutto la previsione di una richiesta e la fissazione del termine.

La interpretazione seguita dalla Corte Territoriale è dunque immune da censure. Con il quarto motivo di ricorso, proposto in via gradata rispetto ai motivi sopra esaminati, la società denunzia ancora la violazione o falsa applicazione dell'art. 129 del CCNL e la omessa valutazione di un fatto decisivo.

Evidenzia che la interpretazione della disciplina collettiva posta a fondamento della decisione dava luogo ad una sospensione a tempo indeterminato del rapporto di lavoro in assenza dell'onere del lavoratore di allegare la ulteriore condizione, richiesta dalla norma pattizia, del carattere non cronico della malattia; tale allegazione sarebbe stata invece implicita nella richiesta della aspettativa.

In ogni caso, a voler seguire la interpretazione del testo contrattuale offerta dalla Corte territoriale, la dipendente avrebbe dovuto comunque provare, prima della scadenza del comporto, la reversibilità della malattia laddove neppure in giudizio era stata provata la ricorrenza di tale presupposto.

Pertanto la Corte Territoriale aveva falsamente applicato la disposizione contrattuale, come da essa stessa interpretata.

Sotto il profilo della motivazione, poi, la Corte territoriale aveva omesso di esaminare un fatto decisivo del giudizio, il carattere non cronico della malattia; ove avesse proceduto a tale esame avrebbe dovuto necessariamente giungere alla conclusione della assenza della prova, con conseguente insussistenza del diritto alla conservazione del posto di lavoro.

Il motivo è infondato.

Dal tenore letterale dell'articolo 129 non risulta alcuna necessità per il lavoratore di documentare il carattere non-cronico della malattia, essendo prevista la sola esibizione delle certificazioni mediche; dalla norma contrattuale non si ricava, dunque, alcun ulteriore onere di domanda o di documentazione a carico del lavoratore ai fini della conservazione del posto di lavoro.

Il carattere cronico della malattia è previsto -piuttosto- come fatto impeditivo della conservazione del posto di lavoro ("purché non si tratti di malattie croniche").

Non si ravvisa pertanto il dedotto vizio di falsa applicazione della previsione collettiva. Quanto al vizio di omesso esame di un fatto decisivo, la parte ricorrente lamenta la mancanza di prova della natura non-cronica della malattia.

Non indica invece il fatto decisivo risultante dagli atti e documenti di causa il cui esame sarebbe stato omesso, nei sensi richiesti dal nuovo testo del n. 5) dell'art. 360 cod. proc. civ., (applicabile ratione temporis, in quanto la sentenza impugnata è stata pubblicata in data successiva all'11 settembre 2012).

Il vizio deducibile ex art. 360 nr. 5 cpc concerne l'omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (vale a dire che se esaminato avrebbe determinato un esito diverso della controversia). Ne consegue che, nel rigoroso rispetto delle previsioni degli artt. 366, primo comma, n. 6, e 369, secondo comma, n. 4, cod. proc. civ., il ricorrente deve indicare il "fatto storico", il cui esame sia stato omesso, il "dato", testuale o extratestuale, da cui esso risulti esistente, il "come" e il "quando" tale fatto sia stato oggetto di discussione processuale tra le parti e la sua "decisività" (cfr. Cass. S.U. 22.9.2014 nr 19881; Cass. S.U. 7.4.2014 nr. 8053).

Nella fattispecie di causa la società ricorrente avrebbe dovuto indicare ,dunque, in primo luogo il come ed il quando il carattere cronico della malattia fosse stato oggetto di discussione tra le parti e comunque da quali atti esso risultasse esistente. Con il quinto motivo di ricorso, proposto in via di ulteriore subordine, la ricorrente censura- ai sensi dell'art. 360 co. 1 nr. 3 cpc, la sentenza gravata per violazione dell'art. 18 L. 300/70, artt. 1223, 2727, 2729 cc, 421 e 437 cpc, ovvero art. 1227 co 2 cc, per avere la Corte d'appello disatteso la eccezione di compensatio lucri cum damno e di rilevanza della inerzia della lavoratrice, affermando da un canto la genericità della allegazione relativa al reperimento di altra occupazione e dall'altro la irrilevanza del tempo trascorso dalla data di licenziamento.

Deduce che la prova dell'aliunde perceptum era ricavabile da elementi presuntivi ed, in particolare, dalla mancata allegazione da parte del lavoratrice dello stato di disoccupazione nel giudizio di appello, diversamente dal primo grado nonché dal decorso del tempo, elementi che avrebbero dovuto quanto meno indurre il giudice ad attivare i suoi poteri istruttori ex artt. 421 e 437 cpc.

In ogni caso, l' eventuale mancato reperimento di una nuova occupazione nel corso dei nove anni dal licenziamento avrebbe dovuto determinare il giudice dell'appello ad una riduzione del risarcimento per concorso del danneggiato nell'aggravamento del danno, ex art. 1227 co.2 cc. laddove la Corte territoriale si era limitata a valorizzare l'offerta della prestazione di lavoro risalente alla impugnativa del licenziamento.

Il motivo è infondato.

Questa Corte ha già affermato con riguardo all’aliunde perceptum o percipiendum, che la deduzione- pur non integrando una eccezione in senso stretto ed essendo, pertanto rilevabile dal giudice anche in assenza di un'eccezione di parte in tal senso- presuppone comunque l'allegazione da parte del datore di lavoro di circostanze di fatto rilevanti ai fini della limitazione dei danno; Cfr. Cass. sez. Lav. 04/12/2014, n. 25679.

Il Giudice del merito ha correttamente applicato le norme di legge evocate, attribuendo valenza preclusiva alla mancanza di una allegazione specifica del datore di lavoro circa il reperimento di altra occupazione da parte della lavoratrice; la carenza della allegazione non consente la acquisizione della prova sui fatti genericamente allegati sicché infondatamente la ricorrente lamenta la mancata valutazione di elementi presuntivi e la mancata attivazione dei poteri istruttori d'ufficio.

Peraltro sempre per consolidata giurisprudenza di legittimità il datore di lavoro, onerato a provare l'aliunde perceptum da detrarre dall'ammontare del risarcimento del danno dovuto in base all'art. 18 legge n. 300/1970, non può esonerarsi chiedendo al giudice di voler disporre generiche informative o di attivare poteri istruttori con finalità meramente esplorative: Cassazione civile sez. lav. 11 marzo 2015 n. 4884,. 29 dicembre 2014 n. 27424, 04 dicembre 2014, n. 25679.

Il ricorso deve essere conclusivamente respinto.

Le spese, liquidate in dispositivo, seguono la soccombenza.

Trattandosi di giudizio instaurato successivamente al 30 gennaio 2013 sussistono le condizioni per dare atto- ai sensi dell'art. 1 co. 17 L. 228/2012 ( che ha aggiunto il comma 1 quater all'art. 13 DPR 115/2002) - della sussistenza dell'obbligo di versamento da parte del ricorrente dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la impugnazione integralmente rigettata.

 

P.Q.M.

 

Rigetta il ricorso.

Condanna la ricorrente alla refusione delle spese, che liquida in € 3.500 per compensi oltre spese in misura di € 100, spese forfettarie nella misura del 15%, IVA e CPA.

Ai sensi dell'art. 13 co. 1 quater del DPR 115 del 2002 dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente principale dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato parti a quello dovuto per il ricorso principale a norma del comma 1 bis dello stesso articolo 13.