Giurisprudenza - CORTE DI CASSAZIONE - Ordinanza 26 gennaio 2016, n. 1335

Tributi - IRPEF - Trattamento di fine mandato dell’amministratore - Rinuncia - Tassazione

 

Osserva

 

La CTR di Roma ha respinto l’appello dell’Agenzia -appello proposto contro la sentenza n. 87/01/2009 della CTP di Viterbo che aveva già accolto il ricorso della "C. D. T. srl" (in liquidazione)- ed ha così annullato quattro avvisi di accertamento (separatamente impugnati con ricorsi riuniti nel primo grado di giudizio) con cui si assumevano assoggettabili a ritenuta d’imposta per IRPEF anni 2002 e 2004 le rinunce alle indennità di fine mandato da parte di due soci- amministratori, rinunce per effetto delle quali le somme spettanti a tali titoli erano refluite nel patrimonio della società.

La predetta CTR ha motivato la decisione nel senso che doveva concordarsi con il principio già affermato dal giudice di primo grado secondo cui "la ritenuta viene meno"....’’non essendoci stato il pagamento", sebbene per rinuncia da parte dell’avente diritto. A mente degli art. 7 del D.L. n. 7 del 2005 e 55 del TUIR, "la spontaneità della rinuncia al credito da parte dei soci non è tassabile, non avendo rilevanza fiscale, essendo assimilabile a versamenti del socio a fondo perduto o in conto capitale, con conseguente richiamo alla disciplina dell’art. 7 del D.L. precitato". L’Agenzia ha interposto ricorso per cassazione affidato a unico motivo.

La parte contribuente non si è difesa.

Il ricorso - ai sensi dell’art. 380 bis c.p.c. assegnato allo scrivente relatore, componente della sezione di cui all’art. 376 c.p.c.- può essere definito ai sensi dell’art. 375 c.p.c.. Infatti, con il motivo di impugnazione (centrato sulla violazione dell’art. 16 del TUIR vecchia lettera e dell’art. 17 del TUIR nuova lettera) la parte ricorrente -dopo avere evidenziato che l’indennità qui in discorso va corrisposta ai soci-amministratori alla scadenza del mandato ad essi assegnato, siccome già previamente stabilita e determinata nell’atto costitutivo della società o in una specifica delibera assembleare, e che in relazione ad essa la società deduce per ogni esercizio la quota di trattamento di competenza, sicché alla cessazione del mandato eroga l’indennità al netto della ritenuta d’acconto del 20%, con conseguente soggezione a tassazione separata ai fini IRPEF in capo ai percipienti- si duole del fatto che il giudicante ne abbia ritenuto la non tassabilità per l’ipotesi di rinuncia da parte dell’avente titolo alla percezione, per quanto detta rinuncia presupponga l’avvenuto "incasso giuridico" del credito.

Il motivo appare fondato e da condividersi.

Benvero, codesta Corte Suprema ha già avuto modo di evidenziare ad analogo proposito che:"In tema di determinazione del reddito d'impresa, l'art. 55 (oggi art. 88), quarto comma, del d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, come modificato dal d.l. 30 dicembre 1993, n. 557, convertito in legge 26 febbraio 1994, n. 133, che esclude debbano considerarsi sopravvenienze attive le rinunce ai crediti operate dai soci nei confronti della società, dovendo essere letto in correlazione con i successivi artt. 61, quinto comma (oggi 94, sesto comma) e 66, quinto comma (oggi 101, settimo comma), non vale ad alterare il regime fiscale del credito che costituisce oggetto di rinuncia, per cui, ove si tratti di crediti da lavoro autonomo del socio nei confronti della società, i quali, sebbene materialmente non incassati, siano, mediante la rinuncia, comunque conseguiti ed utilizzati, sussiste l'obbligo di sottoporne a tassazione il relativo ammontare, con applicazione, ai sensi dell'art. 25 del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, della ritenuta fiscale, cui la società è tenuta quale sostituto d'imposta" (Cass. Sez. 5, Sentenza n. 26842 del 18/12/2014).

Nella menzionata pronuncia è stato debitamente posto in rilievo che -sebbene il D.L. n. 557 del 1993, convertito nella L. n. 133 del 1994, abbia soppresso dal testo originario del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 55, (oggi 88) comma 4 l'inciso "ai soli crediti derivanti da precedenti finanziamenti", con la conseguenza che, a partire dall'esercizio 1993, la rinuncia da parte dei soci a crediti, quale che sia la natura (commerciale o finanziaria) dei crediti medesimi e la fonte che li ha generati, non costituendo sopravvenienza attiva e perciò non integrando materia imponibile, non comporta tassazione a carico della Società- detta norma agevolativa non vale ad alterare, tuttavia, il regime fiscale -in capo ai soci- di ciò che costituisce oggetto di rinuncia.

La norma agevolativa va, infatti, letta in correlazione con l'art. 61, comma 5 (oggi art. 94, comma 6) e art. 66, comma 5 (oggi art. 101, comma 7) TUIR, per effetto dei quali l'ammontare relativo al credito oggetto di rinuncia si aggiunge al costo fiscalmente riconosciuto della partecipazione detenuta nella società debitrice e non è ammesso in deduzione in capo al socio. Ciò che ha portato a chiarire, nella prassi, che "l'intassabilità della rinuncia ai crediti da parte dei soci si giustifica, in via sistematica, in virtù della cointeressenza del socio-creditore, alle vicende della società partecipata. La patrimonializzazione di quest'ultima si riflette, infatti, nell'attivo della partecipante attraverso un corrispondente aumento del costo della partecipazione" (così risoluzione dell'Agenzia delle Entrate 152/2002 che richiama le precisazioni già contenute nella precedente risoluzione del 5.4.2001 n. 41/E). La rinuncia al credito da parte del socio costituisce, quindi, una prestazione che viene ad aumentare il patrimonio della società e può comportare anche l'aumento del valore delle sue quote sociali. In tale contesto, allora, appare corretto ritenere che la rinuncia del credito da parte di un socio sia espressione della volontà di patrimonializzare la società e che, pertanto, non possa essere equiparata alla remissione di un debito da parte di un soggetto estraneo alla compagine sociale.

In altri termini, la rinuncia presuppone, il conseguimento del credito il cui importo, anche se non materialmente incassato, viene comunque "utilizzato", sia pure con atto di disposizione avente natura di rinuncia.

Consegue quindi che, in caso di compensi di lavoro autonomo spettanti al socio, la rinuncia operata dal socio medesimo presuppone logicamente la maturazione ed il conseguimento del credito vantato, con ineludibile soggezione al regime fiscale conseguente, in capo al socio creditore.

Altrimenti operando, si permetterebbe alla società di beneficiare di accantonamenti fiscalmente dedotti nel corso dei singoli periodi di imposta che non scontano alcuna imposizione fiscale, nonostante producano l’effetto ultimo di incrementare il costo della partecipazione e perciò di generare reddito, che finirebbe per rimanere esente da imposizione.

Non resta che ritenere che la sentenza impugnata, non essendosi attenuta ai menzionati principi, meriti cassazione, con conseguente facoltà della Corte di decidere anche nel merito, non apparendo necessario acquisire ulteriori elementi di fatto strumentali alla decisione.

Pertanto, si ritiene che il ricorso possa essere deciso in camera di consiglio per manifesta fondatezza del primo motivo di impugnazione.

Roma, 30 giugno 2015

ritenuto inoltre:

che la relazione è stata notificata agli avvocati delle parti; che non sono state depositate conclusioni scritte, né memorie; che il Collegio, a seguito della discussione in camera di consiglio, condivide i motivi in fatto e in diritto esposti nella relazione e, pertanto, il ricorso va accolto; che le spese di lite vanno regolate secondo il criterio della soccombenza.

 

P.Q.M.

 

Accoglie il ricorso. Cassa la sentenza impugnata e, decidendo nel merito, rigetta il ricorso del contribuente avverso il provvedimento impositivo. Condanna la parte contribuente alla rifusione delle spese di lite di questo giudizio, liquidate in € 5.000,00 oltre accessori ed oltre rimborso delle spese prenotate a debito, nonché compensa tra le parti le spese dei gradi di merito.