Giurisprudenza - CORTE DI CASSAZIONE - Sentenza 16 febbraio 2016, n. 6336

Fallimento ed altre procedure concorsuali - Bancarotta fraudolenta patrimoniale - Distrazione di beni acquisiti dal fallito a seguito di attività illecite - Sussiste

 

Ritenuto in fatto

 

1. Il 06/03/2014, la Corte di appello di Firenze riformava parzialmente la sentenza emessa dal Tribunale di Arezzo, in data 24/11/2011, nei confronti di C.C. e S.F., ritenuti responsabili di reati di bancarotta fraudolenta patrimoniale in relazione al fallimento della D.G. s.r.l., dichiarato il 28/05/2002.

Della società anzidetta, operante nel settore dei preziosi, il C. era stato amministratore fino al settembre 2000, mentre il F. gli era subentrato fino al maggio 2001; secondo l'ipotesi accusatoria, le distrazioni di beni che avevano cagionato il depauperamento della fallita avevano riguardato somme portate da assegni emessi da altra società (la S.D. s.r.l.) a fronte di operazioni commerciali realizzate negli anni in cui la gestione della D.G. aveva fatto capo all'uno od all'altro degli imputati. La Corte territoriale - che riformava la sentenza di primo grado esclusivamente in ordine al trattamento sanzionatorio - disattendeva la tesi difensiva prospettata nei motivi di gravame, secondo cui quegli assegni sarebbero stati emessi in relazione ad operazioni inesistenti, «quindi in assenza di un credito sottostante, con conseguente mancato depauperamento patrimoniale della società e mancata integrazione della condotta distrattiva»: anche se la stessa polizia giudiziaria aveva concretamente avallato l'assunto che i titoli in questione fossero attinenti a rapporti commerciali fittizi, e quindi provento di condotte illecite, i giudici fiorentini osservavano che si trattava «comunque di titoli e di corrispondente denaro già entrati a far parte del patrimonio della fallita nel momento in cui venivano acquisiti dalla stessa mediante la presa in consegna da parte dell'organo di gestione della società e l'apposizione della firma di girata da parte dello stesso, in rappresentanza della società». La Corte di appello richiamava, a riguardo, precedenti giurisprudenziali di legittimità secondo cui la bancarotta fraudolenta può configurarsi anche nel caso di distrazione di beni acquisiti dal fallito a seguito di attività illecite.

Sul piano della riferibilità dei reati in rubrica ai due imputati, la Corte territoriale indicava essersi raggiunta la prova che «sia il C. che il F. si recavano presso l'Agenzia della banca Toscana unitamente a F.A., amministratore delegato di S.D., od al figlio di questi, ove, in qualità di amministratori della D.G., prendevano in consegna gli assegni e vi apponevano la firma di girata ai fini della monetizzazione dei titoli, senza tuttavia procedere al versamento delle somme corrispondenti nelle casse della fallita, effettiva titolare delle somme in questione, bensì consentendo una destinazione diversa delle stesse, in favore di terzi estranei alla società da loro rappresentata».

2. Propone ricorso per cassazione il C., con atto da lui personalmente sottoscritto; il ricorrente propone tre motivi di doglianza.

2.1 Con il primo, l'imputato deduce inosservanza ed erronea applicazione degli artt. 216 e 223 legge fall., nonché vizi della motivazione, in ordine alla ritenuta sussistenza dell'elemento materiale del reato di bancarotta. Ribadito che la distrazione riguarderebbe le somme portate da alcuni assegni emessi dalla S.D. s.r.l. in favore della società fallita, il C. rappresenta che - secondo gli inquirenti - le relative somme non sarebbero neppure transitate sui conti della D.G., visto che i titoli furono incassati per contanti e il denaro sarebbe stato contestualmente restituito all'apparente emittente; a quel punto, però, accertato che gli assegni de quibus erano attinenti ad operazioni inesistenti, sarebbe stato necessario rilevare che i beni di provenienza illecita comunque acquisiti dall'imprenditore non possono costituire oggetto di bancarotta per distrazione, perché mai entrati nel patrimonio del fallito.

Ad avviso del ricorrente, la giurisprudenza richiamata dalla Corte di appello (relativa alla possibilità di ritenere distratti beni che siano compendio di una pregressa truffa) non sarebbe pertinente: anche perché, in quella casistica, il contratto presupposto dell'acquisizione dei beni al patrimonio del fallito deve intendersi annullabile per vizio del consenso, mentre qui risulterebbe radicalmente nullo, senza mai alcun ingresso di denaro nella massa attiva. E, qualora si ammettesse detto ingresso, i denari derivanti da quel cambio di assegni non avrebbero mai potuto confondersi, né giuridicamente né materialmente, con il patrimonio della fallita.

Inoltre, non vi è prova che le somme medesime fossero davvero destinate ad entrare nel patrimonio sociale, stante l'assenza di scritture contabili di raffronto, che rende impossibile operare una compensazione tra i crediti eventualmente indicati nelle presupposte fatture rispetto alle somme in ipotesi pagate attraverso i titoli di credito in parola. La tesi difensiva è che «l'esistenza di un assegno non può [...] esimere il giudicante dall'accertare la sussistenza del rapporto sottostante: se l'emissione di un assegno bancario crea in sede civilistica una presunzione iuris tantum (peraltro superabile da prova contraria) dell'esistenza e della liceità del negozio causale sottostante, tale regola non può trovare lo stesso ambito di operatività nel giudizio penale».

2.2 Con il secondo motivo di doglianza, il C. lamenta mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione della sentenza impugnata nella parte relativa alla valutazione della testimonianza del M.llo L.T.. Il sottufficiale, infatti, aveva rappresentato di avere esaminato i conti della D.G. s.r.l., ma non quelli della S.D., il che aveva portato necessariamente ad accertamenti approssimativi: tanto più che, per stessa ammissione del teste, non tutte le operazioni di versamento di denaro sui conti societari erano state prese in considerazione, laddove ad esempio ritenute

movimentazioni "piccole", come pure non erano state verificate le operazioni avvenute su un conto corrente postale della D.G. (malgrado ve ne fossero state di significative, ad esempio un prelievo di 17 milioni di lire poi confluiti nelle casse sociali). Non era, perciò, possibile escludere - come invece sostenuto dagli inquirenti e condiviso dai giudici di merito - che le somme portate dagli assegni fossero comunque confluite, in tempi successivi e frazionatamente, nella effettiva disponibilità della fallita: assunto che la difesa dell'imputato, nei motivi di appello, aveva anzi compiutamente documentato.

2.3 Analoghi vizi motivazionali si riscontrano, ad avviso del ricorrente, in ordine all'entità della somma liquidata alla parte civile a titolo di risarcimento del danno: a dispetto di un tenore letterale della rubrica, secondo cui le distrazioni riferibili al C. ammonterebbero a poco più di 65 milioni di lire (corrispondenti a circa 33.600,00 euro), il danno da risarcire appare quantificato in oltre 80.000,00 euro.

3. Anche il F. propone personalmente ricorso per cassazione, che affida ad un solo motivo (coincidente con il primo dei profili di doglianza avanzati dal coimputato). Ribadendo le medesime tesi esposte dal C., il F. segnala che non può essere condivisa tout court l'interpretazione suggerita dalla Corte territoriale, secondo cui anche un bene illecitamente acquisito può essere oggetto di distrazione: ad avviso del ricorrente, «è indispensabile esaminare la tipologia di reato da cui proviene il bene illecito. Infatti, se tale reato rientra tra quelli a collaborazione della vittima, quale il reato di truffa contrattuale o di appropriazione indebita, il contratto stipulato è annullabile per dolo, e il bene trasferito in forza di tale contratto entra nel patrimonio del fallito [...]. Viceversa, quando il reato non preveda la cooperazione della vittima, come quello di furto o rapina, il titolo di acquisto è radicalmente nullo o inesistente, per cui questo bene è detenuto sine titulo con conseguente diritto alla restituzione da parte del proprietario: il bene, quindi, è individuato e separato rispetto agli altri, non confluendo nel patrimonio societario, e la cessione dello stesso non determina alcuna offesa al bene giuridico tutelato, cioè le garanzie a favore della massa creditoria».

 

Considerato in diritto

 

1. I ricorsi non possono trovare accoglimento.

1.1 Nella giurisprudenza di questa Corte si rinvengono precedenti apparentemente in linea con la tesi dei ricorrenti, essendosi tra l'altro affermato che «in materia di bancarotta fraudolenta, nella nozione di beni appartenenti al fallito rientrano le cose oggetto del diritto di proprietà, dei diritti "immateriali", i crediti, ma non quei beni che non siano mai entrati nel di lui patrimonio. Non sono beni dell'imprenditore quelli che sono nella sua limitata disponibilità, per averli egli ricevuti a titolo diverso dalla traslatio dominii (locazione, comodato, deposito) e che, quindi, non sono mai usciti dal patrimonio del dominus. Di conseguenza, non è condotta sanzionabile come bancarotta fraudolenta l'atto di disposizione di beni mai entrati nel patrimonio dell'imprenditore, perché a lui pervenuti attraverso un negozio giuridico affetto da anomalia genetica, non idoneo, quindi, al trasferimento della proprietà» (Cass., Sez. V, n. 5423 del 13/01/1997, Panzironi, Rv 207779: la fattispecie di cui alla pronuncia appena richiamata si riferiva alla compravendita di un bene immobile, stipulata con atto notarile sottoscritto dalle parti, ma non trascritto né registrato né inserito a repertorio per la mancata allegazione del certificato di destinazione urbanistica - requisito essenziale prescritto per la validità dell'atto, a norma dell'art. 18 della Legge n. 47 del 1985 - e pertanto ritenuta negozio ab origine nullo se non inesistente, come tale inidoneo a determinare il trasferimento del bene dall'alienante all'acquirente).

Il principio di diritto appena ricordato, tuttavia, deve essere letto in relazione al decisivo profilo della ravvisabilità di un effettivo ingresso del bene nel patrimonio dell'imprenditore, al di là della sussistenza o meno di un valido rapporto negoziale quale presupposto dell'acquisizione della disponibilità del bene stesso; tant'è che - più di recente - si è precisato che «poiché nella nozione di beni appartenenti al fallito rientrano solo le cose che abbiano fatto ingresso nel patrimonio di quest'ultimo, non possono essere oggetto delle condotte di bancarotta fraudolenta patrimoniale i beni sui quali il fallito ha un possesso solo precario e il proprietario vanta un diritto alla restituzione, come nel caso di beni ricevuti in locazione, deposito o comodato» (Cass., Sez. V, n. 13556 del 27/02/2015, Arlati, Rv 262899). Altro, e ben distinto, problema, è invece quello della liceità o meno di tale ingresso, che non rileva, e dove non possono assumere valenza dirimente le pretese distinzioni fra schemi contrattuali, tratteggiate nei ricorsi dei due imputati: infatti, «il reato di bancarotta fraudolenta non è escluso dal fatto che i beni oggetto della condotta siano di provenienza illecita» (Cass., Sez. V, n. 44159 del 20/11/2008, Bausone, Rv 241692). Ciò in quanto deve aversi riguardo alla consistenza obiettiva del patrimonio, comunque formatasi: e ne deriva che anche un bene provento di delitto può costituire un cespite sul quale soddisfare le ragioni dei creditori.

Ergo, «il delitto di bancarotta fraudolenta può concorrere con quello di truffa, sia perché il bene giuridico protetto dalle rispettive norme incriminatrici è diverso, sia perché l'iter criminis della seconda si esaurisce con l'acquisizione di beni mediante mezzi fraudolenti. Pertanto il fatto dell'imprenditore truffaldino, che sottragga successivamente alla garanzia patrimoniale le entità economiche illecitamente acquisite al suo patrimonio, costituisce un'azione distinta ed autonoma, punita a titolo di bancarotta fraudolenta, se viene dichiarato il fallimento» (Cass., Sez. VI, n. 6791 del 10/04/2000, Salerno, Rv 216712; nello stesso senso, v. Cass., Sez. V, n. 8373 del 27/09/2013, Mancinelii, Rv 259041, secondo cui «in tema di reati fallimentari, la provenienza illecita dei beni non esclude il reato di bancarotta fraudolenta patrimoniale, giacché per beni del fallito ex art. 216 legge fall., si intendono tutti quelli che fanno parte della sfera di disponibilità del patrimonio, indipendentemente dalla proprietà e dal modo del loro acquisto, e, quindi, vi rientrano anche i beni ottenuti con sistemi illeciti quali la truffa, in quanto I'iter criminoso di quest'ultima si esaurisce con l'acquisizione dei beni al patrimonio dell'imprenditore decotto, mentre la sottrazione bancarottiera degli stessi beni a quest'ultimo è successiva e si ricollega ad una nuova ed autonoma azione, con la conseguenza che i due reati possono concorrere»). Ma gli stessi principi valgono anche nel caso in cui il soggetto abbia acquisito la disponibilità di un bene, e su questo si comporti uti dominus, a seguito di furto, costituendo principio generale che «qualora il bene avocato al fallimento, e poi distratto, provenga da un'azione delittuosa dell'imprenditore fallito, si ha concorso tra il reato comune (furto, truffa, appropriazione indebita) che ha fatto procacciare il bene, ed il reato fallimentare» (Cass., Sez. V, n. 1401 del 25/11/1980, Turrini, Rv 147724); e, ancora, l'affermazione va ribadita per i frutti di un'attività di contrabbando, che «entrano a far parte del patrimonio del fallito e diventano cespiti sui quali i creditori possono pretendere di soddisfare le loro ragioni, con la conseguenza che le eventuali sottrazioni operate su di essi configurano, in caso di dichiarazione di fallimento dell'imprenditore, il reato di bancarotta per distrazione» (Cass., Sez. IlI, n. 3852 del 28/02/1992, Duval, Rv 189802).

1.2 In ogni caso, non va a fortiori trascurato che nella fattispecie concreta si discute dell'acquisizione della disponibilità di somme di denaro, corrispondenti agli importi di assegni emessi da altra società in favore della D.G. s.r.l.: al di là della possibilità o meno di ricostruire effettivi rapporti commerciali come presupposto delle obbligazioni cartolari, il fatto stesso dell'esistenza dei titoli ne rendeva fisiologico l'incasso da parte di chi vi risultava legittimato (ovvero, i legali rappresentanti pro-tempore della società poi fallita), e doveroso il versamento delle somme corrispondenti a beneficio della stessa D.G.. Al contrario, il cambio di quegli assegni per contanti, con la contestuale restituzione del denaro agli emittenti o comunque la sua destinazione a soggetti diversi dal beneficiario dei titoli, comportò innegabilmente una condotta distrattiva. Le osservazioni del C. a proposito della possibilità di rinvenire in epoca posteriore alcuni versamenti in contanti nelle casse della fallita, da ricondurre a quelle operazioni, investono profili di merito inammissibili in sede di giudizio di legittimità; e, soprattutto, non tengono conto della circostanza - espressamente evidenziata nella motivazione della sentenza impugnata - che «gli assegni non venivano solo monetizzati dal C. e dal F., bensì le somme ad essi relative venivano contestualmente versate nel conto bancario intestato alla S., e quindi entravano immediatamente a fare parte del patrimonio del terzo, senza possibilità per gli imputati di provvedere ad un successivo versamento del contante nelle casse sociali». La polizia giudiziaria, infatti, aveva acquisito non solo i titoli in questione, recanti le firme di girata dei due imputati in relazione ai periodi nei quali erano stati amministratori della D.G. s.r.l., ma anche le distinte di versamento sul conto corrente bancario intestato alla S.D., acceso presso lo stesso istituto dove gli assegni erano stati cambiati per contanti.

1.3 In ordine all'entità del risarcimento del danno per cui è intervenuta condanna a carico del C., va considerato - oltre al rilievo della eventuale riferibilità dell'importo anche alla componente non patrimoniale - che è la stessa tesi difensiva ad assumere che la generalità degli assegni indicati nel capo d'imputazione sarebbe afferente ad operazioni giammai esistite, adducendo che nulla risulta accertato quanto ai reali rapporti commerciali intercorsi fra le due società.

2. Il rigetto dei ricorsi comporta la condanna di entrambi gli imputati al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità.

 

P.Q.M.

 

Rigetta i ricorsi, e condanna ciascun ricorrente al pagamento delle spese processuali.