Giurisprudenza - CORTE DI CASSAZIONE - Sentenza 10 febbraio 2016, n. 2645

Lavoro subordinato - Risoluzione del rapporto per mutuo consenso - Volontà delle parti di porre definitivamente fine ad ogni rapporto lavorativo - Sussistenza

 

Svolgimento del processo

 

1. Con sentenza del 18/3/2009-28/11/2009 la Corte d'appello di Roma ha confermato la decisione del giudice di primo grado che aveva respinto la domanda avanzata da N.P. al fine di far dichiarare la nullità della clausola di apposizione del termine contenuta nel contratto intercorso tra la medesima e Poste Italiane s.p.a. dal 3/6/1999 al 30/10/1999 per esigenze eccezionali ex art. 23 L. 56/1987 e 8 CCNL del 26/11/1994.

2. I giudici del merito, di primo e secondo grado, ravvisavano la volontà risolutiva del rapporto in ragione del protrarsi dell'inerzia della ricorrente dopo la cessazione del medesimo, della breve durata del rapporto, nonché dalle circostanze dell'avere la N. svolto altrove la propria attività, instaurando altro rapporto di lavoro a tempo determinato e dell'aver continuato a versare contributi come coltivatore diretto.

3. Avverso la sentenza la N. propone ricorso per cassazione affidato a cinque motivi, illustrato mediante memorie. Resiste Poste italiane S.p.A. con controricorso.

 

Motivi della decisione

 

1. Con il primo motivo di ricorso Poste Italiane S.p.A. deduce violazione e falsa applicazione dell'art. 2697 c. secondo c.c. (art. 360 n. 3 c.p.c.), in ragione della ritenuta fondatezza dell'eccezione di scioglimento del rapporto per mutuo consenso sollevata dalla società intimata, affermando che la parte appellante non ha fornito alcuna giustificazione circa il tempo trascorso tra il termine finale del contratto e la richiesta di ricostituzione del rapporto.

2. Di seguito deduce violazione e/o falsa applicazione dell'art. 1372 c.c. (art. 360 n. 3 c.p.c.), sempre in materia di ritenuto scioglimento del rapporto per mutuo consenso, non essendo stata verificata la volontà chiara e certa delle parti di volere, d'accordo tra loro, porre definitivamente fine al rapporto.

3. Con il terzo motivo lamenta motivazione insufficiente e contraddittoria circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio (art. 360 n. 5 c.p.c.), in ragione della inidoneità del lasso temporale intercorso dalla cessazione del rapporto - da solo o in uno ad altre circostanze - a comprovare la risoluzione dello stesso per mutuo consenso.

4. Deduce, ancora, violazione o falsa applicazione dell'art. 2729 c. 1 c.c. (art. 360 n. 3 c.p.c.), per erronea ritenuta sussistenza di presunzioni dotate dei necessari caratteri della gravità, precisione e concordanza.

5. Si duole, infine, della violazione dell'art. 2729 c. 2 c.c., che vieta l'operatività delle presunzioni semplici nei casi in cui la legge esclude la prova per testimoni (art. 360 n. 3 c.p.c.).

6. I motivi, che, in quanto strettamente connessi possono essere trattati congiuntamente, risultano fondati e vanno accolti. Come questa Corte ha più volte affermato "nel giudizio instaurato ai fini del riconoscimento della sussistenza di un unico rapporto di lavoro a tempo indeterminato, sul presupposto dell'illegittima apposizione al contratto di un termine finale ormai scaduto, affinché possa configurarsi una risoluzione del rapporto per mutuo consenso, è necessario che sia accertata - sulla base del lasso di tempo trascorso dopo la conclusione dell'ultimo contratto a termine, nonché del comportamento tenuto dalle parti e di eventuali circostanze significative - una chiara e certa comune volontà delle parti medesime di porre definitivamente fine ad ogni rapporto lavorativo" (v. Cass. 10-11-2008 n. 26935, Cass. 28-9-2007 n. 20390, Cass. 17-12-2004 n. 23554, nonché da ultimo Cass. 18-11-2010 n. 23319, Cass. 11-3-2011 n. 5887, Cass. 4-8-2011 n. 16932). La mera inerzia del lavoratore dopo la scadenza del contratto a termine, quindi "è di per sé insufficiente a ritenere sussistente una risoluzione del rapporto per mutuo consenso" (v. da ultimo Cass. 15- 11-2010 n. 23057, Cass. 11-3-2011 n. 5887), mentre "grava sul datore di lavoro", che eccepisca tale risoluzione, "l'onere di provare le circostanze dalle quali possa ricavarsi la volontà chiara e certa delle parti di volere porre definitivamente fine ad ogni rapporto di lavoro" (v. Cass. 2-12-2002 n. 17070 e fra le altre da ultimo Cass. 1- 2-2010 n. 2279, Cass. 15-11-2010 n. 23057, Cass. 11-3-2011 n. 5887) e "la valutazione del significato e della portata del complesso degli elementi di fatto compete al giudice di merito, le cui conclusioni non sono censurabili in sede di legittimità se non sussistono vizi logici o errori di diritto" (v. Cass. 11-3-2011 n. 5887, Cass. 4-8- 2011 n. 16932).

7. Tali principi, del tutto conformi al dettato di cui agli art. 1372 e 1321 c.c., e al sistema, sono stati ripetutamente ribaditi da questa Corte (si veda per tutte Cass. Sez. L, Sentenza n. 13535 del 01/07/2015, Rv. 635842). Va, pertanto, ulteriormente confermato il richiamato indirizzo consolidato, basato in sostanza sulla necessaria valutazione dei comportamenti e delle circostanze di fatto, idonei ad integrare una chiara manifestazione consensuale tacita di volontà in ordine alla risoluzione del rapporto, non reputandosi all'uopo sufficiente il semplice trascorrere del tempo e neppure la mera mancanza, seppure prolungata, di operatività del rapporto. Al riguardo, infatti, non può condividersi il diverso indirizzo che, valorizzando esclusivamente il "piano oggettivo" nel quadro di una presupposta valutazione sociale "tipica" (v. Cass. 6-7-2007 n. 15264 e da ultimo Cass. 5-6-2013 n. 14209), prescinde del tutto dal presupposto che - come è stato chiarito da Cass. 28-1-2014 n. 1780 - "la risoluzione per mutuo consenso tacito costituisce pur sempre una manifestazione negoziale che in quanto tale, seppure tacita, non può essere configurata su un piano esclusivamente oggettivo.

D'altra parte, il mero decorso del tempo e la mera inerzia del lavoratore costituiscono un semplice fatto che, al di fuori delle ipotesi tipiche fissate dalla legge, di per sé è irrilevante. Né può essere sufficiente al fine della risoluzione del rapporto per mutuo consenso tacito la mera cessazione della funzionalità di fatto del rapporto stesso, tanto più che nel rapporto di lavoro possono anche intervenire numerose ipotesi di sospensione, previste dalla legge o derivanti dalla volontà delle parti (v. fra le altre Cass. 7-7-1998 n. 6615)".

8. Orbene, nella fattispecie la Corte di merito ha ritenuto configurabile la risoluzione per mutuo consenso tacito in considerazione del decorso temporale tra la cessazione di fatto del rapporto e il deposito del ricorso (oltre 4 anni) e della mancanza di giustificazione da parte del lavoratore circa il tempo trascorso (quest'ultima in alternativa alla mancanza di assunzione di informazioni per il caso di tardiva consapevolezza). In ciò risultano violate le indicate regole di ripartizione dell'onere della prova, gravante sul datore di lavoro, riguardo alle circostanze dalle quali possa ricavarsi la ricostruzione della volontà negoziale di scioglimento del rapporto. Né residui enunciati elementi (la breve durata del rapporto intercorso tra le parti, l'instaurazione di altro rapporto a tempo determinato e il versamento di contributi in agricoltura), possono essere ritenuti sufficienti, in termini di presunzioni rilevanti ex art. 2729 c. 1 c.c., al fine della dimostrazione del sostanziale disinteresse del lavoratore al ripristino del rapporto.

9. Per tutte le ragioni indicate il ricorso va accolto con rinvio al giudice del merito che nella decisione della controversia si atterrà al seguente principio di diritto: Nel giudizio instaurato ai fini del riconoscimento della sussistenza di un unico rapporto di lavoro a tempo indeterminato, sul presupposto dell'illegittima apposizione al contratto di un termine finale ormai scaduto, affinché possa configurarsi una risoluzione del rapporto per mutuo consenso, è necessario che sia accertata, non solo sulla base del lasso di tempo trascorso dopo la conclusione dell'ultimo contratto a termine, ma anche del comportamento tenuto dalla parti e di eventuali circostanze significative, una chiara e certa comune volontà delle parti medesime di porre definitivamente fine ad ogni rapporto lavorativo, nel rispetto del sistema delle presunzioni ex art. 2729 c. 1 c.c.

 

P.Q.M.

 

Cassa la sentenza impugnata e rinvia, anche per le spese di questo giudizio, alla Corte d’appello di Roma, in diversa composizione.