Giurisprudenza - CORTE DI CASSAZIONE - Ordinanza 16 marzo 2016, n. 5260

Previdenza - Omissione contributiva - Verbali di accertamento - Interposizione fittizia di manodopera - Presupposti - Sussistenza

 

Fatto e diritto

 

La causa è stata chiamata all'adunanza in camera di consiglio del 14 gennaio 2016, ai sensi dell'art. 375 c.p.c. sulla base della seguente relazione redatta a norma dell'art. 380 bis c.p.c.:

"Con sentenza del 19 aprile 2013, la Corte di appello di L'Aquila confermava la decisione del Tribunale di Chieti che aveva rigettato l'opposizione proposta dalla E. s.r.l. nei confronti dell'INPS ed avente ad oggetto una serie di verbali di accertamento con i quali le era stato chiesto il pagamento di somme per contributi evasi e relative sanzioni per l'attività svolta presso gli stabilimenti della società Cartiere B. s.p.a. siti in Chieti, Avezzano e Verzuolo. In detti verbali era stata contestata: la indebita erogazione di somme a titolo di trasferte esterne al cantiere B.; la mancata registrazione di ore lavorative svolte presso il cantiere B.; la riconduzione dei rapporti di lavoro dei dipendenti della s.n.c. E., della Z. di L.D., della ditta R.C. di L.R., della ditta L.M. di L.M., della E.F.B. di B.C. alla E. in forza di fittizi contratti di appalto integranti una interposizione fittizia di manodopera, in violazione della legge n. 1369/1960 applicabile ratione temporis

Ad avviso della Corte territoriale, benché alcuni testi avessero affermato la corrispondenza tra ore lavorate e retribuzione e la estraneità della E. alle direttive impartite dalle ditte appaltatrici, non era stata fornita alcuna prova convincente da parte della E. circa la non corrispondenza tra ore lavorate e ore registrate (così come emergenti: dalla discrasia rilevata dagli ispettori a seguito del raffronto tra i fogli giornalieri - sui quali il personale della E. attestava la propria presenza mediante al firma in entrata e in uscita - ed i libri obbligatori; dalla corresponsione per i lavoratori indicati nel verbale n. 586 di importi a titolo di "trasferta esente" pur essendo gli stessi impegnati nello stesso periodo presso lo stabilimento di Chieti della B.). Rilevava, inoltre, che nei confronti delle ditte "appaltatrici" era risultato: che le medesime, sia pure formalmente iscritte alla Camera di Commercio, all'INPS ed all'INAIL, tuttavia, avevano le sedi legali presso le abitazioni dei titolari e tutte, alla richiesta di esibire la documentazione, avevano dichiarato di averla smarrita o che era andata distrutta; che i titolari di alcune delle ditte, inoltre, risultavano dipendenti delle altre sulla base dei libri matricola in fotocopia forniti dalla E. Osservava, quindi, che a fronte del comportamento tenuto dalla E. non si poteva parlare di una semplice omissione contributiva, dovendosi ravvisare una vera e propria evasione configurabile ogniqualvolta viene celata all'ente previdenziale l'effettiva sussistenza dei presupposti fattuali dell'imposizione.

Per la cassazione di tale decisione propone ricorso la E. s.r.l. affidato a tre motivi.

L'INPS resiste con controricorso.

Con il primo motivo si deduce omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti (ex art. 360, n. 5, c.p.c.). Si assume che la motivazione della impugnata sentenza era lacunosa ed apodittica e non aveva considerato i puntuali rilievi mossi nel gravame alla decisione di primo grado (trascritti nel motivo), rilievi degradati a "generiche doglianze" laddove, se valutati in modo approfondito, avrebbero condotto alla conclusione della fondatezza delle ragioni della ricorrente.

Con il secondo motivo viene denunciata violazione e falsa applicazione dell'art. 2697 c.c. (in relazione all'art. 360, n. 3, c.p.c.) per avere il giudice di prime cure, nell'affermare che " ...la E. ...nessuna spiegazione convincente....è riuscita a fornire...", erroneamente invertito l'onere della prova, ponendolo a carico della ricorrente società, mentre sarebbe spettato all'INPS il dover provare le contestate violazioni.

Con il terzo mezzo si lamenta violazione e falsa applicazione dell'art. 116, co. 80 lett. b), della legge n. 388 del 2000 (in relazione all'art. 360, n. 3 c.p.c.) nonché insufficiente motivazione laddove, nell'impugnata sentenza, era stata affermata la ricorrenza di una ipotesi di evasione contributiva avendo la Corte di merito ritenuto sussistente l'elemento dell'intenzionalità specifica di non pagare i contributi senza rilevare che i contratti di appalto stipulati con le ditte subappaltatrici apparivano perfettamente legittimi e solo dopo una lunga istruttoria erano stati considerati illegittimi.

Il primo motivo è inammissibile.

Preliminarmente, va rilevato che alla presente controversia va applicato il nuovo testo dell'art. 360, secondo comma, n. 5, c.p.c. (come modificato dall'art. 54, comma 1° lett. b) d.l. 22 giugno 2012, n. 83, conv. con modifiche in legge 7 agosto 2012 n. 134) essendo stata pubblicata l'impugnata sentenza dopo 11 settembre 2012 (ai sensi dell'art. 54, comma 3° d.l. cit.).

Orbene, le Sezioni Unite di questa Corte (SU n. 8053 del 7 aprile 2014) hanno avuto modo di precisare che, a seguito della modifica dell'art. 360, comma 1° n. 5 cit., il vizio di motivazione si restringe a quello di violazione di legge e, cioè, dell'art. 132 c.p.c., che impone al giudice di indicare nella sentenza "la concisa esposizione delle ragioni di fatto e di diritto della decisione".

Ed infatti perché violazione sussista si deve essere in presenza di un vizio "così radicale da comportare con riferimento a quanto previsto dall'art. 132, n. 4, c.p.c. la nullità della sentenza per mancanza di motivazione", fattispecie che si verifica quando la motivazione manchi del tutto oppure formalmente esista come parte del documento, ma le argomentazioni siano svolte in modo "talmente contraddittorio da non permettere di individuarla, cioè di riconoscerla come giustificazione del decisum.

Pertanto, a seguito della riforma del 2012 scompare il controllo sulla motivazione con riferimento al parametro della sufficienza, ma resta il controllo sulla esistenza (sotto il profilo della assoluta omissione o della mera apparenza) e sulla coerenza (sotto il profilo della irriducibile contraddittorietà e dell'illogicità manifesta).

Inoltre, il vizio può attenere solo alla questio facti (in ordine alle questio juris non è configurabile un vizio di motivazione) e deve essere testuale, deve, cioè, attenere alla motivazione in sé, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali.

Quanto invece allo specifico vizio previsto dal nuovo testo dell'art. 360, n. 5, c.p.c., in cui è scomparso il termine motivazione, deve trattarsi di un omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali che abbia costituito oggetto di discussione e che abbia carattere decisivo (vale a dire che se esaminato avrebbe determinato un esito diverso della controversia).

Le Sezioni unite hanno specificato che "la parte ricorrente dovrà indicare - nel rigoroso rispetto delle previsioni di cui all'art. 366, primo comma, n. 6 e 369, secondo comma, n. 4, c.p.c.- il fatto storico, il cui esame sia stato omesso, il dato testuale (emergente dalla sentenza) o extratestuale (emergente dagli atti processuali), da cui risulti l'esistenza, il come ed il quando (nel quadro processuale) tale fatto sia stato oggetto di discussione tra le parti, la decisività del fatto stesso", fermo restando che l'omesso esame di elementi istruttori non integra, di per sé, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorché la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie.

E' evidente, quindi, che il motivo all'esame non presenti alcuno dei requisiti di ammissibilità richiesti dall'art. 360, comma 1, n. 5 così come novellato nella interpretazione fornitane dalle Sezioni unite di questa Corte. Ed infatti non lamenta l'omesso esame di un fatto storico ma si risolve nella denuncia di vizi di motivazione della sentenza impugnata per errata valutazione del materiale probatorio acquisito ai fini della ricostruzione dei fatti che finisce con il con il sollecitare una nuova valutazione del merito della controversia inammissibile in questa sede. Invero, è stato in più occasioni affermato dalla giurisprudenza di legittimità che la valutazione delle emergenze probatorie, come la scelta, tra le varie risultanze, di quelle ritenute più idonee a sorreggere la motivazione, involgono apprezzamenti di fatto riservati al giudice del merito, il quale nel porre a fondamento della propria decisione una fonte di prova con esclusione di altre, non incontra altro limite che quello di indicare le ragioni del proprio convincimento, senza essere tenuto a discutere ogni singolo elemento o a confutare tutte le deduzioni difensive (cfr, e plurirnis, Cass. n. 17097 del 21/07/2010; Cass. n. 12362 del 24/05/2006; Cass. n. 11933 del 07/08/2003).

Peraltro, non può non rilevarsi che la Corte di merito ha proceduto, sia pure in modo sintetico (la sentenza è stata emessa a seguito di trattazione orale ex art. 286 sexies c.p.c (ndr art. 281 sexies c.p.c). ad una disamina delle risultanze istruttorie a confutazione delle argomentazioni contenute nel gravame.

Il secondo motivo è infondato.

Dalla lettura della impugnata sentenza emerge con evidenza che la Corte di appello ha ritenuto che l'INPS avesse dato prova, attraverso la documentazione prodotta, della fondatezza della propria pretesa e che le risultanze documentali non erano state inficiate dalle dichiarazioni rese da alcuni testi.

Infine, anche il terzo motivo è inammissibile in quanto la Corte territoriale ha ritenuto, con una valutazione di merito non sindacabile in questa sede per quanto sopra già detto, che la società ricorrente aveva tenuto un comportamento teso a celare consapevolmente l'effettiva sussistenza dei presupposti fattuali dell'imposizione. Peraltro, tale argomentazione risulta in linea con la giurisprudenza di questa Corte secondo cui "In tema di obblighi contributivi verso le gestioni previdenziali e assistenziali, l'omessa o infedele denuncia mensile all'INPS attraverso i modelli DM10 circa rapporti di lavoro e retribuzioni erogate integra "evasione contributiva" ex art. 116, comma 8, lett. b), della legge n. 388 del 2000, e non la meno grave "omissione contributiva" di cui alla lettera a) della medesima norma, in quanto l'omessa o infedele denuncia fa presumere l'esistenza della volontà datoriale di occultare i dati allo specifico fine di non versare i contributi o i premi dovuti. Ne consegue che grava sul datore di lavoro inadempiente l'onere di provare l'assenza d'intento fraudolento e, quindi, la propria buona fede." (Cass. n. 4188 del 20/02/2013; Cass. n. 10509 del 25/06/2012).

Per tutto quanto sopra considerato, si propone il rigetto del ricorso, con ordinanza, ai sensi dell'art. 375 cod. proc. civ., n. 5".

Sono seguite le rituali comunicazioni e notifica della suddetta relazione, unitamente al decreto di fissazione della presente udienza in Camera di consiglio.

Il Collegio condivide pienamente il contenuto della relazione e, quindi, rigetta il ricorso.

Le spese del presente giudizio, per il principio della soccombenza, sono poste a carico della ricorrente e vengono liquidate come da dispositivo.

Sussistono i presupposti per il versamento, da parte della ricorrente dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato, previsto dall'art. 13, comma 1 quater, del d.P.R. 30 maggio, introdotto dall'art. 1, comma 17, della legge 24 dicembre 2012, n. 228 (legge di stabilità 2013). Tale disposizione trova applicazione ai procedimenti iniziati in data successiva al 30 gennaio 2013, quale quello in esame, avuto riguardo al momento in cui la notifica del ricorso si è perfezionata, con la ricezione dell'atto da parte del destinatario (Sezioni Unite, sent n. 3774 del 18 febbraio 2014). Inoltre, il presupposto di insorgenza dell'obbligo del versamento, per il ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, ai sensi dell'art. 13, comma 1 quater, del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, nel testo introdotto dall'art. 1, comma 17, legge 24 dicembre 2012, n. 228, non è collegato alla condanna alle spese, ma al fatto oggettivo del rigetto integrale o della definizione in rito, negativa per l'impugnante, del gravame (Cass. n. 10306 del 13 maggio 2014).

 

P.Q.M.

 

Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente alle spese del presente giudizio liquidate in euro 3.500,00 per compensi professionali, euro 100,00 per esborsi, oltre rimborso spese forfetario nella misura del 15%.

Ai sensi dell'art. 13, co. 1 quater, del d.P.R. n. 115 del 2002 dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte della ricorrente dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13.