Giurisprudenza - CORTE DI CASSAZIONE - Ordinanza 16 marzo 2016, n. 5294

Lavoro - Dipendente comunale - Inquadramento - Indennità sostitutiva di mensa - CCNL - Determinazione

 

Fatto e diritto

 

La causa è stata chiamata all'adunanza in camera di consiglio del 13 gennaio 2016, ai sensi dell'art. 375 c.p.c. sulla base della seguente relazione redatta a norma dell'art. 380 bis c.p.c.:

" Il Tribunale di Latina rigettava la domanda proposta da Z.P. nei confronti del Comune di Latina, di cui il ricorrente era dipendente, intesa al riconoscimento del suo diritto: ad essere inquadrato nella categoria C con decorrenza dal 1 ° gennaio 2005; a percepire l'indennità sostitutiva di mensa prevista dal CCNL autoferrotranvieri da includersi nell'assegno ad personam previsto dall'accordo aziendale dell'11.10.2001; alla corresponsione di detto assegno, nella misura determinata al 1° gennaio 2005, a prescindere da successivi miglioramenti economici previsti in relazione al nuovo inquadramento.

Tale decisione veniva riformata a seguito di gravame interposto dagli eredi di Z.P. - Z.A. e P.E. - dalla Corte di Appello di Roma che, con sentenza del 24 giugno 2013, dichiarava il diritto del lavoratore alla inclusione della indennità sostitutiva di mensa nel calcolo per la determinazione, alla data del 1°.1.2005, dell'assegno personale riassorbibile nei successivi incrementi retributivi con condanna del Comune a corrispondere le relative differenze sui ratei maturati, oltre accessori.

Premetteva la Corte, per quel che ancora rileva in questa sede, che con deliberazione n.133 del 29 luglio 2003 il Consiglio Comunale del Comune di Latina aveva confermato la gestione diretta del servizio di trasporto pubblico fino al 31 dicembre 2004 prevedendo, per il periodo successivo, l'affidamento del servizio a privato con facoltà per il personale di optare tra il mantenimento del rapporto alle dipendenze del Comune o il passaggio alla dipendenze del gestore privato e stabilendo l'applicabilità, a coloro che avrebbero optato per rimanere alle dipendenze dell'ente territoriale, del CCNL Enti Locali con reinquadramento giuridico in categorie equivalenti al livello ed al profilo posseduto. Osservava, quindi, la Corte che per Z.P. si era verificato, in seguito all'opzione del predetto per il mantenimento del rapporto alle dipendenze del Comune di Latina, una situazione assimilabile, pur nell'immutabilità del soggetto datore di lavoro, a quella del passaggio alle dipendenze di un diverso datore di lavoro, atteso che i dipendenti optanti per la prosecuzione avevano visto modificata la propria posizione all'interno dell'ente (con assegnazione a settori diversi da quelli di provenienza), con contestuale novazione del contenuto dei contratti individuali, non più disciplinati dalla contrattazione del settore privato. Rilevava, in conseguenza di ciò, che era applicabile il trattamento giuridico ed economico, compreso quello accessorio, previsto dal contratto collettivo di comparto dell'amministrazione, non giustificandosi diversità di trattamento (salvi gli assegni ad personam attribuiti al fine di rispettare il divieto di reformatio in pejus del trattamento economico acquisito) tra dipendenti dello stesso ente, a seconda della provenienza. Ed infatti la diversificazione del trattamento economico richiedeva, invero, una specifica base normativa, in difetto della quale, l'amministrazione, ai sensi dell'art. 45 comma 2, d. Lgs. 165/2001, doveva garantire ai propri dipendenti la parità di trattamento contrattuale e comunque trattamenti non inferiori a quelli previsti dai rispettivi contratti collettivi.

Evidenziava: che per il riassorbimento alla contrattazione collettiva era demandata unicamente la definizione delle modalità applicative di operatività del relativo principio, onde, in difetto di specifiche disposizioni dell'autonomia collettiva, trovavano applicazione le disposizioni legislative in materia, essendo comunque preclusa alla contrattazione collettiva la possibilità di escludere l'operatività del principio del riassorbimento; che, nello specifico, il riassorbimento non poteva essere escluso dalla contrattazione decentrata svoltasi, peraltro, su materia non espressamente delegata dalla contrattazione collettiva nazionale; che, ad ogni buon conto, il contenuto del verbale di contrattazione dell'11.10.2011 invocato e dei successivi atti deliberativi non consentiva di ritenere che le parti avessero definitivamente concordato la non riassorbibilità, in quanto la proposta da approvare da parte della Giunta municipale doveva, comunque, passare alla ratifica del Consiglio comunale ( che, poi, aveva affermato la riassorbibilità dell'assegno).

Per la cassazione di tale decisione propongono ricorso Z.A. e P.E. - nella qualità - affidato a tre motivi.

Resiste con controricorso il Comune.

Con il primo motivo di ricorso viene dedotta violazione e falsa applicazione degli artt. 2 D. Lgs. 165/2001 e 12 Preleggi ( ai sensi dell'art. 360, n. 3, c.p.c.), rilevandosi che la pronuncia di questa Corte richiamata nella decisione impugnata in nome della nomofilachia era incentrata su diversi aspetti esulanti dalla questione all'esame e che il comma 3° dell'art. 2 del d.Lgs. 165/2001 era stato interpretato in violazione dei criteri ermeneutici sanciti dall'art. 12 Preleggi che attribuisce priorità all'interpretazione letterale, e quest'ultima nello specifico era sufficiente ad individuarne in modo chiaro ed univoco il significato e la connessa portata precettiva, non rendendosi necessario il ricorso al criterio ermeneutico sussidiario costituito dalla ricerca della "mens legis". Si evidenzia che il criterio interpretativo da seguire impone di riconoscere la necessità dell'apporto della contrattazione collettiva per l'operatività del riassorbimento, sostenendosi che la interpretazione fornita dal giudice d'appello sovrappone al significato letterale un diverso meccanismo ritenuto più confacente laddove ravvisa nella norma un principio secondo il quale occorre ricercare le modalità operative nelle "disposizioni legislative". Con il secondo motivo, si deduce violazione e falsa applicazione degli artt. 1326 e 1355 c.c. ( ex art. 360, a 3, c.p.c.), per avere la Corte di merito ritenuto legittimo l'operato datoriale che, con il prevedere la ratifica da parte del Consiglio Comunale della decisione della Giunta Municipale di ritenere la non riassorbibilità dell'assegno, aveva finito con l'introdurre unilateralmente una condizione meramente potestativa, come tale del tutto illegittima. Viene precisato che, ove fosse stato configurabile un "accordo proposta" nella Delibera di Giunta, la modifica unilaterale di detto accordo da parte del Consiglio avrebbe dovuto essere oggetto di una nuova negoziazione collettiva. Infine, con l'ultimo motivo, viene denunciato omesso esame di un fatto decisivo e controverso (in relazione all'art. 360, n. 5, c.p.c.), in quanto la Corte di appello aveva omesso ogni valutazione sulla circostanza che la delibera consiliare aveva apportato una modificazione ad un accordo già pienamente formatosi con la delibera della Giunta Municipale.

Il primo motivo è infondato.

Si osserva che il ricorrente sostiene l'illegittimità della riassorbibilità del maturato economico e la sussistenza del suo diritto alla corresponsione di qualsiasi aumento stipendiale e contrattuale a qualsiasi titolo corrisposto in seguito all'applicazione di sopravvenuti rinnovi contrattuali ai dipendenti degli Enti locali a decorrere dall'1.1.2005.

L'assunto non è condivisibile.

Va, in primo luogo, richiamato il testo della norma in relazione alla cui interpretazione si assumono violati i criteri ermeneutici - il 3° comma dell'art. 2 D. Lgs. 165/2001 - che, nella parte rilevante ai fini del presente giudizio, dispone: "I trattamenti economici più favorevoli in godimento sono riassorbiti con le modalità e nelle misure previste dai contratti collettivi e i risparmi di spesa che ne conseguono incrementano le risorse disponibili per la contrattazione collettiva".

Dalla lettura della disposizione emerge la correttezza dell'interpretazione letterale fornitane dalla Corte di appello, posto che quest'ultima ha ritenuto palese il significato delle parole secondo la loro connessione, e la sua portata precettiva, nel senso di un principio di carattere generale dettato dalla norma, di riassorbimento dei trattamenti economici più favorevoli, demandandosi alla contrattazione collettiva solo la definizione delle modalità e della misura del detto riassorbimento. Alla luce di ciò deve semmai ritenersi che il criterio ermeneutico sussidiario costituito dalla ricerca, mediante l'esame complessivo del testo, della "mens legis" piuttosto che utilizzato dalla Corte territoriale, sia sollecitato impropriamente dallo stesso ricorrente per pervenire al risultato di modificare la volontà della norma come inequivocabilmente espressa dal legislatore in modo sicuramente non ambiguo.

La interpretazione fornita dalla Corte d'appello è, peraltro, avallata dalla giurisprudenza di legittimità, essendo consolidato il condiviso orientamento secondo cui, nell'ambito del lavoro pubblico, nel caso di passaggio da una Amministrazione ad un'altra è assicurata - in mancanza di disposizioni speciali - la continuità giuridica del rapporto di lavoro e il mantenimento del trattamento economico, il quale, ove risulti superiore a quello spettante presso l'ente di destinazione, opera nell'ambito della regola del riassorbimento degli assegni ad personam attribuiti al fine di rispettare il divieto di reformatio in pejus del trattamento economico acquisito, in occasione dei miglioramenti di inquadramento e di trattamento economico riconosciuti per effetto del trasferimento, secondo quanto risulta argomentando dal D.Lgs. n. 29 del 1993, art. 34, come sostituito dal D.Lgs. n. 80 del 1998, art. 19, (ora D. Lgs. n. 165 del 2001, art. 31), che richiama le regole dettate dall'art. 2112 c.c., (Cass. 16 giugno 2005, n. 12956; Cass. 13 aprile 2006, n. 8693; Cass. 11 aprile 2006, n. 8389; Cass. 8 maggio 2006, n. 10449; Cass. 8 gennaio 2007, n. 55; Cass. 2 febbraio 2007, n. 2265; Cass. 29 marzo 2010, n. 7520; Cass. 19 novembre 2010, n. 23474; Cass. 2 marzo 2011, n. 5097).

Non è, poi, dubitabile che il criterio generale del riassorbimento debba operare in riferimento ai miglioramenti del trattamento economico complessivo dei dipendenti del Amministrazione di arrivo e non con riferimento a singole voci che compongono tale trattamento economico, in quanto solo il primo sistema di riassorbimento, oltre a non essere in contrasto con le disposizioni legislative di cui finora si è detto, è conforme al principio di cui all'art. 36 Cost., come costantemente interpretato dalla giurisprudenza costituzionale, nel senso che il principio della "proporzionalità ed adeguatezza della retribuzione va riferito non già alle sue singole componenti, ma alla globalità di essa" (vedi, per tutte: Corte Cost. sentenze: n. 141 del 1979; n. 470 del 2002; n. 434 del 2005) e quindi alle singole voci che compongono la retribuzione non può essere attribuito autonomo rilievo, a meno che ciò sia espressamente previsto dalla legge o dalla contrattazione collettiva.

La regola per cui il passaggio da un datore di lavoro all'altro comporta l'inserimento del dipendente in una diversa realtà organizzativa e in un mutato contesto di regole normative e retributive, con applicazione del trattamento in atto presso il nuovo datore di lavoro (art. 2112 c.c.), è confermata, per i dipendenti pubblici, dal D. Lgs. n. 165 del 2001, art. 30, che riconduce il passaggio diretto di personale da amministrazioni diverse alla fattispecie della "cessione del contratto" (art. 1406 c.c.), stabilendo la regola generale dell'applicazione del trattamento giuridico ed economico, compreso quello accessorio, previsto nei contratti collettivi nel comparto dell'Amministrazione cessionari, non giustificandosi diversità di trattamento (salvi gli assegni ad personam attribuiti al fine di rispettare il divieto di reformatio in peius del trattamento economico acquisito) tra dipendenti, dello stesso ente, a seconda della provenienza (Cass. 17 luglio 2006, n. 16185; Cass. 13 settembre 2006, n. 19564; Cass. 2 febbraio 2007, n.2265).

Infatti, nell'ipotesi di passaggio di lavoratori ad una diversa PA, l'eventuale diversificazione del rispettivo trattamento economico richiede una specifica base normativa, in difetto della quale l'Amministrazione, ai sensi del D. Lgs. n. 165 del 2001, art. 45, comma 2, deve garantire ai propri dipendenti parità di trattamento contrattuale e, comunque, trattamenti non inferiori a quelli previsti dai rispettivi contratti collettivi (Cass. 2 marzo 2011, n. 5097).

Non può esservi, allora, dubbio sul fatto che, nella specie, non solo dovesse essere operato il riassorbimento, ma anche che ciò dovesse avvenire in riferimento ai miglioramenti del trattamento economico complessivo.

Né ha alcun rilievo l'argomento, addotto dai ricorrenti, dell'assenza di disposizioni contenute nella contrattazione collettiva (applicabile) disciplinanti il riassorbimento delle eccedenze retributive verificatesi, eventualmente, nei passaggi del personale tra le varie Amministrazioni. Invero, secondo quanto si desume dal combinato disposto del D. Lgs. n. 165 del 2001, artt. 2 e 69, alla contrattazione collettiva è demandata la determinazione degli elementi che concorrono a formare, condizionandosi a vicenda, il trattamento economico complessivo dei pubblici dipendenti, e, per quanto riguarda il riassorbimento, ad essa compete solo la definizione delle modalità applicative di operatività del relativo principio (già presente, peraltro, per quel che si è detto nell'ambito dello stesso D. Lgs.), sicché, attesa l'inderogabilità della normativa che delinea i criteri generali cui deve conformarsi il trattamento economico dei pubblici dipendenti, nel cui ambito rientra il principio del riassorbimento, in difetto di specifiche disposizioni dell'autonomia collettiva si applicano le disposizioni legislative in materia, essendo comunque preclusa alla contrattazione collettiva la possibilità di escludere l'operatività del suddetto principio (arg. ex Cass. 30 dicembre 2009, n. 27836; Cass. 18 gennaio 2012, n. 709; Cass.14 luglio 2008, n. 19299 e, da ultimo, Cass. 16.4.2012 n. 5959, Cass. n. 24949 del 24.11.2014).

Dal rigetto del primo motivo per le ragioni esposte discende l'assorbimento del secondo ed al terzo motivo che si incentrano sulla questione del valore da attribuirsi al verbale di Giunta che aveva stabilito, all'esito di trattative con le organizzazione rappresentative dei lavoratori, la non riassorbibilità del cd. "maturato economico", e sulla possibilità di condizionare l'operatività del principio espresso al successivo vaglio del Consiglio Comunale.

Ed infatti, le argomentazioni sopra svolte con riguardo alla vigenza di un generale principio di riassorbibilità sancito dalla norma di legge, con previsione della facoltà di stabilirne unicamente termini e misura da parte della contrattazione collettiva, escludono che la norma di legge sia derogabile in forza di delibere datoriali assunte all'esito di trattative intercorse con i lavoratori. Alla luce di quanto esposto, si propone il rigetto del primo motivo di ricorso, assorbiti gli altri, con ordinanza ai sensi dell'art. 375, n. 5, c.p.c.".

Sono seguite le rituali comunicazioni e notifica della suddetta relazione, unitamente al decreto di fissazione della presente udienza in Camera di consiglio.

I ricorrenti hanno depositato memoria ex art. 380 bis c.p.c. con la quale chiedono, preliminarmente, la riunione del presente giudizio con altri aventi uguale contenuto e la cui trattazione è stata fissata per la stessa udienza e, quindi, ribadiscono le argomentazioni di cui al primo motivo di ricorso, sottolineandosi che l'interpretazione del 3° comma dell'art 2 D. Lgs. 165/2001 fornita dalla giurisprudenza di legittimità - alla quale ha aderito la riportata relazione - secondo cui il principio del riassorbimento è inderogabile non spiegherebbe in che termini e con quale criterio debba ritenersi superato l'affidamento alla contrattazione collettiva della operatività del riassorbimento.

Osserva, in primo luogo, il Collegio che non ricorrono ragioni di opportunità tali da indurre all'accoglimento dell'istanza di riunione di ricorsi che, pur di contenuto identico, sono stati proposti separatamente.

Quanto alle argomentazioni di cui alla memoria si rileva che le medesime non scalfiscono il contenuto della relazione - pienamente condivisibile perché in linea con la costante giurisprudenza di legittimità - né sono stati proposti aspetti di tale gravità da esonerare la Corte dal dovere di fedeltà ai propri precedenti, sul quale si fonda, per larga parte, l'assolvimento della funzione, di rilevanza costituzionale, di assicurare l'esatta osservanza e l'uniforme interpretazione della legge.

Alla luce di quanto esposto, il ricorso va rigettato.

Le spese del presente giudizio, per il principio della soccombenza, sono poste a carico del ricorrente e vengono liquidate come da dispositivo.

Sussistono i presupposti per il versamento, da parte dei ricorrenti dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato, previsto dall'art. 13, comma 1 quater, del d.P.R. 30 maggio, introdotto dall'art. 1, comma 17, della legge 24 dicembre 2012, n. 228 (legge di stabilità 2013). Tale disposizione trova applicazione ai procedimenti iniziati in data successiva al 30 gennaio 2013, quale quello in esame, avuto riguardo al momento in cui la notifica del ricorso si è perfezionata, con la ricezione dell'atto da parte del destinatario (Sezioni Unite, sent n. 3774 del 18 febbraio 2014). Inoltre, il presupposto di insorgenza dell'obbligo del versamento, per il ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, ai sensi dell'art. 13, comma 1 quater, del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, nel testo introdotto dall'art.1, comma 17, legge 24 dicembre 2012, n. 228, non è collegato alla condanna alle spese, ma al fatto oggettivo del rigetto integrale o della definizione in rito, negativa per l'impugnante, del gravame (Cass. n. 10306 del 13 maggio 2014).

 

P.Q.M.

 

Rigetta il ricorso, condanna i ricorrenti alle spese del presente giudizio liquidate in euro 100,00 per esborsi, euro 2.000,00 per compensi professionali, oltre rimborso spese forfetario nella misura del 15%.

Ai sensi dell'art. 13, co. 1 quater, del d.P.R. n. 115 del 2002 dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte dei ricorrenti dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13.