Giurisprudenza - CORTE DI CASSAZIONE - Sentenza 08 febbraio 2016, n. 2436

Contratto a termine - Dipendenti postali - Nullità - Mancato rispetto della c.d. clausola di contingentamento

 

Svolgimento del processo

 

La Corte d'Appello di Roma, con sentenza del 14 ottobre 2009, riformando la decisione del Tribunale della stessa sede, dichiarava la nullità del termine apposto al contratto di lavoro intercorso tra L. M. e P.I. S.p.A. per il periodo dal 4 giugno 2001 al 30 settembre 2001 e, accertata la prosecuzione del rapporto di lavoro dopo il 30.9.2001, condannava P.I. al risarcimento del danno, pari alle retribuzioni spettanti dalla messa in mora del 29.10.2004, oltre accessori di legge.

Il termine al contratto era stato apposto, ai sensi dell’art. 25 del c.c.n.I. 11/1/2001, per "esigenze di carattere straordinario conseguenti a processi di riorganizzazione, ivi ricomprendendo un più funzionale riposizionamento di risorse sul territorio, anche derivanti da innovazioni tecnologiche, ovvero conseguenti all'introduzione e/o sperimentazione di nuove tecnologie, prodotti e o servizi, nonché a fronte della necessità di espletamento del servizio in concomitanza di assenze per ferie". La Corte territoriale riteneva che la nullità del termine derivasse dal fatto che la società non aveva provato il rispetto della c.d. clausola di contingentamento.

Per la cassazione della sentenza P.I. S.p.A. ha proposto ricorso, affidato a quattro motivi. L. M. ha resistito con controricorso e memoria ex art. 378 c.p.c.

 

Motivi della decisione

 

1. I motivi di ricorso possono essere così riassunti:

1.1. Con il primo, si deduce violazione e falsa applicazione dell'art. 2697 cod. civ. e della L. n. 230 del 1962, art. 3, per avere l'impugnata sentenza attribuito immotivatamente alla società ricorrente l’onere di provare il rispetto della clausola di contingentamento.

1.2. Con il secondo motivo si deduce omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione, nonché violazione e falsa applicazione degli artt. 115, 116 cod. proc. civ., 2697 c.c., per avere il giudice del gravame ritenuto il mancato rispetto della clausola di contingentamento, omettendo di tenere conto della documentazione prodotta dalla società e di ammettere la prova testimoniale articolata da entrambe le parti, nonché di utilizzare i poteri ufficiosi previsti dal codice senza neppure motivare il loro mancato esercizio.

1.3. Come terzo motivo si deduce violazione e falsa applicazione dell'articolo 25 del C.C.N.L. del 2001 e dell'articolo 23 della legge 56/87 e si sostiene che la violazione della clausola di contingentamento non potrebbe trovare una sanzione sul piano del contratto individuale, ma soltanto sul piano delle relazioni sindacali.

1.4. Con il quarto motivo P. denuncia, sempre ai sensi dell'art. 360 c.p.c., n. 3, la violazione e la falsa applicazione degli artt. 1206, 1207, 1217, 1219, 2094 e 2099 c.c., e censura la sentenza nella parte in cui ha condannato la società al pagamento delle retribuzioni in assenza di una valida costituzione in mora del datore di lavoro, non valendo allo scopo la richiesta del tentativo obbligatorio di conciliazione.

2. I primi tre motivi, che possono essere esaminati congiuntamente in quanto connessi, non sono fondati.

Va, in primo luogo, premesso che l'articolo 25 del C.C.N.L. del 2001, comma 3, riportato da entrambe le parti, ha previsto che "il numero dei lavoratori assunti con contratto a tempo determinato non potrà superare, su base regionale, il 5% del numero dei lavoratori in servizio alla data del 31 dicembre dell'anno precedente". Secondo la giurisprudenza di questa Corte, la determinazione da parte della contrattazione collettiva, in conformità di quanto previsto dalla L. n. 56 del 1987, art. 23, della percentuale massima di contratti a termine rispetto a quelli di lavoro a tempo indeterminato nell' azienda, è stabilita per la validità della clausola appositiva del termine per le causali individuate dalla medesima contrattazione collettiva (cfr. Cass. 24 novembre 2011, n. 22009, Cass. 3 marzo 2006, n. 4677, Cass. ord., n. 186 del 2016).

Ciò detto, con riferimento all'onere della prova dell'osservanza della percentuale dei lavoratori da assumere a termine rispetto ai dipendenti impiegati dall'azienda con contratto di lavoro a tempo indeterminato, la giurisprudenza di legittimità (cfr., in particolare, Cass. 19 gennaio 2010, n. 839 e, più di recente, Cass. 19 gennaio 2013, n. 701) ha ripetutamente precisato che il relativo onere è a carico del datore di lavoro, in base alla regola esplicitata dalla L. n. 230 del 1962, art. 3, secondo cui incombe al datore di lavoro dimostrare l’obiettiva esistenza delle condizioni che giustificano l'apposizione di un termine al contratto di lavoro.

2.1. Nel caso in esame, la sentenza impugnata ha fatto corretta applicazione dei menzionati principi, valutando se le deduzioni istruttorie e il materiale probatorio offerto dalla società fossero o meno idonei a dimostrare l’osservanza del limite percentuale fissato dalla contrattazione collettiva per il ricorso al contratto a termine. Nell'ambito di tale valutazione, ha rilevato che nel prospetto prodotto da P. risultava solo l'indicazione relativa alla media delle assunzioni a tempo indeterminato nell'anno 2001, successivo a quello di assunzione della ricorrente, mentre P. avrebbe dovuto indicare e provare, fornendo i relativi dati numerici, che la percentuale non era stata ancora raggiunta allorché la ricorrente era stata assunta; il dato fornito risultava quindi inconcludente, così come il capitolo di prova testimoniale che non poteva essere ammesso in quanto irrilevante.

Tale conclusione è basata su motivazione priva di vizi logici e quindi insindacabile in questa sede di legittimità, mentre il ricorrente non critica specificamente l'interpretazione data dalla Corte di merito alla disposizione contrattuale collettiva. Va infatti precisato, con riferimento alla denunciata violazione e/o falsa applicazione di legge, che la stessa in realtà integra una censura di vizio della motivazione, in quanto critica la valutazione che l'impugnata sentenza ha fatto delle risultanze di causa, mentre la sentenza impugnata ha vagliato le risultanze istruttorie, con un iter argomentativo esaustivo ed immune da contraddizioni e vizi logici, il che esclude la fondatezza delle doglianze svolte. Infine, quanto alla censura relativa alla mancata attivazione dei poteri di ufficio in materia di prova da parte dei giudici, si rileva che la società non specifica se abbia tempestivamente invocato tale esercizio, con la necessaria indicazione dell'oggetto possibile degli stessi.

4. Il quarto motivo è inammissibile, in quanto formulato in termini del tutto generici e astratti.

Deve infatti rilevarsi che la ricorrente richiama la giurisprudenza di questa Corte di Cassazione secondo la quale l'indennità risarcitoria può essere commisurata alle retribuzioni perdute a causa della mancata esecuzione delle prestazioni lavorative, purché queste siano state offerte dal lavoratore e siano state illegittimamente rifiutate, ma contesta che sia idonea allo scopo l'intimazione a ricevere la prestazione effettuata in occasione del tentativo obbligatorio di conciliazione. L'argomentazione non è però conferente, considerato che la Corte ha ritenuto che la messa in mora fosse stata realizzata in data 29.10.2004. Dell'atto valorizzato dalla Corte di merito indicato non sono tuttavia riportati gli estremi né il contenuto, né esso è allegato agli atti, in violazione del principio di autosufficienza che risulta ora tradotto nelle puntuali e definitive disposizioni contenute negli artt. 366, co.l, n.6 e 369, co. 2, n. 4 cod. proc. civ. .

Inoltre, P. lamenta che non sia stata accolta la sua richiesta di detrazione del l’aliunde perceptum, ma non contesta il passaggio motivazionale in cui la Corte territoriale riferisce che i mezzi istruttori proposti risultavano inammissibili in quanto articolati "ad esplorandum".

5. Così risultato inammissibile il motivo, riguardante le conseguenze economiche della nullità del termine, neppure potrebbe incidere in qualche modo nel presente giudizio lo ius superveniens, rappresentato dall'art. 32, commi 5, 6 e 7, della legge 4 novembre 2010 n. 183, in vigore dal 24 novembre 2010, data successiva alla notifica del ricorso introduttivo.

Al riguardo, infatti, come questa Corte ha più volte affermato, costituisce condizione necessaria per poter applicare nel giudizio di legittimità lo ius superveniens che abbia introdotto, con efficacia retroattiva, una nuova disciplina del rapporto controverso, il fatto che quest'ultima sia in qualche modo pertinente rispetto alle questioni oggetto di censura nel ricorso, in ragione della natura del controllo di legittimità, il cui perimetro è limitato dagli specifici motivi di ricorso (cfr. Cass. 8 maggio 2006 n. 10547, Cass. 27-2-2004 n. 4070). In tale contesto, è altresì necessario che il motivo di ricorso che investe, anche indirettamente, il tema coinvolto dalla disciplina sopravvenuta, oltre ad essere sussistente, sia altresì ammissibile secondo la disciplina sua propria (v. fra le altre Cass. 4-1-2011 n. 80 cit), il che non avviene nel caso.

6. Seguono il rigetto del ricorso e la condanna della parte soccombente al pagamento delle spese del giudizio, liquidate come da dispositivo, con distrazione in favore del difensore per la dichiarata anticipazione.

 

P.Q.M.

 

Rigetta il ricorso. Condanna la parte ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in € 3.500,00 per compensi professionali e di € 100,00 per esborsi, oltre accessori di legge, con distrazione favore del difensore.