Giurisprudenza - CORTE DI CASSAZIONE - Ordinanza 11 marzo 2016, n. 4823

Rapporto di lavoro - Festività civili coincidenti con la domenica - Compenso aggiuntivo - Riconoscimento

 

Fatto e diritto

 

1 - Considerato che è stata depositata relazione del seguente contenuto: "Con ricorsi al giudice del lavoro del Tribunale di Viterbo, il Ministero della Giustizia proponeva opposizione ai decreti ingiuntivi con cui lo stesso Tribunale gli aveva ingiunto di pagare, in favore delle sue dipendenti (tra le quali le attuali ricorrenti) somme a titolo di compenso aggiuntivo per due festività di cui alla legge n. 260/1949 - come modificata dalla legge n. 90/1954 -, e cioè per le festività civili del 25 aprile 1999 e 2004 e del 2.6.2002, coincidenti con la domenica. Il Tribunale rigettava l’opposizione e confermava i decreti ingiuntivi opposti. A seguito di impugnazione da parte del Ministero, la Corte di appello di Roma riformava la pronuncia di primo grado, rigettando le domande delle dipendenti. Valorizzava la Corte territoriale lo ius superveniens, costituito dalla legge 23 dicembre 2005, n. 266, che, all’art. 1, comma 224, ha stabilito, che: "Tra le disposizioni riconosciute inapplicabili dall'articolo 69, comma 1, secondo periodo, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, a seguito della stipulazione dei contratti collettivi del quadriennio 1994/1997, è ricompreso l’articolo 5, terzo comma, della legge 27 maggio 1949, n. 260, come sostituito dall’articolo 1 della legge 31 marzo 1954, n. 90, in materia di retribuzione nelle festività civili nazionali ricadenti di domenica. È fatta salva l’esecuzione dei giudicati formatisi alla data di entrata in vigore della presente legge". Attribuiva a detta norma natura interpretativa e riteneva che la stessa fosse, con riguardo al caso di specie, risolutiva in quanto da considerarsi riferibile all’intero ambito applicativo del trattamento economico previsto dall’art. 5 della legge n. 269/1949, ivi comprese le estensioni di tale ambito disposte dall’art. 2 della legge n. 90/1954.

Avverso questa sentenza propongono ricorso per cassazione S.M.A., B.G. e C.D. con quattro motivi di impugnazione.

Il Ministero resiste con controricorso.

Con i motivi di ricorso viene denunciata la violazione e/o falsa applicazione della legge n. 266 del 2005, art. 1, comma 224, posta questione di costituzionalità di tale norma e formulata richiesta di quesito interpretativo alla Corte di Giustizia, CE, ex art. 234 del Trattato CE. Viene infine dedotta violazione e/o falsa applicazione degli artt. 91 e 92 cpc, sul rilievo che la condanna integrale delle parti istanti alle spese di lite per entrambi i gradi di merito era totalmente illogica ed ingiusta alla luce della considerazione che la soccombenza era maturata solo a seguito di norma di interpretazione autentica, emanata successivamente ai ricorsi monitori.

I primi tre motivi, da trattarsi congiuntamente, in ragione della intrinseca connessione, sono manifestamente infondati.

La Corte territoriale ha correttamente applicato lo jus superveniens costituito dall’art. 1, comma 224, della legge n. 266 del 2005, norma che, laddove dispone che l’art. 5, terzo comma, della legge n. 260 del 1949, come successivamente modificato, è una fra le disposizioni divenute inapplicabili a seguito della stipulazione dei contratti collettivi del quadriennio 1994/1997, ai sensi dell’art. 69, comma 1, del d.lgs. n. 165 del 2001, ha escluso, con portata retroattiva (e dunque non con effetti solo per il futuro), il riconoscimento del diritto dei dipendenti ad un compenso aggiuntivo, in caso di coincidenza con la festività della domenica. In tali termini questa Corte si è già più volte pronunciata. Si vedano, infatti, Cass. 5 aprile 2011, n. 7740, Cass. 25 febbraio 2011, n. 4661, Cass. 27 ottobre 2009, n. 22653, Cass. 17 giugno 2009, n. 14048, Cass. 22 febbraio 2008, n. 4667, con le quali si è evidenziato che la suddetta disposizione, mirando a risolvere dubbi interpretativi sull’ambito dell’inefficacia determinata dalla stipulazione della seconda tornata di contratti di lavoro con le pubbliche amministrazioni, è qualificabile come norma di interpretazione autentica, siccome fatto palese, del resto, dalla specifica disposizione di salvezza dei giudicati formatisi anteriormente alla sua entrata In vigore. E’ stato anche rimarcato, con l’espresso richiamo alla pronuncia della Corte costituzionale n. 146 del 16 maggio 2008 (così Cass. n. 7740/2011, Cass. n. 4661/2001, Cass. n. 14048/2009 citate), come i dubbi di legittimità costituzionale, prospettati sotto il profilo della pretesa violazione del principio di uguaglianza, sono privi di fondamento.

Sulla questione, a seguito di ordinanza interlocutoria di questa Corte n. 1040 del 20 gennaio 2014 - resa in un giudizio nel quale, come nel presente, si sosteneva che l’efficacia retroattiva dell’art. 1, comma 224, della legge n. 266/2005 non appariva giustificata, sul piano costituzionale, da una finalità realmente interpretativa della disposizione stessa, la quale attribuisce alla norma interpretata (il d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165, art. 69, comma 1, secondo periodo) non già uno dei significati possibili bensì un significato del tutto nuovo e si poneva, altresì, il problema che la detta retroattività avrebbe violato il divieto di ingerenza del potere legislativo nell’amministrazione della giustizia, influendo sulla definizione delle controversie giudiziarie in corso (art. 117 Cost., comma 1 e 6 CEDU), ledendo l’autonomia e indipendenza della magistratura (art. 104 Cost.) ed il principio di imparzialità della pubblica amministrazione (art. 97 Cost.) -, è tornata la Corte costituzionale. Nella recente decisione n. 150 del 14 luglio 2015, il Giudice delle leggi ha definitivamente fugato ogni dubbio di costituzionalità e di contrasto con il giusto ed equo processo e con i connessi principi della "parità delle armi" e della certezza del diritto (art. 6 CEDU) affermando che: "l’intervento interpretativo del legislatore non solo non contrasta con il principio di ragionevolezza <che ridonda nel divieto di introdurre ingiustificate disparità di trattamento> (sentenza n. 209 del 2010), escluse da questa Corte già nella sentenza n. 146 del 2008 in considerazione della peculiarità del regime del rapporto di lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni delineato dal d.lgs. n. 165 del 2001 e dai contratti collettivi ivi richiamati, ma neppure determina una lesione dell'affidamento. Il testo originario rendeva, sin dall’inizio, plausibile, come si è già rilevato, una lettura diversa da quella che i destinatari della norma interpretata hanno ritenuto di privilegiare (sentenza n. 170 del 2008), coerente con i principi ai quali è informato il rapporto di lavoro pubblico. Né si ravvisa una lesione delle attribuzioni del potere giudiziario. La norma in esame, infatti, avendo natura interpretativa, ha operato sul piano delle fonti, senza toccare la potestà di giudicare, limitandosi a precisare la regola astratta ed il modello di decisione cui l'esercizio di tale potestà deve attenersi, definendo e delimitando la fattispecie normativa oggetto della medesima (sentenza n. 170 del 2008), proprio al fine di assicurare la coerenza e la certezza dell’ordinamento giuridico (sentenza n. 209 del 2010)".

Si propone, pertanto, il rigetto dei primi tre motivi di ricorso, e l’inammissibilità dell'ultimo, atteso che "In materia di spese processuali, l'identificazione della parte soccombente è rimessa al potere decisionale del giudice del merito, insindacabile in sede di legittimità, con l'unico limite di violazione del principio per cui le spese non possono essere poste a carico della parte totalmente vittoriosa" (cfr. Cass. 16.6.2011 n. 13229 e Cass. 4.7.2011 n. 14542).

Tutto con ordinanza, ai sensi dell’art. 375, n. 5, cod. proc. civ."

2 - Tanto premesso, questa Corte ritiene che le osservazioni in fatto e le considerazioni e conclusioni in diritto svolte dal relatore siano del tutto condivisibili, siccome coerenti alla giurisprudenza di legittimità in materia e non scalfite dalla memoria con la quale la ricorrente si limita a richiamare alcune decisioni della Corte Europea (così, tra le altre, la sentenza n. del 31 maggio 2011 nella causa Maggio ed altri c. Italia; la sentenza del 7 giugno 2011 nella causa Agrati ed altri c. Italia; la sentenza del 14 febbraio 2012 nella causa Arras ed altri c. Italia) che hanno considerato emesse in violazione dell'art. 6 della CEDU norme di interpretazione autentica che pure avevano superato il vaglio di legittimità costituzionale da parte del giudice delle leggi.

Del resto ogni vicenda va contestualizzata ed anche l'ipotizzato pregiudizio in ragione dell’inutilità di proseguire una lite a causa della sopravvenuta normativa va rapportato allo specifico interesse generale sotteso all'intervento legislativo.

Nel caso in esame non sono stati offerti argomenti ulteriori rispetto a quelli già vagliati dalla stessa Corte costituzione nella sopra citata sentenza n. 150 del 14 luglio 2015 nella parte in cui è stato escluso ogni contrasto con il giusto ed equo processo e con i connessi principi della "parità delle armi" e della certezza del diritto (art. 6 CEDU).

In tale decisione si è, infatti, precisato: - che «al legislatore non è [...] precluso di emanare [...] norme retroattive (sia innovative che di interpretazione autentica), "purché la retroattività trovi adeguata giustificazione nella esigenza di tutelare principi, diritti e beni di rilievo costituzionale che costituiscono altrettanti motivi imperativi di interesse generale ai sensi della giurisprudenza della Corte EDU" (sentenza n. 264 del 2012)» (sentenza n. 156 del 2014; così anche, ex plurimis, sentenze n. 78 del 2012, n. 15 del 2012); - che ciò accade allorquando una norma di natura interpretativa persegua lo scopo di chiarire situazioni di oggettiva incertezza del dato normativo in ragione di un dibattito giurisprudenziale irrisolto o di ristabilire un'interpretazione più aderente all’originaria volontà del legislatore (sentenza n. 311 del 2009; così anche Corte europea dei diritti dell'uomo, sentenza 23 ottobre 1997, National & Provincial Building Society ed altri contro Regno Unito), nonché di riaffermare l'intento originale del Parlamento (Corte europea dei diritti dell'uomo, sentenza 27 maggio 2004, OGIS-Institut Stanislas e altri contro Francia) a tutela della certezza del diritto e dell'eguaglianza dei cittadini; - che l'art. 1, comma 224, della legge n. 266 del 2005, nell'escludere l'applicabilità ai lavoratori pubblici della norma recante la previsione del diritto ad una retribuzione aggiuntiva nel caso in cui le festività ricorrano di domenica, all'indomani della stipulazione dei contratti collettivi del quadriennio 1994/1997, non ha fatto altro che dare attuazione ad uno dei principi ispiratori dell'intero d.Igs. n. 165 del 2001 (inapplicabilità «delle norme generali e speciali dei pubblico impiego», a seguito appunto della stipulazione dei contratti collettivi del quadriennio 1994-1997); - che, inoltre, la norma in questione ha chiarito - risolvendo una situazione di incertezza testimoniata dalla presenza di pronunce di segno contrastante (Cass. 28 marzo 1981, n. 1803; Cass. 10 gennaio 2011, n. 258; Cass.5 luglio 2006, n. 15331); - che l'art. 5, terzo comma, della legge n. 260 del 1949 ha carattere imperativo; - che l'intervento interpretativo del legislatore non solo non contrasta con il principio di ragionevolezza, ma neppure determina una lesione dell'affidamento (rendendo il testo originario della norma, sin dall'inizio, plausibile una lettura diversa da quella che i destinatari della norma interpretata hanno ritenuto di privilegiare).

Quanto alla doglianza espressa con riguardo alla condanna alle spese di lite dei gradi di merito, si rileva che il giudizio di appello è stato instaurato dopo l’intervento della norma interpretativa e che comunque rientra nella discrezionalità del giudice disporre la compensazione delle spese di lite (art 92, co. 2. C.p.c. nel testo vigente ratione temporis), non potendo le norme invocate ritenersi violate ove, come nella specie, sia stata applicata la regola della soccombenza.

Ricorre con ogni evidenza il presupposto dell'art. 375, n. 5, cod. proc. civ. per la definizione camerale del processo.

3 - Conseguentemente, il ricorso va complessivamente rigettato.

4 - Il recente intervento della Corte costituzionale sulla questione oggetto di causa consente di compensare integralmente tra le parti le spese del presente giudizio di legittimità.

5 - La circostanza che il ricorso sia stato proposto in tempo posteriore al 30 gennaio 2013 impone di dar atto dell'applicabilità dell'art. 13, comma 1 quater, d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, nel testo introdotto dall'art. 1, comma 17, legge 24 dicembre 2012, n. 228. Invero, in base al tenore letterale della disposizione, il rilevamento della sussistenza o meno dei presupposti per l'applicazione dell'ulteriore contributo unificato costituisce un atto dovuto, poiché l'obbligo di tale pagamento aggiuntivo non è collegato alla condanna alle spese, ma al fatto oggettivo - ed altrettanto oggettivamente insuscettibile di diversa valutazione - del rigetto integrale o della definizione in rito, negativa per l'impugnante, dell’impugnazione, muovendosi, nella sostanza, la previsione normativa nell'ottica di un parziale ristoro dei costi del vano funzionamento dell'apparato giudiziario o della vana erogazione delle, pur sempre limitate, risorse a sua disposizione (così Cass. Sez. un. n.22035/2014).

 

P.Q.M.

 

Rigetta il ricorso. Compensa tra le parti le spese del presente giudizio di legittimità.

Ai sensi dell'art. 13, co. 1 quater, del d.P.R. n. 115 del 2002 dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte delle ricorrenti dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13.