Giurisprudenza - CORTE DI CASSAZIONE - Sentenza 08 marzo 2016, n. 4500

Cessione di ramo d'azienda - Consenso del lavoratore - Applicabilità art. 2112 cc - Prosecuzione dei rapporti di lavoro dei dipendenti trasferiti

 

Svolgimento del processo

 

T.I. s.p.a. e la E.S. s.p.a. proponevano appello avverso la sentenza emessa dal Tribunale di Roma con cui venne dichiarato illegittimo il contratto di cessione di ramo d'azienda tra IT T.I. e la E.S. e dichiarata la prosecuzione dei rapporti di lavoro dei dipendenti trasferiti M. ed A. con la società T., con la qualifica, le mansioni ed il trattamento precedentemente in godimento.

Con sentenza depositata il 29 marzo 2013, la Corte d'appello di Roma, riuniti i gravami li rigettava entrambi.

Per la cassazione di tale sentenza propongono distinti ricorsi le società, affidati entrambi a tre motivi.

Resistono con distinti controricorsi i lavoratori, poi illustrati con unica memoria.

 

Motivi della decisione

 

1. - Deve preliminarmente disporsi la riunione dei ricorsi ex art. 335 c.p.c. in quanto proposti avverso la stessa sentenza.

2. - Con il primo motivo di ricorso entrambe le società denunciano "violazione e falsa applicazione dell’art. 2112 c.c. ai sensi dell'art. 360 c.p.c, comma 1, n. 3". Lamentano che erroneamente il giudice d'appello aveva ritenuto insussistente un trasferimento di ramo d'azienda efficace ai sensi della disposizione codicistica per mancanza di autonomia funzionale del ramo ceduto. La nozione di autonomia funzionale sarebbe identificata dalla idoneità del ramo a svolgere un determinato servizio ovvero a produrre un certo bene, sicché tale capacità ben può essere ravvisata anche quando il ramo svolga o si offra di svolgere funzioni diverse.

3. - Con il secondo mezzo di impugnazione entrambe le società ricorrenti lamentano "omessa motivazione ai sensi dell'art. 360 c.p.c., n. 5", atteso che il giudice d'appello avrebbe completamente trascurato la circostanza che il ramo trasferito, sebbene per il breve lasso temporale di tre mesi, aveva continuato a svolgere la medesima attività che svolgeva prima della cessione, senza interruzioni.

3. - Con l'ultima censura, ancora comune ad entrambe le società, di violazione e falsa applicazione dell'art. 2112 c.c.. nonché di insufficiente motivazione ai sensi dell'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, si critica la sentenza impugnata laddove "ritiene che la esiguità dei beni oggetto della cessione rappresenti una circostanza tale da deporre nel senso della inesistenza del requisito della autonomia funzionale del ramo ceduto".

Tutte le censure, che per la loro connessione possono essere esaminate congiuntamente, risultano infondate, come già ritenuto da questa Corte in analoghe controversie, cfr., ex aliis, Cass. 23.5.2014 n. 11575.

Ed invero la Corte territoriale, dopo aver ripercorso le vicende normative che hanno interessato l'art. 2112 c.c. ed aver dato atto degli orientamenti della giurisprudenza di legittimità nell'interpretazione di tale disposizione, ha affermato che, con il D.Lgs. n. 276 del 2003, art. 32 applicabile alla fattispecie, "il legislatore non ha modificato la norma nella parte in cui definisce il ramo d'azienda come articolazione funzionalmente autonoma di un'attività economica organizzata".

L'assunto non può che essere condiviso.

L'art. 2112 c.c., sia nel testo sostituito dal D.Lgs. n. 18 del 2001, art. 1 vigente a decorrere dal 1 luglio 2001, sia nel testo modificato dal D.Lgs. n. 276 del 2003, art. 32 applicabile alla presente controversia, ha mantenuto immutata la definizione di "trasferimento di parte dell'azienda" nella parte in cui essa è "intesa come articolazione funzionalmente autonoma di un'attività economica organizzata".

Tale nucleo della disposizione è rimasto intatto, non essendo stato toccato dalle modifiche normative che hanno invece riguardato, con riferimento all'articolazione appena descritta, la soppressione dell'inciso "preesistente come tale al trasferimento e che conserva nel trasferimento la propria identità" e l'aggiunta testuale "identificata come tale dal cedente e dal cessionario al momento del suo trasferimento" (cfr. sul punto Cass. 3.10.2013 n. 22613).

Detta nozione di trasferimento di ramo d'azienda nella parte di testo non modificata è coerente con la disciplina in materia dell'Unione Europea (direttiva 12 marzo 2001, 2001/23/CE, che ha proceduto alla codificazione della direttiva 14 febbraio 1977, 77/187/CEE, come modificata dalla direttiva 29 giugno 1998, 98/50/CE) secondo cui "è considerato come trasferimento ai sensi della presente direttiva quello di una entità economica che conserva la propria identità, intesa come un insieme di mezzi organizzati al fine di svolgere un'attività economica, sia essa essenziale o accessoria" (art. 1, n. 1, direttiva 2001/23).

La Corte di Giustizia, cui compete il monopolio interpretativo del diritto comunitario vivente (ex plurimis. Cass. n. 19740 del 2008), ha ripetutamente individuato la nozione di entità economica come complesso organizzato di persone e di elementi che consenta l'esercizio di un'attività economica finalizzata al perseguimento di un determinato obbiettivo (cfr. Corte di Giustizia, 11 marzo 1997, C - 13/95, Suzen, punto 13; Corte di Giustizia, 20 novembre 2003, C - 340/2001, Abler, punto 30; Corte di Giustizia, 15 dicembre 2005, C - 232/04 e C - 233/04, Guney-Gorres e Demir, punto 32) e sia sufficientemente strutturata ed autonoma (cfr. Corte di Giustizia, 10 dicembre 1998, Hernandez Vidal, C - 127/96, C - 229/96, C - 74/97, punti 26 e 27; Corte di Giustizia, 13 settembre 2007, Jouini, C - 458/05, punto 31; Corte di Giustizia, 6 settembre 2011, C - 108/10, Scattolon, punto 60).

Il criterio selettivo dell'autonomia funzionale del ramo d'azienda ceduto, letto conformemente alla disciplina dell'Unione, consente di affrontare e scongiurare ipotesi in cui le operazioni di trasferimento si traducano in forme incontrollate di espulsione di personale.

Pertanto nessuna censura può essere addebitata alla sentenza impugnata laddove assume il canone della "articolazione funzionalmente autonoma di un'attività economica organizzata" quale pre-requisito indispensabile per configurare una efficace cessione del contratto di lavoro senza il consenso del lavoratore, prima ed oltre la questione della preesistenza del ramo ceduto. Peraltro sull'aspetto della preesistenza del ramo ceduto di recente la Corte di Giustizia, pregiudizialmente sollecitata da un giudice italiano proprio in riferimento alla formulazione dell'art. 2112 c.c. novellata dall'art. 32 del cit D.Lgs., ha testualmente ritenuto che "L'art. 1, paragrafo 1, lett a) e b), della direttiva 2001/23/CE del Consiglio, del 12 marzo 2001, ..., deve essere interpretato nel senso che non osta ad una normativa nazionale, come quella oggetto del procedimento principale, la quale, in presenza di un trasferimento di una parte di impresa, consenta la successione del cessionario al cedente nei rapporti di lavoro nell'ipotesi in cui la parte di impresa in questione non costituisca un'entità economica funzionalmente autonoma preesistente al suo trasferimento" (CGUE, 6 marzo 2014, C-458/12, Amatori ed a.). Ciò posto la Corte territoriale ha escluso che nella fattispecie sottoposta al suo vaglio fossero emerse circostanze tali da far ritenere che nella specie fosse stata trasferita una attività organizzata "funzionalmente autonoma", con una valutazione di merito che, ove espressa con motivazione sufficiente e non contraddittoria, sfugge al sindacato di legittimità (cfr. Cass. n. 5117 del 2012, Cass. n. 20422 del 2012, Cass. n. 2151 del 2013, Cass. n. 20729 del 2013, Cass. n. 1821 del 2013, Cass. n. 24262 del 2013). Invero i giudici d'appello, confermando il giudizio già espresso dal Tribunale, hanno rilevato come "dato pacifico" che "nell'arco di tre mesi dalla cessione il ramo servizi generali ceduto sia stato a sua volta ristrutturato completamente, suddiviso in tre centri servizi che sono stati immediatamente ceduti ad una terza società per cui di fatto, non avendo operato il ramo ceduto in modo unitario sin praticamente dal momento della cessione, non può condividersi la tesi dell'azienda cedente volta a far discendere dallo svolgimento di attività successiva alla cessione la esistenza di un'autonomia del ramo".

Hanno aggiunto che "proprio la necessità di ristrutturazione radicale effettuata dalla cessionaria attesta la disomogeneità delle funzioni e la disorganicità delle stesse".

Hanno trovato ulteriore conferma al convincimento circa l'inesistenza dei presupposti di applicabilità dell'art. 2112 c.c. dalla circostanza che "i beni materiali trasferiti (computer, scrivanie, armadi) sono stati di consistenza esigua rispetto all'asserita importanza della struttura".

Si tratta di un percorso motivazionale sufficiente e non contraddittorio, formalmente coerente nell’equilibrio dei vari elementi che ne costituiscono la struttura argomentativa, immune da vizi logici o giuridici.

3.3. - In una prospettiva processuale, poi, occorre rilevare che incombe su chi intende avvalersi degli effetti previsti dall'art. 2112 c.c. quale eccezione al principio del necessario consenso del lavoratore creditore ceduto, fornire la prova dell'esistenza di tutti i requisiti che ne condizionano l'operatività: grava, cioè, sulla società cedente l'onere di allegare e provare l'insieme dei fatti concretanti un trasferimento di ramo d'azienda (cfr., in motivazione, Cass. n. 206 del 2004).

Nella specie tale prova, secondo la valutazione di merito del giudice d'appello non è stata fornita, né parte ricorrente individua fatti controversi e decisivi che sarebbero stati trascurati dalla Corte territoriale, in rapporto di causalità tale con la soluzione giuridica della controversia da far ritenere, con giudizio di certezza e non di mera probabilità, che la loro corretta considerazione avrebbe comportato una decisione diversa. Quindi le società ricorrenti, lungi dal denunciare una totale obliterazione di fatti decisivi che potrebbero condurre ad una diversa decisione ovvero una manifesta illogicità nell'attribuire agli elementi di giudizio un significato fuori dal senso comune od ancora un difetto di coerenza tra le ragioni esposte per assoluta incompatibilità razionale degli argomenti ed insanabile contrasto tra gli stessi, si limitano a far valere la non rispondenza della ricostruzione dei fatti operata dal giudice di merito al diverso convincimento soggettivo patrocinato dalla parte. Tali aspetti del giudizio, interni all'ambito della discrezionalità di valutazione degli elementi di prova e dell'apprezzamento dei fatti, attengono al libero convincimento del giudice e non ai possibili vizi dell'iter formativo di tale convincimento rilevanti ai sensi dell'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5. Sicché il motivo in esame si traduce nell'invocata revisione delle valutazioni e dei convincimenti espressi dal giudice di merito, non concessa perché estranea alla natura ed alla finalità del giudizio di legittimità, tanto più nel regime di cui al novellato n. 5 dell'art. 360, comma 1, c.p.c. Pertanto i ricorsi devono essere respinti.

Le spese seguono la soccombenza e, liquidate come da dispositivo, debbono distrarsi in favore dei difensori dei controricorrenti, dichiaratisi anticipanti.

Ai sensi dell'art. 13, comma 1 quater, del d.P.R. n. 115\02, nel testo risultante dalla L. 24.12.12 n. 228, deve provvedersi, ricorrendone i presupposti, come da dispositivo.

 

P.Q.M.

 

Riunisce i ricorsi e li rigetta entrambi. Condanna le società ricorrenti al pagamento delle spese del giudizio di legittimità che liquida, per ciascuna di esse, in Euro 3.500,00 per compensi professionali, Euro 100,00 per esborsi, oltre accessori di legge, da distrarsi in favore degli avv. G. P. e S.P..

Ai sensi dell'art. 13, comma 1 quater, del d.P.R. n. 115\02, nel testo risultante dalla L. 24.12.12 n. 228, la Corte dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte delle ricorrenti principali, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per i ricorsi principali, a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13.