Giurisprudenza - CORTE DI CASSAZIONE - Sentenza 08 marzo 2016, n. 4509

Rapporto di lavoro - Modifica in peius della mansioni del lavoratore - Licenziamento - Giustificato motivo oggettivo - Violazione dell'obbligo di repechage

 

Svolgimento del processo

 

Con ricorso proposto in data 20.2.2009 avanti al Tribunale di S. Angelo dei Lombardi, in funzione di Giudice del Lavoro, Z.V. conveniva in giudizio la I. Industria Legnami s.p.a. ed esponeva di aver lavorato con mansioni di addetto alla confezione del legno ed inquadramento nel IV livello c.c.c.n.l. di settore, nonché per brevi periodi alla selezione manuale presso il macchinario Ogam al reparto magazzino e alla logistica; di esser stato licenziato con lettera 21/10/08 a far data dal 25/10/08; di aver ricevuto, a seguito di sua specifica richiesta, la esplicitazione delle ragioni del recesso, siccome attinenti al giustificato motivo oggettivo; di aver appreso che la società dal novembre 2008, aveva assunto ulteriore personale a tempo indeterminato e a tempo determinato. Sulla scorta di tali premesse, chiedeva, previa dichiarazione di illegittimità del licenziamento per carenza di giustificato motivo oggettivo e violazione dell'obbligo di repechage, la condanna della convenuta a reintegrarlo nel posto di lavoro, nonché a risarcirgli il danno in misura pari alle retribuzioni maturate dal giorno del licenziamento fino alla effettiva reintegrazione.

Radicatosi il contraddittorio e sulla resistenza della parte datoriale, il Giudice adito accoglieva la domanda.

Detta pronuncia veniva riformata dalla Corte d'Appello di Napoli, che con sentenza in data 21.8.2012, accoglieva il gravame proposto dalla parte datoriale. Nel pervenire a tali conclusioni osservava che il posto di lavoro occupato dallo Z. era stato definitivamente soppresso in dipendenza di una situazione economica non favorevole attraversata dalla Società negli anni 2007-2009. Argomentava inoltre che l'articolato quadro probatorio aveva consentito di acclarare come in epoca successiva al licenziamento, la I. Legnami s.p.a. si era avvalsa dello strumento dei contratti a termine o di somministrazione per far fronte ad esigenze produttive temporanee e che al momento della risoluzione del rapporto non sussistevano posizioni lavorative di eguale contenuto rispetto a quella di cui era titolare lo Z., sicché assolto era da ritenersi l'obbligo di repechage da parte aziendale, anche con riferimento alla possibilità di essere addetto a mansioni inferiori, non avendo il lavoratore manifestato alcuna volontà indirizzata alla stipula di un cd. patto di demansionamento.

Avverso l'anzidetta sentenza della Corte territoriale, Z.V. ha proposto ricorso per cassazione fondato su due motivi. L'intimata ha resistito con controricorso illustrato da memoria ex art. 378 c.p.c.

 

Motivi della decisione

 

1. Con il primo mezzo di impugnazione il ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 3 e 5 L. 604/66, dell'art. 18 L. 300/70, degli artt. 1175, 1375 e 2697 cod. civ., dell'art. 112 c.p.c. in relazione all'art. 360 comma primo n.3 c.p.c., nonché omessa ed insufficiente motivazione circa un fatto controverso e decisivo del giudizio ex art. 360 comma primo n. 5 c.p.c.

Si duole che la Corte territoriale abbia omesso di considerare che la l. Industria Legnami s.p.a. nulla aveva allegato e nulla si era offerta di provare in ordine all'impossibilità di impiegarlo nello stesso o in altri settori dell'attività produttiva, con mansioni anche inferiori a quelle in precedenza svolte. Ribadisce al riguardo che successivamente al licenziamento, era stato assunto, sia pure a tempo determinato, altro personale anche di livello inferiore a quello da lui posseduto, come evincibile ex actis. Rimarca, quindi, che nell'ottica descritta, erronea si palesava la statuizione dei giudici del gravame con la quale era stato ritenuto rispettato, da parte datoriale, l'obbligo di repechage.

2. Il motivo è fondato.

Questa Corte, già con risalente giurisprudenza, ha ritenuto che, ai sensi dell'art. 2103 c.c., la modifica in peius delle mansioni del lavoratore è illegittima, salvo che sia stata disposta con il consenso del dipendente e per evitare il licenziamento o la messa in cassa integrazione de lavoratore stesso, la cui diversa utilizzazione non contrasta, in tal caso, con l'esigenza di dignità e libertà della persona, configurando una soluzione più favorevole di quella ispirata al mero rispetto formale della norma (cfr, Cass., n. 6441/1988). Del pari è stato ritenuto che non costituisce violazione dell'art. 2103 c.c., un accordo sindacale che, in alternativa al licenziamento per ristrutturazione aziendale, preveda l'attribuzione di mansioni diverse e di una diversa categoria con conseguente orario di lavoro più lungo (cfr, Cass. n. 9386/1993).

Le Sezioni Unite di questa Corte (cfr, Cass., S.U. n. 7755/1998), in ipotesi di licenziamento per giustificato motivo oggettivo rappresentato dalla sopravvenuta infermità permanente del lavoratore e dalla conseguente impossibilità della prestazione lavorativa, hanno affermato, in sede di composizione di conflitto, che il recesso del datore di lavoro dal contratto di lavoro subordinato deve ritenersi legittimo non solo se risulta ineseguibile l'attività svolta in concreto dal prestatore, ma anche se, alla stregua di un'interpretazione del contratto secondo buona fede, è esclusa la possibilità dello svolgimento di altra attività riconducibile alle mansioni assegnate o ad altre equivalenti ai sensi dell'art. 2103 c.c., e altresì, in difetto di altre soluzioni, a mansioni inferiori, purché l'attività sia compatibile con l'idoneità del lavoratore e sia utilizzabile nell'impresa senza mutamenti dell'assetto organizzativo insindacabilmente scelto dall'imprenditore.

A quest'ultimo riguardo le Sezioni Unite hanno osservato che l'adibizione del lavoratore, con il suo necessario consenso, a mansioni inferiori, neppure configurerebbe una vera dequalificazione, ma solo un adeguamento del contratto alla nuova situazione di fatto, dovendo ritenersi le esigenze di tutela del diritto alla conservazione del posto di lavoro (artt. 4 e 36 Cost.) prevalenti su quelle di salvaguardia della professionalità del lavoratore (art. 2103 c.c., ed anche art. 35 Cost., comma 2).

Il ricordato orientamento interpretativo delle Sezioni Unite è stato poi seguito da altre pronunce rese in tema di licenziamento disposto per sopravvenuta inidoneità fisica del lavoratore (cfr, ex plurimis, Cass., n. 10339/2000, ove pure viene rilevata a necessità che il lavoratore, sia pure senza forme rituali, abbia manifestato la sua disponibilità ad accettare rassegnazione a mansioni non equivalenti.

3. Osserva il Collegio che le ragioni poste a fondamento della ricordata pronuncia delle Sezioni Unite n.7755/1998 conservano piena validità anche nell'ipotesi di licenziamento per giustificato motivo oggettivo conseguente a soppressione del posto di lavoro in conseguenza di riorganizzazione aziendale (vedi Cass. n. 21579/2008); anche in questa ultima ipotesi è infatti ravvisabile una nuova situazione di fatto (inerente al nuovo assetto dell'impresa anziché alla sopravvenuta inidoneità fisica del lavoratore) legittimante il consequenziale adeguamento del contratto, così come identiche sono le esigenze di tutela del diritto alla conservazione del posto di lavoro (prevalenti su quelle di salvaguardia della professionalità del lavoratore). Al contempo analoghi devono ritenersi i limiti alla rilevanza della utilizzabilità del lavoratore in mansioni inferiori, da. individuarsi nel rispetto dell'assetto organizzativo dell'impresa insindacabilmente stabilito dall'imprenditore e nel consenso del lavoratore all'adibizione a tali mansioni.

4. Si è quindi, condivisibilmente ritenuto che in tanto il consenso del lavoratore potrà essere espresso in quanto il datore di lavoro, in ottemperanza al principio di buona fede nell'esecuzione del contratto, abbia prospettato al lavoratore, ove compatibile con il suo bagaglio professionale specifico e con il nuovo assetto aziendale, la possibilità di un'utilizzazione in mansioni inferiori.

7. In tal senso si palesa l'erroneità della statuizione impugnata, che nessun accertamento ha svolto sul punto, argomentando esclusivamente in ordine alla omessa manifestazione da parte del lavoratore, di una volontà intesa alla stipula di un "patto di demansionamento", in contrasto con i dicta giurisprudenziali ai quali si è fatto richiamo ed ai quali si intende dare continuità.

8. Assorbito il secondo motivo con cui è denunciata violazione e falsa applicazione dell'art. 5 L. 223/91 e dell'art. 1175 cod. civ. per la mancata allegazione e dimostrazione del criterio di scelta applicato in sede di licenziamento da parte datoriale, la presente pronuncia va cassata con rinvio alla Corte d'Appello di Napoli che, disponendo anche in ordine alle spese del presente giudizio di cassazione, applicherà il principio di diritto in base al quale "in caso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, il datore di lavoro che adduca a fondamento del licenziamento la soppressione del posto di lavoro cui era addetto il lavoratore licenziato, ha l'onere di provare non solo che al momento del licenziamento non sussisteva alcuna posizione dì lavoro analoga a quella soppressa, ma anche di avere prospettato al lavoratore licenziato, senza ottenerne il consenso, la possibilità di un suo impiego in mansioni inferiori rientranti nel suo bagaglio professionale, purché tali mansioni inferiori siano compatibili con l'assetto organizzativo aziendale insindacabilmente stabilito dall'imprenditore.

 

P.Q.M.

 

Accoglie il ricorso nei sensi di cui in motivazione, cassa la sentenza impugnata e rinvia, anche per le spese del presente giudizio, alla Corte d'Appello di Napoli in diversa composizione.

Ai sensi dell'art. 13 comma 1 quater del d.p.r. n.115 del 2002, dà atto della non sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma del comma 1 bis dello stesso art.13.