Giurisprudenza - CORTE DI CASSAZIONE - Sentenza 17 febbraio 2016, n. 6405

Rapporto di lavoro - Pubblico servizio - Utilizzo della carta di credito aziendale per fini privati - Peculato - Danno economivo

 

Ritenuto in fatto

 

1. (...) ricorre per mezzo dei suoi difensori di fiducia avverso la sentenza In epigrafe, con la quale la Corte d'Appello di Roma ha, in riforma di quella di primo grado di assoluzione pronunciata dal Tribunale di Roma il 14.2.2013 e appellata dal pubblico ministero e dalla parte civile (...) S.p.a., dichiarato il ricorrente colpevole del delitto di peculato continuato a lui ascritto e, a lui concesse le attenuanti generiche, lo ha condannato alla pena di anni due e mesi sei di reclusione, con l'interdizione dai pubblici uffici per la durata della pena principale, e al risarcimento dei danni in favore della suddetta parte civile, da liquidarsi in separato giudizio.

(...) è accusato di essersi appropriato, nel periodo dal luglio 2009 al novembre 2010, della somma complessiva di Euro 65.341,33 mediante l'uso indebito della carta di credito aziendale di cui aveva la disponibilità quale direttore del (...) e quindi quale incaricato di pubblico servizio - in particolare utilizzando la carta per spese personali (relative a pasti consumati in ristoranti con ignoti ospiti) e comunque non inerenti al servizio.

La sentenza di primo grado aveva mandato assolto il ricorrente perché il fatto non costituisce reato. In motivazione il Tribunale esponeva che in astratto era giuridicamente configurabile il delitto di peculato ascritto a (...) in quanto la (...) era da ascriversi al novero degli enti pubblici. Riteneva tuttavia che nel caso in esame mancasse ad integrare l'elemento soggettivo del reato la consapevolezza di (...) di appropriarsi di denaro pubblico, considerato che era stata proprio la (...) a mettergli a disposizione la carta di credito aziendale con l'unica informazione che non doveva superare il massimale mensile di 5.200.

Rilevava che (...) aveva subito restituito le somme relative alle spese non sufficientemente motivate e che nessun accertamento era stato disposto dal pubblico ministero per individuare le persone che erano state ospiti del ricorrente ai pasti in questione. Riteneva quindi verosimile che nel (...) si fosse creata la convinzione che il massimale della carta di credito fosse adeguato alla funzione svolta e potesse essere utilizzato senza rendere conto, come invece imponevano le circolari aziendali applicabili, dell'identità degli invitati e della pertinenza delle spese (tutte relative a pasti consumati al ristorante) alle finalità di rappresentanza per le quali la carta di credito era stata a lui attribuita.

In accoglimento dell'appello proposto dal Procuratore della Repubblica di Roma e dalla parte civile (...) la Corte territoriale riteneva che (...) si era appropriato di risorse pubbliche con la volontaria e reiterata violazione delle regole aziendali concernenti la documentazione delle spese di rappresentanza e con la piena consapevolezza della natura privata e personale delle spese effettuate con la carta di credito aziendale. Motivava il diverso apprezzamento del materiale probatorio rispetto al primo grado, evidenziando vizi logici e inadeguata valutazione di prove, che riteneva avessero minato la permanente sostenibilità del primo giudizio e reso la ricostruzione dei fatti dello stesso giudice di appello l'unica fondata e razionalmente giustificabile al di là di ogni ragionevole dubbio.

2. (...) censura la sentenza impugnata deducendo:

2.1. Vizi di motivazione in relazione agli artt. 533, comma 1, e 192 c.p.p., per avere la Corte territoriale pronunciato sentenza di condanna, ribaltando la pronuncia assolutoria del Tribunale in violazione del principio che impone in tal caso l'accertamento della colpevolezza, sotto il profilo oggettivo e soggettivo, al di la di ogni ragionevole dubbio e con motivazione "rafforzata", pienamente dimostrativa dell’incompletezza o dell'incoerenza della prima decisione.

In particolare, il ricorrente avrebbe con coerenza sostenuto nel corso dell'intero procedimento di avere ricevuto e utilizzato la carta di credito aziendale unicamente per spese di rappresentanza e mai per scopi personali e di avere, però, frainteso la regolamentazione sottostante al suo utilizzo. La Corte territoriale sarebbe incorsa al proposito nel travisamento di plurimi elementi probatori. In primo luogo, avrebbe frainteso le dichiarazioni rese dal ricorrente nel corso delle indagini preliminari. Contrariamente agli assunti del giudice d'appello, infatti, egli non avrebbe mai sostenuto che l'attribuzione in suo favore della carta di credito aziendale rappresentasse un beneficio compensativo collegato alla clausola di esclusiva che contrattualmente gli impediva di continuare la pregressa collaborazione con il settimanale (...). Pur avendo egli posto la concessione della carta in relazione con la cessazione della sua collaborazione con (...) ed usato impropriamente i termini "compensazione" e "benefit compensativo", mai avrebbe detto di avere inteso l'attribuzione della carta come una voce aggiuntiva della sua retribuzione, poiché, se così fosse stato, non avrebbe fatto riferimento - come invece ha fatto sin dalla fase delle indagini preliminari - alle spese di rappresentanza, ma avrebbe espresso la convinzione di poter utilizzare quelle somme a titolo personale, senza alcuna necessità di inviare le fatture e ricevute fiscali agli uffici della (...) preposti al relativo controllo. In altri termini, il ricorrente ha sempre affermato di aver considerato la carta uno strumento di lavoro da utilizzare per le spese di rappresentanza, sia pure con ampio margine di discrezionalità e con modalità agevolate rispetto a quelle ordinarie. Insussistente sarebbe pertanto il presunto cambiamento di linea difensiva, ritenuto dalla Corte territoriale dimostrativo dell'assenza di buona fede da parte del ricorrente e concludente rispetto all'uso della carta di credito aziendale per spese di carattere personale o comunque esorbitanti i fini di rappresentanza per i quali quello strumento era stato concesso.

In effetti, l'unica irregolarità addebitabile al ricorrente sarebbe stata la mancata indicazione nelle fatture e ricevute fiscali dei pasti da lui consumati coi suoi ospiti della dicitura "per ragioni di riservatezza non si indica il nome del beneficiario", ciò che era pacificamente permesso, per i direttori di testata, dalle circolari aziendali regolanti la materia delle spese di rappresentanza e dalle prassi al riguardo vigenti in "(oggetto di travisamento delle prove dichiarative rese in dibattimento dai testi (...) e (...).

L'attribuzione di una carta di credito aziendale al direttore di un telegiornale costituiva del resto per la (...) una novità assoluta, ciò che spiega l'equivoco interpretativo nel quale sarebbero incorsi, in perfetta buona fede, non solo il ricorrente, ma anche gli uffici preposti al controllo. Primo fra questi il direttore generale (...), il quale in una nota indirizzata al ricorrente dopo l'emersione dei fatti aveva fatto riferimento alla "mancanza di chiarezza nella governance aziendale in materia" generatrice dell'equivoco che aveva indotto (...) "a ritenere la carta di credito - dal tuo punto di vista in perfetta buona fede - come un benefit privo di limitazioni se non quella del plafond dell'istituto di credito emittente".

La Corte territoriale avrebbe inoltre illogicamente valorizzato, per ritenere il dolo del delitto di peculato, il fatto che il ricorrente non ricordasse nessuna delle persone che avevano beneficiato delle spese sostenute con la carta di credito aziendale, poiché si trattava di spese di importo contenuto (100-150 Euro ciascuna) e numerosissime, sicché doveva ritenersi comprensibile che, a distanza di tempo, egli potesse non ricordare per ciascuna di esse i propri commensali.

La sentenza impugnata non avrebbe dimostrato, al di là di ogni ragionevole dubbio, nemmeno la natura personale delle spese effettuate dal ricorrente con la carta aziendale. In mancanza di prova diretta, in quanto il pubblico ministero non ha accertato presso i diversi ristoranti l'identità dei commensali ospiti di (...), non esisterebbe neppure una prova indiretta dell'estraneità di quelle spese ai fini di rappresentanza per i quali l'uso della carta di credito era stato concesso dall'azienda. A tal fine, di non univoca valenza dimostrativa dovevano considerarsi gli ulteriori elementi valorizzati nella pronuncia d'appello (il fatto che nel periodo considerato le spese sostenute dal direttore del (...) erano state pari a 6.000 Euro, contro i 65.000 addebitati da (...) sulla carta aziendale, ai quali dovevano aggiungersi 18.000 Euro di cui il ricorrente aveva chiesto il rimborso per spese effettuate con la propria carta di credito; l'utilizzo quasi quotidiano - anche in giorni festivi e in periodi di ferie - della carta aziendale per pasti consumati nella maggior parte dei casi da due persone), sicché la colpevolezza del ricorrente non era stata accertata, né sotto il profilo soggettivo né sotto quello oggettivo, al di là di ogni ragionevole dubbio.

Trattandosi di una sentenza di condanna pronunciata in sede di appello in riforma di quella di assoluzione di primo grado sulla base del medesimo materiale probatorio, la motivazione del provvedimento impugnato non avrebbe pertanto assolto l'onere di dimostrare con rigorosa analisi critica l'incompletezza o l'incoerenza della prima pronuncia, sia con riferimento alle prove dichiarative che a quelle documentali, lasciando così ingiustificata la riforma. In particolare, la decisione del Tribunale aveva attribuito alla carta aziendale la natura di "benefit compensativo" (di carattere sostanzialmente retributivo), mentre la Corte d'Appello, sulla base delle medesime testimonianze, ha ritenuto accertata la natura di strumento volto a facilitare la gestione amministrativa delle spese di rappresentanza, evitando al titolare l'onere di anticiparne il pagamento e all'azienda quello di curarne il successivo rimborso. Diverse sarebbero state anche le conclusioni tratte da numerose testimonianze (in particolare da quella del dott. (...), direttore generale pro tempore della (...), che secondo il Tribunale avrebbero avvalorato l'insorgenza di un equivoco amministrativo, originato e risolto in ambito aziendale, mentre a giudizio della Corte d'Appello avrebbe smentito la natura della carta come un benefit privo di limitazioni (diverse dal massimale mensile di spesa consentito dalla banca) e dimostrato la consapevolezza del ricorrente circa l'indebito utilizzo da lui fatto della carta per spese personali.

Con tale operazione ermeneutica, avente ad oggetto il medesimo materiale probatorio raccolto ed esaminato dal primo giudice, la Corte d'Appello avrebbe violato il diritto all'equo processo quale definito dalla giurisprudenza della Corte E.D.U., che integra il parametro costituzionale espresso dall'art. 117, comma 1, Cost. nella parte in cui impone la conformazione della legislazione interna ai vincoli derivanti dagli obblighi internazionali. La Corte territoriale avrebbe infatti proceduto ad una riforma in peius della sentenza di assoluzione in primo grado sulla base di una rivalutazione di testimonianze assunte dinanzi al Tribunale senza procedere alla nuova audizione dei testimoni, essendo il giudice d'appello tenuto a procedere anche d'ufficio a tale incombente in assenza di specifica richiesta di parte (ex multis, CEDU, 4.6.2013, Hani contro Romania).

2.2. Violazione di legge penale o di altre norme giuridiche rilevanti in relazione agli artt. 358 c.p. e 49 D.Lgs. n. 177/2005, per avere la Corte territoriale condannato il ricorrente per il delitto di peculato sul presupposto erroneo che la "sia un ente pubblico, allorché secondo la più recente giurisprudenza delle SU di questa Corte la anche se fortemente caratterizzata da peculiari aspetti e tuttora in mano pubblica, resta pur sempre una società per azioni, tanto più a seguito della L. n. 112 del 2004 e del T.U. n. 177 del 2005.

2.3. Vizi di motivazione in relazione agli artt. 597, comma 5, c.p.p., 62 nn. 4) e 6) e 323 bis c.p., per avere la Corte territoriale omesso di esercitare il potere officioso a lei spettante ai fini dell'applicazione di circostanze attenuanti, tanto più in un caso, come quello in esame, nel quale una siffatta richiesta non aveva potuto essere presentata con l'atto d'appello, tenuto conto che il Tribunale aveva assolto l'imputato e il giudizio di secondo grado era stato promosso dalle impugnazioni proposte dal p.m. e dalla parte civile. Concedibili sarebbero state in particolare le attenuanti del danno economico di speciale tenuità, in ragione del modestissimo valore delle singole appropriazioni e dell'inconsistenza del danno complessivo ove posto in relazione alla capacità economica della parte offesa "e quella speciale di cui all'art. 323 bis c.p., che con la prima può concorrere riferendosi al fatto di reato nella sua globalità (condotta, elemento psicologico e evento), nonché, infine, quella della riparazione del danno prima del giudizio, (...) ha infatti proceduto alla restituzione delle somme contestate, sia attraverso trattenute sulla busta paga che con successivi tre assegni, ed ha sempre tenuto nei confronti dell'azienda un atteggiamento collaborativo e disponibile al confronto, finalizzato ad approdare ad una corretta ricostruzione delle spese da lui sostenute, nell'interesse proprio e della (...).

 

Considerato in diritto

 

1. Il ricorso è infondato.

1.1. Infondate sono le censure proposte col primo motivo di ricorso. Il Collegio osserva che la giurisprudenza di questa Corte ha più volte chiarito che per riformare "in peius" una sentenza assolutoria, il giudice di appello è obbligato - in base all’art. 6 CEDU, così come interpretato dalla sentenza della Corte Europea dei diritti dell'uomo nel caso Dan c/Moldavia - alla rinnovazione dell'istruzione dibattimentale solo quando intende operare un diverso apprezzamento dell'attendibilità intrinseca della prova orale, ritenuta in primo grado non attendibile (ex multis, Sez. 6, n. 16566 del 26.2.2013, Caboni e altro, Rv. 254623; Sez. 6, n. 8654 dell'11.2.2014, Costa, Rv. 259107; Sez. 5, n. 14040 del 22.1.2014, Dolente, Rv. 260400; Sez. 3, Sentenza n. 45453 del 18/09/2014, Rv. 260867). Non sussiste dunque la necessità di rinnovare il dibattimento in appello per procedere ad una nuova escussione dei testimoni sentiti in primo grado quando, come nel caso di specie, la Corte territoriale pervenga alla riforma della sentenza di assoluzione e all'affermazione della penale responsabilità dell'imputato sulla base delle stesse deposizioni assunte dal primo giudice e senza effettuarne una diversa valutazione di attendibilità - conformemente riconosciuta da entrambe le sentenze - limitandosi ad una loro rilettura in senso idoneo a fornire l'unica ricostruzione possibile dei fatti alla stregua del complesso delle prove dichiarative e documentali raccolte.

La sentenza impugnata rispetta inoltre, contrariamente agli assunti del ricorrente, i parametri valutativi e motivazionali richiesti alla decisione d'appello che, in mancanza di elementi probatori sopravvenuti, ribalti quella assolutoria di primo grado.

La sentenza delinea infatti, per quanto si verrà esponendo, le linee portanti del proprio, alternativo, ragionamento probatorio e confuta specificamente i più rilevanti argomenti della motivazione della prima sentenza, dando conto delle ragioni della relativa incompletezza o incoerenza, tali da giustificare la riforma del provvedimento impugnato (SU, n. 33748 del 12/07/2005, Mannino, Rv. 231679).

Ciò vale in primo luogo per la valutazione che la Corte territoriale riserva alle dichiarazioni rese nel corso del procedimento dallo stesso ricorrente, alla testimonianza (...) e alla nota scritta da questi indirizzata al (...) il 19.3.2011 - le quali vengono tutte congruamente e logicamente apprezzate alla stregua del loro effettivo tenore e delle ulteriori emergenze probatorie di carattere documentale e dichiarativo che ne costituiscono riscontro - in ordine alla natura e alle finalità dell'attribuzione al ricorrente di una carta di credito aziendale. E' infatti evidente che l'espresso e puntuale nesso inizialmente stabilito dal ricorrente - nel corso dell'interrogatorio reso nella fase delle indagini preliminari e ritualmente acquisito in dibattimento in quanto utilizzato per le contestazioni - tra l'attribuzione in suo favore della carta dì credito aziendale e la cessazione da parte sua della collaborazione con (...) (dovendo la prima, a dire dello stesso (...), compensare la seconda, ritenuta dal ricorrente una "condizione che mi era stata imposta e che io consideravo un'ingiustizia"), non può avere significato diverso da quello logicamente ricavato dalla Corte territoriale: l'avere cioè in un primo tempo il ricorrente configurato il rilascio della carta di credito aziendale come un beneficio compensativo di carattere sostanzialmente retributivo, come tale svincolato da effettivi oneri di rendicontazione e soggetto ai soli limiti mensili di importo previsti dall'istituto bancario emittente.

Il provvedimento impugnato confuta in modo del tutto convincente tale assunto, al quale il Tribunale aveva assegnato un ruolo centrale nel giustificare la ritenuta assenza di dolo in capo al (...) (convinto, secondo il giudice di primo grado, di poter utilizzare la carta di credito come compenso aggiuntivo pari a 62.400 Euro annui, ritenuto dal percettore importo adeguato alla prestigiosa funzione svolta e proporzionale allo stipendio annuale di 578.000 Euro che gli veniva corrisposto). Persuasiva e concludente è infatti la disamina che la Corte territoriale riserva all'individuazione dell'ammontare e della natura dei compensi previsti dal contratto di lavoro del (...) (p. 8 e s.), anche alla luce delle dichiarazioni rese dal Direttore Generale (...) (e dai testi (...), (...) e (...) nel corso del suo esame dibattimentale e alle spiegazioni da questi fornite circa i presupposti fattuali e il tenore della lettera da lui inviata al ricorrente in data 19.3.2011 (p. 11). In altre parole, la circostanza che il ricorrente abbia inizialmente posto la concessione della carta di credito aziendale in relazione alla cessazione della sua collaborazione con (...) ed abbia parlato di "compensazione" e di "benefit compensativo" non può essere ritenuto semplicemente, come preteso in ricorso, quale uso di una terminologia impropria, ma si sostanzia in una vera e propria ricostruzione alternativa del fatto, proposta dal ricorrente e successivamente fallita, implicante un uso della carta di credito aziendale libero nei fini e sottratto ai controlli previsti per le spese di rappresentanza.

La sentenza d'appello dimostra in modo ineccepibile la falsità di tale ricostruzione. Ricompone a tal fine le disposizioni dettate dalle circolari aziendali (l'ultima delle quali risalente al 2010, quindi successiva al periodo oggetto delle deposizioni (...) E (...) che, per le spese di rappresentanza - regolarmente documentate - sostenute dai direttori di testata giornalistica, imponevano a questi ultimi, alternativamente, l'indicazione delle ragioni della spesa e dei relativi beneficiari, ovvero - nel caso in cui il direttore di testata intendesse mantenere riservato il nome del beneficiario - l'approvazione del Direttore Generale (p. 9).

Rileva quindi la sistematica violazione da parte del ricorrente di tali regole aziendali - a lui formalmente comunicate e quindi a lui ben note - mediante l'utilizzo pressoché quotidiano (anche in giorni festivi e durante periodi di vacanza) della carta di credito per la consumazione di pasti (nella maggior parte dei casi per due persone), senza mai documentare le ragioni di rappresentanza, senza mai indicare i beneficiari della spesa e, soprattutto, senza mai richiedere l'approvazione del Direttore Generale prevista per i casi di particolari esigenze di riservatezza.

Indica quindi ulteriori elementi di fatto - tra questi la lampante sproporzione degli oltre 65.000 Euro spesi dal (...) in lussuosi ristoranti, ai quali dovevano essere aggiunti ulteriori 18.000 Euro dei quali lo stesso ricorrente aveva chiesto il rimborso perché da lui anticipati con la propria carta dì credito, rispetto ai 6.000 Euro impegnati nello stesso periodo dal Direttore del (...) che pone a logico e concludente completamento del ragionamento probatorio fin qui descritto per affermare l'estraneità di tali spese rispetto a finalità di rappresentanza solo labialmente e implausibilmente affermate dal ricorrente (p. 9 e s.; p. 11). A tale riguardo, la sentenza in esame si sottrae alle censure del ricorrente anche quando valorizza l'inverosimile e capziosa affermazione dello stesso (...), secondo la quale, trattandosi di spese numerosissime, egli ben poteva non ricordare per ciascuna di esse i nomi dei propri commensali. Tale censura non si confronta infatti con la sentenza impugnata, la quale attribuisce correttamente valore indiziario al fatto che il ricorrente non fosse in grado di ricordare (non già tutti, bensì) nessuno dei commensali che erano stati suoi ospiti solo pochi mesi prima, finanche in occasioni particolari e in qualche modo memorabili, come quella del suo compleanno.

La Corte d'appello affronta in maniera logica e convincente anche il tema del presunto equivoco - derivante dal carattere di novità dell'attribuzione di carte di credito ai dirigenti " e da una supposta mancanza di chiarezza delle relative regole aziendali - che avrebbe indotto il ricorrente a ritenere in buona fede che si trattasse di "un benefit privo di limitazioni se non quelle del plafond dell'istituto emittente" (così, testualmente, si esprime il Direttore Generale (...) nella lettera al (...) del 19.3.2011). Infatti, a prescindere dalla considerazione che un tale equivoco sembra essere escluso dallo stesso ricorrente, il quale nega in questa sede - come si è visto - di aver mai considerato la concessione della carta di credito aziendale come un benefit di carattere retributivo, la Corte giustifica ampiamente la preminenza attribuita a tale riguardo, anche in riferimento al diverso percorso argomentativo della decisione di primo grado, alle precisazioni rese dal Direttore Generale (...) in dibattimento, secondo le quali quella lettera rappresentava una "conclusione allo stato", non essendo a quel momento ancora emersi particolari profili di violazione delle regole aziendali, ma solo alcune mancate giustificazioni relative a un breve periodo (21 giorni, nei quali erano state rilevate spese non giustificate per complessivi 2.000-3.000 Euro, riguardanti tutti pasti consumati in Roma) preso a campione sull'intero periodo (dal luglio 2009 al novembre 2010) in relazione al quale erano successivamente emerse le spese ingiustificate per oltre 65.000 Euro oggetto di contestazione (p. 11; p. 13; p. 18; anche in relazione alle conformi dichiarazioni rese dai testi (...) e (...).

Sicché, in conclusione, la sentenza impugnata procede ad un esplicito e puntuale confronto con la motivazione della decisione di assoluzione e argomenta in modo persuasivo circa la configurabilità del diverso apprezzamento come l’unico ricostruibile al di là di ogni ragionevole dubbio (una sintesi di tali ragioni a p. 19 e s.), in ragione di evidenti vizi logici o inadeguatezze probatorie che hanno minato la permanente sostenibilità del primo giudizio (Sez. 6, n. 8705 del 24/01/2013, Farre e altro, Rv. 254113; Sez. 6, n. 46847 del 10/07/2012, Aimone e altri, Rv. 253718; Sez. 6, n. 1266 del 10/10/2012, Andrini, Rv. 254024; Sez. 2, n. 11883 del 08/11/2012, Berlingeri, Rv. 254725; Sez. 1, n. 12273 del 05/12/2013, Ciaramella e altro, Rv. 262261).

1.2. Infondato è anche il secondo motivo di ricorso. L’art. 358 cod. proc. pen. definisce l’incaricato di un pubblico servizio come colui che, a qualunque titolo, presta un servizio pubblico, a prescindere da qualsiasi rapporto d’impiego con un determinato ente pubblico.

Il legislatore del 1990 (L. 26 agosto 1990, n. 86, art. 18), nel delineare la nozione di incaricato di pubblico servizio, ha privilegiato il criterio oggettivo-funzionale, utilizzando la locuzione "a qualunque titolo" ed eliminando ogni riferimento, contenuto invece nel vecchio testo dell’art. 358 c.p.p., al rapporto d’impiego con lo Stato o altro ente pubblico. Non si richiede, quindi, che l’attività svolta sia direttamente imputabile a un soggetto pubblico, essendo sufficiente che il servizio, anche se concretamente attuato attraverso organismi privati, realizzi finalità pubbliche.

Il capoverso dell’art. 358 c.p.p. esplicita il concetto di servizio pubblico, ritenendolo formalmente omologo alla funzione pubblica di cui al precedente art. 357, ma caratterizzato dalla mancanza dei poteri tipici di quest'ultima (poteri deliberativi, autoritativi o certificativi). Il parametro di delimitazione esterna del pubblico servizio è dunque identico a quello della pubblica funzione ed è costituito da una regolamentazione di natura pubblicistica, che vincola l'operatività dell'agente o ne disciplina la discrezionalità in coerenza con il principio di legalità, con esclusione in ogni caso dall'area pubblicistica delle mansioni di ordine e della prestazione di opera meramente materiale (tra tante, Sez. 6, n. 39359 del 7.3.2012, Ferrazzoli, Rv. 254337). Alla luce dei principi esposti, deve ritenersi, avallando sostanzialmente il discorso giustificativo della sentenza in verifica, che il Direttore di un Telegiornale (...) rivesta la qualità di incaricato di pubblico servizio, a prescindere dalla natura privata di tale società, in considerazione della indubbia connotazione pubblicistica dell'attività di informazione radio- televisiva svolta dalla (...).

Tale attività si caratterizza infatti per la diretta inerenza al preminente interesse generale ad una informazione corretta e pluralista, concretandosi in un servizio offerto alla generalità dei cittadini da un soggetto - la (...) S.p.a. - che nonostante la veste di società per azioni, peraltro partecipata totalitariamente da enti pubblici, è: designato dalla legge quale concessionaria dell'essenziale servizio pubblico radio-televisivo; sottoposta a vigilanza da parte di apposita commissione parlamentare; destinataria di un canone avente natura di imposta, destinato precipuamente, tra l'altro, alla copertura dei costi dell'attività propria al suddetto servizio pubblico di informazione radio-televisiva (SU, ord. n. 27092 del 22.12.2009, Rv. 610699).

Sicché l'attività in concreto svolta dal ricorrente, di carattere intellettivo e non meramente esecutivo o d'ordine, pur senza i poteri autoritativi e certificativi propri della pubblica funzione, attiene a bisogni di pubblico interesse non aventi carattere industriale o commerciale, il cui soddisfacimento è perseguito istituzionalmente con capitali pubblici e secondo modalità e forme determinate da regolamentazione di natura pubblicistica, rientrando così nell'alveo della prestazione di pubblico servizio, quale definita all'art. 358 cod. pen.

1.3. Deve infine ritenersi infondato anche il terzo motivo di ricorso, poiché non ricorrono le condizioni di legge per la concessione al ricorrente delle attenuanti da lui invocate.

Il Collegio osserva a tale riguardo che la circostanza attenuante di cui all'art. 62 c.p., n. 4, ricorre solo quando il danno patrimoniale subito dalla parte offesa come conseguenza diretta e immediata del reato sia di valore economico pressoché irrilevante (da ultimo, Sez. 6, n. 14040 del 29/01/2015, Rv. 262975; Sez. 2, n. 15576 del 20/12/2012, Rv. 255791).

Pur ribadendosi il principio, più volte affermato in questa Sede, secondo cui, ai fini dell'applicazione dell'attenuante in esame, la valutazione della speciale tenuità, nel caso di reato continuato, va effettuata non in relazione all'importo complessivo delle somme contestate, ma con riguardo al danno patrimoniale cagionato per ogni singolo fatto-reato (Sez. 6, n. 14040 del 29/01/2015, Rv. 262975; Sez. 6, n. 30154 del 12/06/2007, Rv. 237329; Sez. 3, n. 11035 del 21/10/1993, Rv. 195943), dal tenore della sentenza impugnata è dato desumere che le singole spese di cui si tratta attengono alla consumazione di pasti per più persone in ristoranti di lusso e con scelte di vini e cibi dal prezzo manifestamente eccessivo (p. 10), sicché deve escludersi che il danno patrimoniale subito dalla persona offesa come conseguenza immediata e diretta delle singole condotte possa ritenersi pressoché irrilevante. Ad analoga conclusione si perviene del resto sulla base dell'assunto esplicitato in ricorso, secondo cui ciascun pasto avrebbe comportato una spesa pari a 100-150 Euro.

Analoghe considerazioni s'impongono, altresì, in merito alla prospettata configurabilità dell'attenuante di cui all'art. 323 bis c.p., dovendosi al riguardo considerare gli aspetti legati, per un verso, alla assai significativa entità delle appropriazioni di denaro riconducibile alla sfera pubblica, complessivamente eccedenti i 65.000 Euro, e, per altro verso, alla ritenuta gravità intrinseca dei fatti, connotati secondo la Corte territoriale dalla piena consapevolezza da parte del ricorrente dei reiterati abusi da lui commessi nel suo ruolo apicale. Va pertanto esclusa la sussistenza dei presupposti di cui all'art. 323 bis c.p., che richiedono che il reato, valutato nella sua globalità, presenti una gravità di contenuto rilievo (Sez. 6, n. 14825 del 26/02/2014, Rv. 259501).

Il Collegio osserva infine che per l'applicabilità della circostanza attenuante della riparazione del danno contemplata (anche in forma restitutoria) dall'art. 62 n. 6 cod. pen. è indispensabile che la riparazione stessa, oltre che volontaria ed integrale, sia anche effettiva.

Ne consegue, in primo luogo, che il risarcimento deve essere effetto di una libera determinazione e non conseguenza inevitabile di fattori estranei alla volontà dell'autore del reato (Sez. 2, n. 8083 del 30.05.1973, Rv. 125469). La somma di danaro corrisposta dall'imputato deve poi riguardare sia il danno patrimoniale - comprensivo di capitale ed eventuali accessori - che quello non patrimoniale (Sez. 2, n. 9143 del 24/01/2013, Rv. 254880; Sez. 3, n. 26710 del 05/03/2015, Rv. 264023) e deve essere data, o almeno offerta, alla parte lesa in modo da consentire alla medesima di conseguirne la disponibilità concretamente e senza condizioni di sorta (Sez. 1, n. 2837 del 13/12/1995, Rv. 204094).

Nel caso di specie, nessuno di questi presupposti viene convalidato dalla sentenza impugnata, la quale riferisce: a) di una sostanziale messa in mora del debitore da parte della (...) che annunciò il recupero delle indebite spese e provvide autonomamente a trattenere parte di quegli importi attraverso ritenute sulla busta paga; b) dell'avvenuta restituzione, soggetta a condizione di ulteriore verifica, del solo danno patrimoniale in linea capitale; c) della successiva richiesta avanzata dal ricorrente al giudice del lavoro per ottenere il recupero di tutte le somme da lui corrisposte a fronte dell'indebito uso della carta di credito aziendale per spese personali.

Al rigetto del ricorso consegue, ai sensi dell'art. 616 c.p.p., la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali, nonché quella alla rifusione delle spese sostenute dalla parte civile per la perdurante partecipazione al giudizio, liquidate come in dispositivo.

 

P.Q.M.

 

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali, nonché alla rifusione delle spese sostenute nel grado dalla parte civile (...) S.p.a., che liquida in Euro 2.100,00, oltre spese generali, I.V.A. e C.P.A.