Giurisprudenza - CORTE DI CASSAZIONE - Ordinanza 05 febbraio 2016, n. 2366

Rapporto di lavoro - Attività esclusivamente attinente alla sfera privata del lavoratore - Escluso il collegamento all’esercizio diligente della pubblica funzione - Processo penale - Spese legali - Rimborso - Non sussiste

 

1 - Considerato che è stata depositata relazione del seguente contenuto:

<<Con ricorso innanzi al Tribunale di Treviso, F.S. impugnava il provvedimento dell’Agenzia delle Entrate - Direzione Regionale del Veneto, prot. n. 1200 dell’ 11/1/2006, con il quale era stata rigettata la sua richiesta di rimborso, ai sensi del D.L. n. 67 del 1997, art. 18, conv. con modif. dalla legge n. 135/1997, e dall’art. 2 bis della legge n. 20/1995, delle spese legali sostenute per difendersi nel processo penale celebrato nei suoi confronti, per i reati di cui agli artt. 61, n. 9, 110, da 476 a 479, co. 2, 640, co. 1 e 2, cod. pen. (falso materiale, falso ideologico e truffa), che si era concluso con la pronuncia di assoluzione del G.I.P. di Venezia del 13/5/2005, n. 237 "perché il fatto non costituisce reato". Il Tribunale accoglieva il ricorso. La decisione veniva riformata dalla Corte di appello di Venezia che, in accoglimento del gravame dell’Agenzia delle Entrate, respingeva l’azionata domanda. Ritenevano i giudici di secondo grado che i fatti oggetto del processo penale non potessero essere ricondotti allo svolgimento delle funzioni proprie del lavoratore e che quindi non sussistesse quell’elemento di collegamento che solo dava diritto al rimborso delle spese legali.

Ricorre per cassazione F.S. affidandosi ad un motivo di impugnazione.

Resiste con controricorso l’Agenzia delle Entrate.

Con l’unico motivo il ricorrente denuncia la violazione del D.L. n. 67 del 1997, art. 18, conv. con modif. dalla legge n. 135/1997. Assume che erroneamente la Corte di appello, nonostante l’assoluzione del ricorrente dai reati contestatigli in sede penale e l’inerenza dei fatti medesimi all’espletamento dei compiti e responsabilità dell’ufficio, ha ritenuto infondata la richiesta di rimborso delle spese sostenute per la difesa legale nell’ambito dello stesso. Contesta anche la valutazione della sussistenza di un conflitto di interesse per essere stata dimostrata la buona fede del dipendente a fronte dell’attività illecita posta in essere da altro soggetto.

Il motivo è manifestamente infondato.

Appare corretto il ragionamento secondo il quale già le imputazioni, come trascritte dalla stessa Corte di appello nella motivazione ("redazione di false attestazioni contenute nei verbali di controllo e nei prospetti allegati ai modelli 43 per la liquidazione delle retribuzioni e delle indennità dovute al lavoratore per l’attività svolta"), escludessero qualsiasi collegamento fra i fatti contestati e l’espletamento del servizio da parte dello S. Non si verteva, infatti, nell’ambito di una attività imputabile all’Amministrazione che, per sua natura, si ricollegasse necessariamente all’esecuzione dell’incarico conferito, e cioè tale che, rappresentando il rischio inerente all’esecuzione di esso, potesse dare luogo al rimborso delle spese legali. Quella contestata, infatti, era un’attività esclusivamente attinente alla sfera privata del soggetto e che nel rapporto di servizio aveva una mera occasione. Ed infatti la ipotizzata alterazione dei dati (funzionale alla rappresentazione di circostanze incidenti sull’entità della retribuzione e delle indennità dovute) era, nella stessa ipotesi accusatoria, svolta in danno dell’Amministrazione. Il comportamento penalmente rilevante non era stato, dunque, compiuto per conto, nel nome e nell’interesse dell’Amministrazione.

Ed allora va precisato che l’Amministrazione è legittimata a contribuire alla difesa del suo dipendente imputato in un procedimento penale sempreché sussista un interesse specifico al riguardo e tale interesse deve individuarsi qualora sussista imputabilità dell’attività all’Amministrazione stessa e dunque una diretta connessione di tale attività con il fine pubblico (così Cass. 10 marzo 2011, n. 5718; Cass. 30 ottobre 2013, n. 24480; si veda, sul requisito della comunione degli interessi perseguiti attraverso il reato ipotizzato e quelli dell’ente pubblico datore di lavoro, posto come necessario dall’art. 18 del D.L. n. 87 del 1997, Cass. 24 novembre 2008, n. 27871 nonché Consiglio di Stato 26 febbraio 2013, n. 1190 secondo cui "la connessione dei fatti con l’espletamento del servizio o con l’assolvimento di obblighi istituzionali va intesa nel senso che tali atti e fatti siano riconducibili all’attività funzionale del dipendente stesso in un rapporto di stretta dipendenza con l’adempimento dei propri obblighi, dovendo trattarsi di attività che necessariamente si ricollegano all’esercizio diligente della pubblica funzione, nonché occorre che vi sia un nesso di strumentalità tra l’adempimento del dovere e il compimento dell’atto, nel senso che il dipendente non avrebbe assolto ai suoi compiti se non compiendo quel fatto o quell’atto" e, in termini, Consiglio di Stato 22 dicembre 1993, n. 1392).

Del resto la natura del diritto al rimborso è stata individuata quale espressione di un principio generale di difesa volto, da un lato, a proteggere l’interesse personale del soggetto coinvolto nel giudizio in uno all’immagine della p.a. per la quale quel soggetto agisce e dall’altro a confermare il principio cardine dell’ordinamento che vuole riferire alla sfera giuridica del titolare dell’interesse sostanziale le conseguenze derivanti dall’operato di chi agisce per suo conto; non a caso la legittimazione dogmatica del principio attinge alla teoria del mandato (cui commoda et eius incommoda) e trova ancoraggio positivo nella norma dell’art. 1720, co. 2, cod. civ. secondo cui "il mandante deve rimborsare al mandatario le anticipazioni  dal giorno in cui sono state fatte, e deve pagargli il compenso che gli spetta. Il mandante deve, inoltre, risarcire i danni che il mandatario ha subito a causa dell’incarico" che ha portato ad affermare l’esistenza di un principio generale, immanente nel sistema, e di un limite, non meno generale, dato dal fatto che il mandatario abbia pur sempre agito in vantaggio e non in danno del mandante (cfr. Consiglio di Stato 10 dicembre 2013, n. 5919; Consiglio di Stato 7 ottobre 2009, n. 6113).

I suddetti elementi della imputabilità dell’attività all’Amministrazione e della diretta connessione dell’attività stessa con il fine pubblico erano palesemente mancanti nella fattispecie in esame in cui veniva contestata allo S. il compimento di un’attività illecita al fine di perseguire un utile privato e indebito, ciò attraverso la (falsa) rappresentazione dei dati sui modelli riportanti gli orari - manipolati - delle operazioni di verifica fiscale giornaliera determinanti l’entità della retribuzione e delle indennità (diversi e più favorevoli di quelli reali). Si tratta dunque di un’ipotesi in cui sussiste, al contrario, l’interesse dell’Amministrazione a veder sanzionate le eventuali attività abusive compiute dal soggetto svolgente un servizio alle sue dipendenze (significativo è che allo S. fosse stata contestata l’aggravante della violazione dei doveri inerenti ad una pubblica funzione o a un pubblico servizio).

La circostanza, poi, dell’assoluzione dello S. non ha alcuna incidenza rispetto al giudizio di non attribuibilità all’Amministrazione dell’attività in contestazione e di irriconducibilità ai suoi fini istituzionali così come non rileva la mancata costituzione di parte civile dell’Amministrazione nel giudizio penale o la mancata instaurazione di un procedimento disciplinare.

Si propone, pertanto, il rigetto del ricorso, con ordinanza, ai sensi dell’art. 375, n. 5, cod. proc. civ.>>.

2 - Non sono state depositate memorie ai sensi dell’art. 380 bis cod. proc. civ..

3 - Questa Corte ritiene che le osservazioni in fatto e le considerazioni e conclusioni in diritto svolte dal relatore siano del tutto condivisibili, siccome coerenti alla consolidata giurisprudenza di legittimità in materia e che ricorra con ogni evidenza il presupposto dell’art. 375, n. 5, cod. proc. civ. per la definizione camerale del processo.

4 - In conclusione il ricorso va rigettato.

5 - La regolamentazione delle spese segue la soccombenza.

6 - Il ricorso è stato notificato in data successiva a quella (31/1/2013) di entrata in vigore della legge di stabilità del 2013 (art. 1, comma 17, della legge 24 dicembre 2012, n. 228 del 2012), che ha integrato l’art. 13 del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, aggiungendovi il comma 1 quater del seguente tenore: "Quando l’impugnazione, anche incidentale è respinta integralmente o è dichiarata inammissibile o improcedibile, la parte che l’ha proposta è tenuta a versare un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione, principale o incidentale, a norma art. 1 bis. Il giudice da atto nel provvedimento della sussistenza dei presupposti di cui al periodo precedente e l’obbligo di pagamento sorge al momento del deposito dello stesso".

Essendo il ricorso in questione integralmente da respingersi, deve provvedersi in conformità.

 

P.Q.M.

 

Rigetta il ricorso; condanna il ricorrente al pagamento, in favore dell’amministrazione controricorrente, delle spese del presente giudizio di legittimità che liquida in euro 3.000,00 per compensi professionali oltre accessori di legge e spese prenotate a debito.

Ai sensi dell’art. 13, co. 1 quater, del d.P.R. n. 115 del 2002 dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13.