Giurisprudenza - CORTE DI CASSAZIONE - Sentenza 27 gennaio 2016, n. 1529

Contratto a termine - Dipendenti postali - Esigenze eccezionali - Sussistenza di un unico rapporto di lavoro a tempo indeterminato

 

Svolgimento del processo

 

Con sentenza in data 26-6-2007 il Giudice del lavoro del Tribunale di Campobasso, in accoglimento della domanda proposta da C.P. nei confronti della s.p.a. Poste Italiane, dichiarava la nullità del termine finale apposto al contratto di lavoro intercorso tra le parti dal 2-6-2000 al 30-9-2000, per "esigenze eccezionali" ex art. 8 ccnl 1994 come integrato dall’acc. 25-9-97 e succ., e condannava la società al pagamento delle retribuzioni maturate dal tentativo di conciliazione, detratto quanto da quell’epoca ricevuto per altra attività lavorativa.

La società proponeva appello avverso la detta sentenza chiedendone la riforma con il rigetto della domanda di controparte.

La P. si costituiva e resisteva al gravame.

La Corte d’Appello di Campobasso, con sentenza depositata il 20-1-2010 rigettava l’appello e condannava l’appellante al pagamento delle spesse.

Per la cassazione di tale sentenza la società ha proposto ricorso con tre motivi.

La P. ha resistito con controricorso.

La società ha altresì depositato memoria ex art. 378 c.p.c.

 

Motivi della decisione

 

Preliminarmente va ritenuta inammissibile la questione relativa alla improponibilità dell’appello sollevata dalla controricorrente, per asserita acquiescenza da parte della società alla sentenza di primo grado, sul rilievo che in data 29/7/2004 la società e le OO.SS. nazionali di categoria hanno raggiunto un accordo sulla riorganizzazione del servizio recapito, definendo fra l'altro la ricollocazione di tutti quei lavoratori a tempo determinato i quali, adita l'Autorità Giudiziaria, hanno visto riconosciuto il proprio diritto ad essere assunti con contratto a tempo indeterminato, e stabilendo con le due successive intese del 30- 9- 2004, le modalità di copertura del servizio recapito anche attraverso la "gestione del fenomeno delle riammissioni ex CTD".

A parte ogni altra considerazione, trattasi, infatti, di questione nuova, della quale non vi è traccia nell’impugnata sentenza e sulla quale manca nel controricorso qualsiasi indicazione specifica in ordine alla avvenuta deduzione davanti ai giudici di appello.

Con il primo motivo la società ricorrente censura l’impugnata sentenza nella parte in cui ha respinto l’eccezione di risoluzione del rapporto per mutuo consenso tacito, nonostante la mancanza di una qualsiasi manifestazione di interesse alla funzionalità di fatto del rapporto, per un apprezzabile lasso di tempo anteriore alla proposizione della domanda e la conseguente presunzione di estinzione del rapporto stesso, con onere, in capo al lavoratore, di provare le circostanze atte a contrastare tale presunzione.

Il detto motivo è infondato.

Come questa Corte ha più volte affermato "nel giudizio instaurato ai fini del riconoscimento della sussistenza di un unico rapporto di lavoro a tempo indeterminato, sul presupposto dell’illegittima apposizione al contratto di un termine finale ormai scaduto, affinché possa configurarsi una risoluzione del rapporto per mutuo consenso, è necessario che sia accertata - sulla base del lasso di tempo trascorso dopo la conclusione dell’ultimo contratto a termine, nonché del comportamento tenuto dalle parti e di eventuali circostanze significative - una chiara e certa comune volontà delle parti medesime di porre definitivamente fine ad ogni rapporto lavorativo" (v. Cass. 10-11-2008 n. 26935, Cass. 28-9-2007 n. 20390, Cass. 17-12-2004 n. 23554, nonché da ultimo Cass. 18-11-2010 n. 23319, Cass. 11-3-2011 n. 5887, Cass. 4-8-2011 n. 16932). La mera inerzia del lavoratore dopo la scadenza del contratto a termine, quindi, "è di per sé insufficiente a ritenere sussistente una risoluzione del rapporto per mutuo consenso" (v. da ultimo Cass. 15-11-2010 n. 23057, Cass. 11-3-2011 n. 5887), mentre "grava sul datore di lavoro", che eccepisca tale risoluzione, "l’onere di provare le circostanze dalle quali possa ricavarsi la volontà chiara e certa delle parti di volere porre definitivamente fine ad ogni rapporto di lavoro" (v. Cass. 2-12-2002 n. 17070 e fra le altre da ultimo Cass. 1-2-2010 n. 2279, Cass. 15-11-2010 n. 23057, Cass. 11-3-2011 n. 5887).

Tale principio, del tutto conforme al dettato di cui agli artt. 1372 e 1321 c.c., va ribadito anche in questa sede, così confermandosi l’indirizzo prevalente ormai consolidato, basato in sostanza sulla necessaria valutazione dei comportamenti e delle circostanze di fatto, idonei ad integrare una chiara manifestazione consensuale tacita di volontà in ordine alla risoluzione del rapporto, non essendo all’uopo sufficiente il semplice trascorrere del tempo e neppure la mera mancanza, seppure prolungata, di operatività del rapporto. Al riguardo, infatti, non può condividersi il diverso indirizzo che, valorizzando esclusivamente il "piano oggettivo" nel quadro di una presupposta valutazione sociale "tipica" (v. Cass. 6-7-2007 n. 15264 e da ultimo Cass. 5-6-2013 n. 14209), prescinde del tutto dal presupposto che la risoluzione per mutuo consenso tacito costituisce pur sempre una manifestazione negoziale, anche se tacita (v. da ultimo Cass. 28-1-2014 n. 1780).

Orbene nella fattispecie la Corte di merito ha rilevato che l’entità del decorso del tempo tra la scadenza del contratto de quo ed il tentativo di conciliazione "non è significativamente lunga", "e ciò e la assenza di altre condotte concludenti della stessa appellata non possono configurare univoco disinteresse della P. al ripristino del suo rapporto di lavoro con Poste italiane s.p.a.".

Tale accertamento di fatto, conforme ai principi sopra richiamati, risulta altresì congniamente motivato e resiste alla censura della ricorrente.

Con il secondo motivo la ricorrente censura, ex art. 360, comma primo, numeri 3) e 5), l’impugnata sentenza nella parte in cui ha ritenuto la nullità del termine apposto al contratto de quo in quanto stipulato (per "esigenze eccezionali...") oltre la scadenza ultima fissata dagli accordi collettivi attuativi dell’acc. az. 25-9-1997 ed all’uopo sostiene la insussistenza di tale scadenza e la natura meramente ricognitiva dei detti accordi.

Anche tale motivo è infondato e va respinto.

In base alla giurisprudenza consolidata di questa Corte, "in materia di assunzioni a termine dei dipendenti postali, l'art. 23 della legge 28 febbraio 1987, n. 56, nel consentire anche alla contrattazione collettiva di individuare nuove ipotesi di legittima apposizione di un termine al contratto di lavoro, ha consentito il ricorso ad assunzione di personale straordinario nei soli limiti temporali previsti dalla contrattazione collettiva, con conseguente esclusione della legittimità dei contratti a termine stipulati oltre i detti limiti; resta altresì escluso che le parti sociali, mediante lo strumento dell'interpretazione autentica delle vecchie disposizioni contrattuali ormai scadute (volta ad estendere l'ambito temporale delle stesse), possano autorizzare retroattivamente la stipulazione di contratti non più legittimi per effetto della durata in precedenza stabilita, tanto più che il diritto del lavoratore si era già perfezionato e le organizzazioni sindacali non possono disporre dello stesso." (v. fra le altre Cass. 16-11-2010 n. 23120).

In particolare, come è stato precisato, "con l'accordo sindacale del 25 settembre 1997, integrativo dell'art. 8 del c.c.n.l. 26 novembre 1994, e con il successivo accordo attuativo, sottoscritto il 16 gennaio 1998, le parti hanno convenuto di riconoscere la sussistenza della situazione straordinaria, relativa alla trasformazione giuridica dell'ente e alla conseguente ristrutturazione aziendale e rimodulazione degli assetti occupazionali, fino alla data del 30 aprile 1998. Ne consegue che deve escludersi la legittimità delle assunzioni a termine cadute dopo il 30 aprile 1998 per carenza del presupposto normativo derogatorio, con l’ulteriore conseguenza della trasformazione degli stessi contratti a tempo indeterminato, in forza dell'art. 1 della legge 18 aprile 1962 n. 230" (v. Cass. 18-11-2011 n. 24281, cfr. Cass. 28-11-2008 n. 28450, 4-8-2008 n. 21062, Cass. 27-3-2008 n. 7979, Cass. 1-10-2007 n. 20608, Cass. 23-8-2006 n. 18378).

Con il terzo motivo la società ricorrente, in ordine alle richieste economiche, deduce che nella fattispecie la lavoratrice non avrebbe fornito la prova dell’effettivo danno subito, che comunque andrebbe ridotto in ragione dell'aliunde perceptum, e che neppure vi sarebbe stata una effettiva offerta della prestazione con conseguente mora accipiendi del datore di lavoro.

Tale motivo risulta del tutto generico e astratto, nonché privo di autosufficienza ed in parte anche inconferente con il decisum.

Posto, infatti, che la impugnata sentenza, sul punto, ha semplicemente confermato quanto riconosciuto nella sentenza di primo grado "con riferimento al tentativo di conciliazione e con detrazione dell’eventuale aliunde perceptum", la ricorrente censura tale decisione in modo assolutamente generico, senza riportare il testo dell’atto che, secondo il suo assunto, non avrebbe integrato la offerta della prestazione e la messa in mora e senza considerare che il decisum ha già previsto la detraibilità dell’aliunde perceptum.

Peraltro, anche con riguardo all’asserita mancata "indicazione dei mezzi di prova e dei documenti" da parte della attrice, la ricorrente non solo non riporta il contenuto dell’atto introduttivo della lavoratrice, ma, in sostanza, neppure indica specificamente se ed in quali termini la relativa questione sia stata sollevata con l’atto di gravame davanti ai giudici di appello.

Così risultato inammissibile il terzo motivo, riguardante le conseguenze economiche della nullità del termine, neppure potrebbe incidere in qualche modo nel presente giudizio lo ius superveniens, rappresentato dall’art. 32, commi 5°, 6° e 7° della legge n. 183 del 2010 (che andrebbe applicato nella fattispecie, ratione temporis - v. Cass. 20-10-2015 n. 21266 sulla irretroattività dell’art. 28 del d.lgs. n. 81 del 2015 -).

Al riguardo, infatti, come questa Corte ha più volte affermato, in via di principio, costituisce condizione necessaria per poter applicare nel giudizio di legittimità lo ius superveniens che abbia introdotto, con efficacia retroattiva, una nuova disciplina del rapporto controverso, il fatto che quest’ultima sia in qualche modo pertinente rispetto alle questioni oggetto di censura nel ricorso, in ragione della natura del controllo di legittimità, il cui perimetro è limitato dagli specifici motivi di ricorso {cfr. Cass. 8 maggio 2006 n. 10547, Cass. 27-2-2004 n. 4070).

In tale contesto, è altresì necessario che il motivo di ricorso che investe, anche indirettamente, il tema coinvolto dalla disciplina sopravvenuta, oltre ad essere sussistente, sia altresì ammissibile secondo la disciplina sua propria (v. fra le altre Cass. 4-1-2011 n. 80).

Orbene tale condizione non sussiste nella fattispecie.

Il ricorso va pertanto respinto e la ricorrente, in ragione della soccombenza, va condannata al pagamento delle spese in favore della controricorrente.

 

P.Q.M.

 

Rigetta il ricorso e condanna la società ricorrente a pagare alla controricorrente le spese, liquidate in euro 100,00 per esborsi e euro 3.500,00 per compensi, oltre spese generali e accessori di legge.