Giurisprudenza - CORTE DI CASSAZIONE - Sentenza 15 febbraio 2016, n. 2920

Gravi carenze di organizzazione - Prestazione lavorativa particolarmente stressante - Carico di lavoro superiore al dovuto - Problemi psicologici del dipendente - Mobbing - Non sussiste - Assenza della volontà persecutoria del datore

 

Svolgimento del processo

 

Con sentenza n. 680/2011, depositata il 15 novembre 2011, la Corte di appello di Cagliari confermava la sentenza (n. 469/2010) del Tribunale di Nuoro che aveva respinto la domanda di risarcimento danni da mobbing proposta da (...) nei confronti del Ministero della Giustizia.

La Corte territoriale procedeva ad esaminare distintamente i fatti allegati a fondamento della domanda e così (a) le modalità di godimento delle ferie da parte della ricorrente, di volta in volta differite, interrotte o subordinate alla presenza in servizio dell'altro collega con funzioni di collaboratore amministrativo contabile presso la Casa Circondariale di (...), rilevando peraltro come anche quest'ultimo fosse andato soggetto nel tempo a (sia pure meno numerosi) dinieghi e differimenti e come, d'altra parte, la ricorrente fosse la sola autorizzata alle operazioni con la (...) e, in particolare, al ritiro del contante per il pagamento degli stipendi, senza che di fatto il direttore, pur abilitato alle medesime operazioni ma altresì gravato da altri e onerosi compiti, potesse esserle di sollievo in tale attività; (b) i tre procedimenti disciplinari promossi nei suoi confronti, due dei quali, tuttavia, si erano già conclusi in fase amministrativa con decisione di non luogo a procedere (e tali procedimenti, pur idonei a provocare tensione, non potevano riguardarsi - stante l'esito avuto e per il semplice fatto della loro attivazione - come rivelatori di una volontà afflittiva da parte dell'Amministrazione) mentre la sanzione del rimprovero, che era stata irrogata a definizione del terzo, era stata bensì annullata dal giudice del lavoro ma per la mancata osservanza dell'obbligo di affissione del codice disciplinare; (c) il trasferimento per incompatibilità ambientale, che era stato anch'esso annullato dal Tribunale di Nuoro e che peraltro aveva colpito anche il collega, in tal modo sottoposto ad eguale trattamento (né vi era prova, diversamente da quanto affermato dalla ricorrente, che questi avesse goduto, in tale circostanza, anche del trattamento di missione, non essendo stata prodotta documentazione in tal senso), a riprova di una situazione lavorativa obiettivamente caratterizzata da forti tensioni nell'ambito dello stesso ufficio; (d) i due procedimenti penali promossi nei confronti della ricorrente, dei quali uno pendente in Cassazione, senza che risultassero indicazioni sul fatto che gli aveva dato causa, e l'altro archiviato: procedimento, questo, sorto a seguito di allontanamento della Capelli dal servizio, dopo essersi recata dal medico della Casa Circondariale che ne aveva diagnosticato un malessere da astenia, con conseguente necessità di cure e riposo nella stessa giornata, e che peraltro - ad avviso della Corte - poteva essere visto tanto come condotta maltrattante, che come manifestazione di negligenza nella verifica degli atti da parte dell'Amministrazione, una negligenza che aveva portato a valutare arbitraria un'assenza che era invece giustificata dalla certificazione medica.

La Corte territoriale, dopo tale disamina, concludeva nel senso di ritenere dimostrate nel caso in esame gravi carenze di organizzazione e direzione, dovute anche al succedersi di molti direttori nell'arco del periodo considerato, ed una prestazione lavorativa a carico della (...) particolarmente stressante e superiore a quella che il datore di lavoro avrebbe potuto normalmente esigere: ciò che dava conto dei problemi psicologici rilevati in sede di consulenza tecnica di ufficio e della sussistenza di un collegamento causale tra di essi e |a qualità della condizione lavorativa della ricorrente.

Non vi era prova, tuttavia, secondo la Corte (come già secondo il giudice di primo grado), né di una volontà persecutoria, né di un filo conduttore che unisse in una condotta di persecuzione e prevaricazione le varie vicende che avevano interessato l'appellante.

Ha proposto ricorso per la cassazione della sentenza la (...) affidandosi a sei motivi; il Ministero della Giustizia ha resistito con controricorso.

 

Motivi della decisione

 

Con il primo motivo la ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 2, 3, 32, 35 comma primo, 36 ultimo comma della Costituzione nonché violazione e falsa applicazione degli artt. 2087, 2043, 2049 c.c., in relazione all'art. 360 n. 3 c.p.c., per avere la sentenza impugnata, nella disamina dei singoli episodi, omesso di valutare correttamente la pretestuosità e la illegittimità di ciascuno di essi ed inoltre per avere omesso di inserirli in una visione di insieme e cioè di valutarne l'antigiuridicità soprattutto in una prospettiva di vaglio cumulativo, così perdendo di vista - attraverso un processo di indebita frammentazione, tale da travisare la natura stessa del fenomeno del mobbing - l'idoneità offensiva della complessiva condotta del datore di lavoro, la sua sistematicità e durata nel tempo e le sue oggettive caratteristiche di persecuzione e di pretestuosa e prolungata discriminazione.

Con il secondo motivo la ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 2, 3, 32, 35 comma primo, 36 ultimo comma della Costituzione nonché violazione e falsa applicazione degli artt. 10 del decreto legislativo 8 aprile 2003, n. 66 e delle Direttive 93/104/CE e 2000/34/CE, in relazione all'art. 360 n. 3 c.p.c., sul rilievo che la sentenza, pur riconoscendo che la prestazione lavorativa era resa in una situazione di particolare difficoltà e che il diritto alle ferie non veniva pienamente assicurato, non aveva, tuttavia, ritenuto la inviolabilità e la irrinunciabilità del diritto stesso e la portata effettiva del suo mancato godimento rispetto alla tutèla della personalità e della salute della lavoratrice.

Con il terzo motivo la ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 2087 e 1218 c.c., in relazione all'art. 360 n. 3 c.p.c., assumendo di avere assolto l'onere della prova corrispondente ad un'azione ex art. 2087 c.c. (e cioè di aver provato l'esistenza dell'obbligazione; la lesione dell'integrità psico-fisica; il nesso di causalità tra l'evento danno e lo svolgimento della prestazione) e altresì di aver provato la volontà del datore di lavoro di esercitare un'azione persecutoria nei suoi confronti, mentre il Ministero non aveva assolto in alcun modo l'onere che gli era proprio e cioè di aver fatto tutto quanto era necessario per la protezione della salute della dipendente.

Con il quarto motivo la ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 2729 c.c. e 115 c.p.c., in relazione all'art. 360 n. 3 c.p.c., nonché vizio di omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione, per non avere la sentenza impugnata fatto ricorso al ragionamento presuntivo, la cui applicazione, anche mediante l'utilizzo di massime di esperienza, avrebbe invece portato a dedurre, dal complesso delle condotte denunciate, la prova dell'esistenza di un animus nocendi nei suoi confronti.

Con il quinto motivo la ricorrente denuncia violazione dell'art. 112 c.p.c., in relazione all'art. 360 n. 4 c.p.c., sul rilievo che la Corte aveva omesso di decidere sul diritto al risarcimento del danno richiesto come conseguenza delle condotte illegittime poste in essere dall'Amministrazione, così venendo meno al suo dovere di pronunciare su tutta la domanda.

Con il sesto motivo la ricorrente denuncia omessa, insufficiente e/o contraddittoria motivazione circa un fatto decisivo per il giudizio, ai sensi dell'art. 360 n. 5 c.p.c., avendo la Corte trascurato di prendere in esame le risultanze della CTU, che aveva concluso per la sussistenza della patologia già descritta dal medico curante e per la sua riconducibilità alle vicende del rapporto di lavoro, in un quadro sovrapponibile al modello del mobbing quale descritto nella letteratura scientifica in argomento; omesso di statuire sull'esistenza del danno alla salute, pur a fronte dell'affermata responsabilità del datore di lavoro ex art. 2087 c.c.; trascurato inoltre di chiarire perché le pur rilevate e gravi inadempienze sul piano organizzativo non fossero pertinenti al diritto fatto valere e quale prova della volontà persecutrice, nel caso concreto, la ricorrente avrebbe dovuto dare, e non aveva dato, per il riconoscimento del diritto azionato.

Il ricorso deve essere respinto.

Si deve preliminarmente rilevare che la ricorrente ha esclusivamente proposto, con il ricorso introduttivo, e mantenuto in grado di appello, una domanda di risarcimento danni da mobbing, secondo ciò che risulta inequivocabilmente dall'esame degli atti.

In particolare, la ricorrente, con l'atto introduttivo, dopo avere allegato i singoli fatti ritenuti di rilievo ai fini della domanda, ha concluso nel senso che la condotta denunciata ha un solo nome: MOBBING. La dottrina e la giurisprudenza qualificano come mobbing una serie di fenomeni comportamentali ripetuti nel tempo, attuati anche da soggetti diversi purché accomunati da due elementi: la modalità vessatoria e la finalità di eliminazione della vittima dal posto di lavoro. Sulla scorta di tale sintesi del contenuto della domanda, ha poi chiesto al Tribunale di dichiarare che era stata oggetto di mobbing dal 1993 alla data del ricorso ad opera dei diversi direttori succedutisi nel carcere di (...) e di condannare conseguentemente il Ministero della Giustizia al risarcimento dei danni che dall'attività di mobbing, di cui era stata vittima, le erano derivati.

Quanto al ricorso in appello, esso si contiene rigorosamente nei limiti della domanda (di mobbing) proposta con l'atto introduttivo, come risulta con chiarezza dalla lettura dello stesso e, con oggettiva evidenza, dalla sua parte finale, in cui, a riassumere il caso di specie e il senso delle critiche rivolte contro la decisione di primo grado, si afferma che l'intento persecutorio emerge con forza in tutti gli atti descritti, ma sono particolarmente significativi nelle motivazioni dei procedimenti disciplinari e dei vari ordini di servizio diretti alla Capelli e si chiede alla Corte, in riforma della sentenza impugnata, l'integrale accoglimento della domanda della ricorrente.

Sulla base di tali premesse, che indicano come esclusivamente proposta dalla ricorrente un'azione risarcitoria fondata su fatti di mobbing, risultano, in primo luogo, inammissibili il secondo, il terzo e il quinto motivo di ricorso.

Risultano, inoltre, inammissibili, sulla base delle medesime premesse, il primo motivo, nella parte in cui richiama l'art. 2087 c.c. per lamentare che il giudice di appello abbia omesso di pronunciare sul diritto al risarcimento dei danni che dalla violazione di detta norma, di cui viene sottolineato il ruolo centrale all'interno della disciplina della responsabilità contrattuale, erano derivati al dipendente; nonché il sesto motivo, nella parte in cui (lettera B) denuncia la contraddittorietà della motivazione della sentenza, che, pur affermando la responsabilità del datore di lavoro ex art. 2087 c.c., aveva omesso di statuire sull'esistenza del danno alla salute accertato con la CTU e di disporre in relazione al risarcimento del danno stesso.

Le censure in esame presuppongono, infatti, domande diverse da quella effettivamente proposta e comunque tendono a introdurre temi di indagine e critica che sono estranei alla nozione di mobbing, quale è andata sviluppandosi nella giurisprudenza di questa Corte di legittimità.

A tale ultimo riguardo si deve richiamare, fra le molte altre, la recente 6 agosto 2014, n. 17698, la quale ha ribadito che "ai fini della configurabilità del mobbing lavorativo devono ricorrere: a) una serie di comportamenti di carattere persecutorio - illeciti o anche leciti se considerati singolarmente - che, con intento vessatorio, siano posti in essere contro la vittima in modo miratamente sistematico e prolungato nel tempo, direttamente da parte del datore di lavoro o di un suo preposto o anche da parte di altri dipendenti, sottoposti al potere direttivo dei primi; b) l'evento lesivo della salute, della personalità o della dignità del dipendente; c) il nesso eziologico tra le descritte condotte e il pregiudizio subito dalla vittima nella propria integrità psico-fisica e/o nella propria dignità; d) l'elemento soggettivo, cioè l'intento persecutorio unificante di tutti i comportamenti lesivi" (conformi 17 gennaio 2014, n. 898 e 17 febbraio 2009, n. 3785).

Ne consegue che il fenomeno del mobbing, per assumere giuridica rilevanza, implica l'esistenza di plurimi elementi, la cui prova compete al prestatore di lavoro, di natura sia oggettiva che soggettiva e, fra questi, l'emergere di un intento di persecuzione, che non solo deve assistere le singole condotte poste in essere in pregiudizio del dipendente, ma anche comprenderle in un disegno comune e unitario, quale tratto che qualifica la peculiarità del fenomeno sociale e giustifica la tutela della vittima.

Ciò posto, non possono essere accolti neppure il primo motivo, nei profili diversi da quello sopra esaminato, e il quarto motivo di ricorso.

La sentenza impugnata, infatti, mostra di avere ben presente la nozione giuridicamente rilevante del fenomeno in esame, posto che, con motivazione congrua ed esente da critiche, prende in considerazione e analizza, da un lato, i fatti e i comportamenti allegati dalla ricorrente, tanto nella loro valenza oggettiva come sotto il profilo psicologico; dall'altro, tuttavia, non arresta la propria indagine ai singoli elementi della lunga e complessa vicenda, ma si pone correttamente nell'ottica di quello sguardo d'insieme e unificante, che è richiesto dalla citata giurisprudenza: come è reso palese dalla parte finale di essa, laddove il giudice di appello perviene ad escludere che possa configurarsi nel caso sottoposto alla sua attenzione la "prova né di una volontà persecutoria, né di un unico filo conduttore, nelle varie vicende che hanno interessato l'appellante, che univocamente deponga per una condotta di persecuzione e prevaricazione, al fine di arrecare danno e sostanzialmente liberarsi della dipendente (...).

Il primo motivo è, pertanto, infondato.

Con riferimento al quarto motivo, si rileva come esso si risolva in una inammissibile istanza di revisione delle valutazioni e del convincimento del giudice di merito, diretta ad ottenere una nuova pronuncia sul fatto, come tale estranea alla natura e alle finalità del giudizio di cassazione.

In particolare, è da ribadire l'orientamento, per il quale "spetta al giudice di merito valutare l'opportunità di fare ricorso alle presunzioni semplici, individuare i fatti da porre a fondamento del relativo processo logico e valutarne la rispondenza ai requisiti di legge, con apprezzamento di fatto che, ove adeguatamente motivato, sfugge al sindacato di legittimità, dovendosi tuttavia rilevare che la censura per vizio di motivazione in ordine all'utilizzo o meno del ragionamento presuntivo non può limitarsi ad affermare un convincimento diverso da quello espresso dal giudice di merito, ma deve fare emergere l'assoluta illogicità e contraddittorietà del ragionamento decisorio, restando peraltro escluso che la sola mancata valutazione di un elemento indiziario possa dare luogo al vizio di omesso esame di un punto decisivo": Cass. 2 aprile 2009, n. 8023; conforme 8 gennaio 2015, n. 101 (ord.).

Nella specie, la conclusione della Corte territoriale, e cioè l'assenza di una volontà di persecuzione e prevaricazione, che valesse da filo conduttore ed elemento unificante, è stata dedotta a seguito di una compiuta valutazione dei singoli fatti ed episodi, di cui è stata analizzata e, ove necessario, alla stregua delle risultanze acquisite, ridimensionata la reale portata, anche sul piano soggettivo, con esiti di completezza e solidità della motivazione che sfuggono alle censure della ricorrente.

Infondato risulta, infine, il sesto motivo di ricorso, nelle parti (lettere A, C e D) non attinte dal rilievo di inammissibilità.

Al riguardo, e con riferimento alla lettera A), si osserva che la censura ha per oggetto un fatto (il mancato esame delle risultanze della CTU) che, oltre a non corrispondere alle risultanze processuali (NOTA 1), appare privo di "decisività", posto che il giudice di appello si è correttamente attenuto allo schema di configurazione del mobbing elaborato dalla giurisprudenza di legittimità, nelle sue diverse componenti oggettive e soggettive, mentre il consulente d'ufficio ha dichiaratamente applicato alla vicenda della ricorrente una griglia di lettura che è propria del diverso ambito epistemologico della psicologia del lavoro.

Analoghe considerazioni possono formularsi con riferimento alla lettera C) del motivo in esame, difettando - come evidente - di "decisività" la pur riscontrata esistenza, nella Casa Circondariale di (...), di carenze gestionali e organizzative, le quali, delineando una situazione di portata generale, sono palesemente e del tutto estranee ai parametri idonei a integrare una situazione di mobbing.

Gli stessi parametri rendono evidente l'infondatezza della censura di cui alla lettera O), non potendo la prova dell'elemento intenzionale o psicologico, di cui il giudice di appello ha rilevato la mancanza, automaticamente connettersi ad una prestazione lavorativa particolarmente stressante, alle disfunzioni organizzative e agli altri fatti e situazioni pur emersi nel corso del giudizio, ma richiedendo - come la sentenza ha bene evidenziato - lo specifico accertamento di una volontà persecutoria unificante e di un filo conduttore che sia tale da deporre, in modo certo e univoco, per una condotta di persecuzione e prevaricazione.

Le spese seguono la soccombenza e si liquidano in dispositivo.

 

P.Q.M.

 

rigetta il ricorso e condanna la parte ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate in euro 100,00 per esborsi e in euro 3.000,00 per compensi professionali, oltre accessori di legge.

 

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Nota:

1) "Nella stessa relazione peritale, pur dandosi atto di problemi psicologici, non si ravvisano quei disturbi tipici da mobbing" (cfr. sentenza, penultima pagina).