Giurisprudenza - CORTE DI CASSAZIONE - Sentenza 09 febbraio 2016, n. 2520

Previdenza e assistenza obbligatoria - Avvocato - Imprenditore commerciale - Esercizio della professione nell’ambito di un’attività organizzata in forma di impresa - Riconoscimento delle agevolazioni ex L. 407 - Sussiste

 

Svolgimento del processo

 

Con ricorso depositato il 9.12.2003 T.P., esercente la professione di avvocato con studio in Salerno, adiva il locale Tribunale chiedendo che - accertato e dichiarato il diritto all'applicazione, con riferimento alla dipendente A.V., del beneficio dello sgravio contributivo di cui all'art. 44 della legge n. 448/2001, o, in subordine, di quello di cui all'art. 8, comma 9, della legge n. 407/1990 - dichiarasse la illegittimità delle note di rettifica emesse dalla competente sede INPS in conseguenza del mancato riconoscimento dell’agevolazione, ritenuta non applicabile ai datori di lavoro non imprenditori ai sensi dell'art. 2082 c.c.

La ricorrente deduceva che, avendo già alle proprie dipendenze una dipendente con contratto part-time, in data 21.01.2002 aveva proceduto all'assunzione di altra dipendente con contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato con riferimento alla quale, essendo la nuova assunta nata il 13.04.1973 ed avendo un’iscrizione al collocamento superiore al biennio, sussistevano tutti i requisiti per l'applicazione dei benefici contributivi previsti dall'art. 44 della legge 448/2001 o, in subordine, di quelli introdotti dall'art. 8, comma 9, della legge 407/1990.

Infatti, sotto il primo profilo, la disposizione in esame, a differenza del precedente art. 3 della L. n. 448/1998 (che titolava espressamente "incentivi per le imprese", limitandone in tal senso il campo di operatività), riconosceva a "tutti i datori di lavoro privati ed agli enti pubblici economici" operanti nelle Regioni Campania, Basilicata, Puglia, Calabria e Sardegna lo sgravio totale, per un periodo di tre anni dall'assunzione, dei contributi dovuti con riferimento ai nuovi assunti nell'anno 2002 ad incremento delle unità effettivamente occupate al 31.12.2001.

La previsione normativa, a giudizio della ricorrente, non lasciava margini per una diversa lettura e trovava conferma nella stessa collocazione della norma che, a differenza del richiamato art. 3, inserito nel capo espressamente destinato alle attività produttive, era stata posta nel capo VII relativo agli "interventi in materia di lavoro" in genere.

In subordine evidenziava che la V., in quanto disoccupata da un periodo superiore a 24 mesi, iscritta nella prima classe delle liste di collocamento ed assunta con rapporto di lavoro a tempo indeterminato, possedeva i requisiti per la operatività dello sgravio parziale del 50% di cui all'art. 8, comma 9, della legge n. 407/1990.

L'INPS restava contumace.

Il Tribunale, con sentenza del 21.9.2004, accoglieva la domanda, e per l'effetto riconosceva il diritto della T. a godere del beneficio di cui all'art. 44 della legge 448/2001 e dichiarava l'illegittimità delle note di rettifica nn. 1072062937240103170203, 1072062937240303160403 e 107206293T241202160103 emesse dall’INPS.

Avverso la predetta pronuncia proponeva appello l'INPS, contestando la correttezza dell'iter interpretativo proposto dalla controparte e rilevando, almeno con riferimento allo sgravio totale, la carenza nella ricorrente del requisito soggettivo di imprenditore richiesto dalla legge. Resisteva la T.

Con sentenza depositata il 9 maggio 2008, la Corte d'appello di Salerno accoglieva parzialmente il gravame e, in parziale riforma della sentenza impugnata, dichiarava il diritto dell'appellata ad usufruire solo dell'agevolazione contributiva prevista dall'art. 8, comma 9, della legge n. 407/90, certamente riferita ai datori di lavoro in generale, e, per l'effetto, disponeva che l'Istituto adeguasse alla decisione i modelli rettificativi dei modd. DM/10/s relativi al periodo in giudizio.

Per la cassazione di tale sentenza propone ricorso la T., affidato a due motivi, poi illustrati con memoria.

L'INPS ha depositato delega in calce al ricorso notificato.

 

Motivi della decisione

 

1. - Con il primo motivo la ricorrente denuncia la violazione e falsa applicazione dell'art. 44 L. n. 448 del 2001 nonché degli articoli 12 e 14 delle disposizioni sulla legge in generale, oltre ad omessa e/o insufficiente e/o contraddittoria motivazione su punto decisivo della controversia (art. 360, comma 1, nn. 3 e 5 c.p.c.). Lamenta che la sentenza impugnata ritenne, quanto al beneficio contributivo disposto dall’art. 44 della legge 28 dicembre 2001 n. 448, che nella interpretazione dei limiti di destinazione della previsione di legge si dovesse "prescindere dal mero dato letterale e dalla diversa collocazione delle disposizioni", dovendosi invece ritenere che essa perseguisse la stessa finalità tenuta presente dal legislatore con l'emanazione dell'art. 3 della legge n. 448/1998, valorizzando in maniera erronea l’inciso contenuto alla fine del primo comma dell'art. 44 della L. n. 448/2001, ove è previsto che "ai fini della concessione delle predette agevolazioni, si applicano le condizioni stabilite all'articolo 3, comma 6, della legge 23 dicembre 1998 n. 448", riferita agli imprenditori.

Formula il seguente quesito di diritto: "dica la Suprema Corte se la previsione del beneficio contributivo di cui all'art. 44 della legge n. 448 del 23 dicembre 2001, vada interpretata nel senso che destinatari di tale previsione siano tutti i datori di lavoro e non solo quelli aventi qualificazione di imprenditori".

2. - Con il secondo motivo la ricorrente denuncia la violazione ed errata applicazione degli artt. 2082, 2083, 2238 cod. civ., in relazione all’art. 360 n. 3 nonché n. 5 c.p.c.; omessa e/o insufficiente e/o contraddittoria motivazione su punto decisivo della controversia, in relazione all'art. 360 n.3 e n. 5 c.p.c.

Lamenta che la sentenza impugnata, indipendentemente dalla prima censura, è meritevole di cassazione anche per un ulteriore ed autonomo motivo e cioè in relazione alla qualificabilità come imprenditore del professionista (nella specie avvocato) che eserciti l'attività professionale con una organizzazione produttiva che vada oltre la mera attività personale, in particolare con l'ausilio di lavoratori dipendenti.

Lamenta che ai sensi degli artt. 2083 e 2238, comma 2, c.c., lo svolgimento di attività professionale, in quanto volta alla produzione di un servizio, è da considerarsi certamente attività riconducibile alla piccola impresa, ed all’Impresa in generale allorquando si avvalga di personale dipendente.

Formula il seguente quesito di diritto: "dica la Suprema Corte se l'esercizio di attività professionale, nella specie di avvocato, realizzata con organizzazione produttiva con apporto di personale dipendente, rientri nella categoria di impresa come definita dagli artt. 2082 e 2083 c.c.".

3. - I motivi, che per la loro connessione possono esaminarsi congiuntamente, sono infondati.

La sentenza impugnata ha infatti correttamente evidenziato che il riferimento -contenuto nell'art. 44, comma 1, L. n. 448/2001- alle condizioni stabilite all'articolo 3, comma 6, della legge 23 dicembre 1998, n. 448 ("Ai fini della concessione delle predette agevolazioni, si applicano le condizioni stabilite all'articolo 3, comma 6, della legge 23 dicembre 1998, n. 448...") sta ad indicare che il riferimento soggettivo della disciplina è unicamente quello degli imprenditori in senso tecnico, come (pacificamente) voluto dal legislatore del 1998, e dunque ai soggetti giuridici aventi natura di impresa ai sensi dell'art. 2082 c.c. Ha pertanto correttamente evidenziato che in senso contrario non poteva militare il riferimento ai datori di lavoro in generale, posto che anche il comma 5 dell'art. 3 della L. n. 448/1998 stabiliva, così come l'art. 44 della L. n. 448/2001, uno sgravio per i nuovi assunti negli anni 1999, 2000 e 2001 ad incremento delle unità effettivamente occupate al 31 dicembre 1998, in favore di tutti i datori di lavoro privati, (operanti nelle regioni Campania, Basilicata, Sicilia, Puglia, Calabria e Sardegna), chiarendo tuttavia successivamente (nel comma 6 L. n. 448/1998, richiamato dall'art. 44 L. n. 448/2001 ) il significato da attribuirsi alla locuzione "datori di lavoro", come riferibile soltanto all'attività propriamente di impresa ai sensi del comma 6 dell'art. 3 L. n. 448/1998.

La questione, del resto, è strettamente connessa alla seconda censura avente ad oggetto la possibile natura imprenditoriale dell'attività dell’avvocato, specie laddove la stessa sia esercitata mediante l'ausilio di dipendenti.

Questa Corte, sia pur con riferimento alla configurabilità di un atto di concorrenza sleale, ha evidenziato che la sussistenza di una situazione di concorrenzialità tra due o più imprenditori non può ritenersi applicabile ai rapporti tra professionisti (nella specie, avvocati), posto che (pur essendo innegabile che, sotto il profilo meramente ontologico, studi di liberi professionisti siano, di fatto, per personale, mezzi tecnici impiegati e quant’altro, assimilabili ad una azienda) l'intento del legislatore, inteso a differenziare nettamente la libera professione dall'attività d'impresa (intento confermato, tra l'altro, proprio con riguardo alla professione di avvocato, dal regime delle incompatibilità di cui all'art. 3 primo comma del R.D.L. 1578/1933, comprendente, tra l'altro, il divieto dell'esercizio del commercio in nome proprio o altrui, divieto privo di significato se lo studio professionale fosse assimilabile ad un'azienda commerciale) va interpretato ed attuato nel senso della inapplicabilità "tout court" del regime di responsabilità da concorrenza sleale ai rapporti tra liberi professionisti (Cass. 13.1.2005 n. 560).

Se poi è pur vero (Cass. n. 13677/2004, Cass. n. 2645/1982) che anche i professionisti intellettuali (in generale), possono teoricamente assumere la qualità di imprenditore commerciale quando esercitano la professione nell'ambito di un'attività organizzata in forma di impresa, ciò vale solo in quanto essi svolgano una distinta ed assorbente attività che si contraddistingue da quella professionale proprio per il diverso ruolo che assume il sostrato organizzativo - il quale cessa di essere meramente strumentale- e per il diverso apporto del professionista, non più circoscritto alle prestazioni d'opera intellettuale, ma involgente una prevalente opera di organizzazione di fattori produttivi che si affiancano all'attività tecnica ai fini della produzione del servizio.

In sostanza l'esercizio di una professione intellettuale non può mai, salvo il caso ora esaminato, configurarsi come attività di impresa, come evidenziato dalle sezioni unite di questa Corte (Cass. sez. un. n. 1889 del 1967), secondo cui lo studio di un professionista non può costituire un'azienda, secondo la nozione datane dall'art. 2555 cod. civ., che postula, insieme, un soggetto qualificato (imprenditore), ed un complesso di beni organizzati per l'esercizio di una determinata impresa. L'attività del libero professionista è invece sempre ancorata ad una prestazione d'opera intellettuale, non riconducibile ad un'attività economica organizzata ai fini della produzione o dello scambio di beni o servizi.

Identica questione è poi stata decisa in senso sfavorevole alla odierna ricorrente da questa Corte con sentenza n. 16092/2013.

La Corte ha in tale occasione altresì evidenziato che l'infondatezza della pretesa si basa anche sui principi desumibili dal diritto comunitario, evocato tanto dall'art. 3 cit, quanto dall'art. 44 cit, che subordinano l'efficacia del riconoscimento degli sgravi all'autorizzazione e ai vincoli della Commissione Europea ai sensi dell'art. 87 e ss. del Trattato e successive modificazioni. E la Commissione Europea, con provvedimento n. SG (99) D/6511 del 10.8.1999, ha sì ritenuto che l'aiuto di Stato di cui al summenzionato art. 3, commi 5 e 6, sia conforme alla politica comunitaria in materia di occupazione, ma ciò ha affermato sull'espresso presupposto, comunicato dal Governo italiano, che tali aiuti riguardassero le imprese.

In proposito va rammentato che il diritto comunitario vede con sfavore gli aiuti di Stato alle imprese (nel cui novero rientrano anche le politiche di sgravi contributivi) perché alterano la concorrenza, sicché essi possono impiegarsi in ambito nazionale solo come "extrema ratio" e nel rispetto delle predette regole comunitarie. Pertanto, sarebbe un’interpretazione contraria (non solo al diritto nazionale, ma anche) al diritto comunitario quella che estendesse gli sgravi in discorso anche ai datori di lavoro non imprenditori. La conclusione è confermata dall'approccio storicoteleologico, considerato che entrambe le norme (i citati L. n. 448 del 1998, art. 3, e L. n. 448 del 2001, art. 44) sono finalizzate a promuovere l'occupazione nel Mezzogiorno, vale a dire in una realtà territoriale carente nel settore dell'imprenditoria per numero e dimensioni delle imprese ivi operanti rispetto a quelle attive in altre regioni italiane, mentre non v’è ragione alcuna per supporre che la ratio dell'art. 44 cit. fosse quella di incentivare - sempre e soltanto nel Mezzogiorno - assunzioni di lavoro domestico o presso studi professionali od organizzazioni di tendenza prive di scopo di lucro (cioè assunzioni alle dipendenze di datori di lavoro non imprenditori).

Dunque, se la nozione di imprenditore propria del nostro ordinamento non può valere come supporto della domanda dell'odierna ricorrente, la giurisprudenza della C.G.U.E. è più ampia - rispetto a quella nazionale - in tema di individuazione del concetto di imprenditore (che non si rinviene nel Trattato); essa intende come imprenditore qualsiasi soggetto che, indipendentemente dallo stato giuridico e dalle modalità di finanziamento, eserciti un'attività economica (cfr. C.G.U.E. 7.7.08, causa C-49/07) e definisce attività economica qualunque attività consistente nell'offrire beni o servizi su un determinato mercato (cfr. C.G.U.E. 10.1.06, causa C-222/04), a prescindere dallo scopo di lucro eventualmente perseguito (cfr. C.G.U.E. 29.11.07, causa C-119/06).

Ma si tratta di nozione utile in tema di applicazione di norme comunitarie in generale, mentre nel caso di specie si verte su una materia - quella degli sgravi contributivi - che, anzi, costituisce deroga al principio comunitario contrario agli aiuti di Stato (come innanzi detto).

4. - Il ricorso deve dunque senz'altro rigettarsi.

Le spese di lite seguono la soccombenza e si liquidano, valutata la sola discussione orale da parte dell’INPS, come da dispositivo.

 

P.Q.M.

 

Rigetta il ricorso.

Condanna la ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità, che liquida in €. 100,00 per esborsi, €.1.500,00 per compensi, oltre accessori di legge.