Giurisprudenza - CORTE DI CASSAZIONE - Sentenza 27 gennaio 2016, n. 3547

Sequestro preventivo per equivalente dei beni immobili, mobili registrati e mobili, nonché delle somme di denaro depositate sui conti correnti - Reato di omessa dichiarazione in concorso relativa alle imposte dirette ed indirette

 

1. Con ordinanza emessa in data 3/06/2015, depositata in data 10/06/2015, il tribunale del riesame di NAPOLI, in accoglimento dell'appello del P.M., disponeva il sequestro preventivo per equivalente, sino alla concorrenza della somma di e 962.764,42, dei beni immobili, mobili registrati e mobili, nonché delle somme di denaro depositate sui conti correnti od altri rapporti finanziari di proprietà o comunque nella disponibilità dell'indagata (...); giova precisare, per migliore intelligibilità dell'impugnazione, che il sequestro è stato disposto in quanto l'indagata è sottoposta ad indagini per il reato di omessa dichiarazione in concorso (artt. 110, cod. pen. e 5, d. Igs. n. 74 del 2000), poiché, quale socia al 51% della società (...) s.r.l., unitamente al socio al 49% della società medesima, (...), al fine di evadere le imposte sui redditi e/o sul valore aggiunto, non presentavano, essendovi obbligati, per gli anni 2008 e 2009 la dichiarazione annuale relativa alle imposte dirette ed indirette, e precisamente: a) per l'anno 2008, ricavi non dichiarati pari ad € 1.327.645,13, con evasione IRES pari ad € 329.124,32 ed evasione IVA pari ad € 265.529,03; b) per l'anno 2009, ricavi non dichiarati pari ad € 827.601,79, con conseguente evasione IRES pari ad € 202.590,72 ed evasione IVA pari ad € 165.520,36.

2. Ha proposto ricorso (...) personalmente, impugnando la ordinanza predetta con cui deduce un unico, articolato, motivo, di seguito enunciato nei limiti strettamente necessari per la motivazione ex art. 173 disp. att. cod. proc. pen.

2.1. Deduce, con tale unico motivo, il vizio di cui all'art. 606, lett. b) e c), cod. proc. pen., sotto il profilo della violazione di legge in relazione agli artt. 110 c.p. e 5, d. Igs. n. 74 del 2000 nonché in relazione agli artt. 321 e segg. c.p.p. e della normativa in tema di sequestro per equivalente, sotto il profilo dell'assenza del fumus commissi delicti e per la mancanza dei presupposti per il sequestro preventivo per equivalente.

In sintesi, la censura investe l'impugnata ordinanza in quanto, sostiene la ricorrente, la stessa risponde del delitto ipotizzato in concorso soltanto perché socio della "(...) S. R. L.", senza mai aver ricoperto la carica di amministratore né tantomeno alcun ruolo decisionale all'interno della predetta società; non vi sarebbe alcuna prova sulla effettiva apprensione degli utili societari da parte della ricorrente, né tantomeno alcuna attività posta in essere dalla medesima indagata, che possa lasciar desumere un effettivo e reale coinvolgimento della stessa nella vicenda in esame; nel caso di specie, non apparirebbe in alcun modo comprovato che la (...) abbia conseguito il profitto illecito del reato, e dunque mancherebbe il presupposto fondamentale per il sequestro preventivo; in particolare, nel caso in esame il fumus del reato di omessa dichiarazione sarebbe stato ritenuto sussistente dal pubblico ministero e dal tribunale del riesame sulla base di una doppia presunzione, la prima fondata sul dato formale della mancata presentazione delle dichiarazioni annuali, la seconda sulla ipotetica possibilità che la ricorrente, ricoprendo lo status di socio, abbia potuto beneficiare delle somme non corrisposte all'erario; detta motivazione sarebbe censurabile, in quanto la predetta doppia presunzione non sarebbe sufficiente ad integrare il fumus del delitto ipotizzato, sia perché in atti non vi sarebbe prova delle movimentazioni economiche della società - e dunque di una effettiva realizzazione dell'imposta evasa -, sia perché non risulterebbe concretamente dimostrato alcun effettivo ruolo in capo alla ricorrente, quanto meno in termini di spartizione degli utili societari; a tacer d'altro, il tribunale del riesame, impropriamente ritiene che la società fosse di fatto amministrata dalla (...) e dall'altro socio, in particolare i giudici avrebbero omesso del tutto di considerare che alla morte dell'amministratore (...), l'azienda non avrebbe più espletato alcuna attività; ne conseguirebbe dunque, l'evidenza di un mancato accertamento sia in ordine alla responsabilità penale della ricorrente, che in generale dell'effettiva realizzazione dell'imposta evasa e della apprensione degli utili; la decisione impugnata contrasterebbe con l'orientamento giurisprudenziale che richiede ai fini del sequestro per equivalente la necessità di un accertamento sulla effettiva realizzazione della evasione di imposta e, tra l'altro, non risulterebbe dimostrato in alcun modo che alcun bene in possesso della ricorrente possa costituire profitto o prezzo della fattispecie penale ipotizzata; in ogni caso, si rileva come il Gip, nel rigettare l'originaria richiesta di sequestro preventivo avanzata dal pubblico ministero, aveva correttamente affermato la invalidità dei risultati della verifica fiscale eseguita dalla Guardia di Finanza, che aveva determinato la cessione dei beni negli anni d'imposta nonché gli importi riguardanti i ricavi non dichiarati, e di conseguenza quelli delle imposte evase, con metodo induttivo; a tal proposito, la ricorrente evidenzia come la stessa informativa di reato non contemplasse assolutamente il criterio seguito per determinare i ricavi aziendali donde era del tutto aleatorio e non pienamente comprovato il raggiungimento del risultato finale circa la presunta imposta evasa, trattandosi di un accertamento di tipo presuntivo ottenuto con metodo induttivo applicato nella materia tributaria; conseguirebbe, pertanto, la violazione dei principi più volte affermati da questa Corte (di cui la ricorrente richiama alcune massime giurisprudenziali), secondo cui non potrebbe farsi ricorso alla presunzione tributaria prevista per le indagini finanziarie ai fini dell'accertamento della configurabilità della reato di omessa dichiarazione, spettando al giudice penale la determinazione dell'ammontare dell'imposta evasa, procedendo d'ufficio ai necessari accertamenti; sarebbe poi discutibile il criterio adottato dal pubblico ministero e dal tribunale del riesame, per determinare la somma da sequestrare, non solo per il mancato effettivo trattamento della stessa con criteri che prescindono dalla esclusiva verifica tributaria ma anche in relazione al quantum rispetto a ciascun indagato; in tal senso, sostiene la ricorrente, il pubblico ministero avrebbe dovuto concretamente indicare sia i beni da sottoporre al sequestro, sia in che misura il sequestro andasse disposto rispetto ai singoli indagati; a tal fine rileva la ricorrente come l'ordinanza, nel disporre la confisca per l'intera somma alla luce dello stralcio delle posizioni degli indagati, avrebbe di fatto cagionato una inevitabile duplicazione degli importi costituenti il profitto del reato, poiché, in caso di accoglimento dell'appello del pubblico ministero per quanto concerne la posizione del coindagato (...), si rischierebbe di sequestrare due volte per ciascun indagato fino al raggiungimento della medesima cifra ovvero una sproporzione tra i singoli indagati, atteso che una infruttuosa escussione dei beni dell'uno si ripercuoterebbe sull'intero patrimonio dell'altro indagato che sarebbe sottoposto a sequestro; infine vi sarebbe una evidente sproporzione tra il valore economico dei beni da sottoporre al sequestro ed una inevitabile eccedenza rispetto al complessivo ammontare, avendo infatti il tribunale omesso di prevedere, che, alla luce proprio dello stralcio disposto, l'intera somma sarà altresì sequestrata per equivalente anche all'altro indagato, così ottenendosi una duplicazione degli importi "contra legem".

 

Considerato in diritto

 

3. Deve, preliminarmente, rilevarsi la ritualità della notifica dell'avviso di fissazione dell'udienza camerale dinanzi a questa Corte per l'udienza odierna; ed invero, la ricorrente, con dichiarazione depositata in data 24/07/2015 presso la cancelleria del Tribunale del riesame di Napoli, ha dichiarato il proprio domicilio (ma sarebbe più corretto dire "eletto", avendo indicato il nominativo di una persona determinata) presso (...), c/o (...); dalla relata di notifica negativa al domicilio dichiarato dell'ufficiale giudiziario datata 15/10/2015, risulta non solo che all'indirizzo indicato v'è il (...) e non il (...), ma anche, e soprattutto, che il nominativo della persona indicata quale domiciliataria non risultava dall'impianto citofonico; ne consegue, pertanto, che correttamente l'avviso dell'udienza odierna è stato notificato nelle forme dell'art. 161, comma quarto, cod. proc. pen. presso il difensore nominato d'ufficio, Avv. (...).

4. Nel merito, il ricorso è infondato.

4.1. Al fine di rilevare la infondatezza delle doglianze mosse dalla ricorrente contro l'ordinanza impugnata, è sufficiente analizzare il percorso argomentativo nella decisione qui censurata.

Il tribunale del riesame, dopo aver descritto l'imputazione cautelare e richiamate le ragioni che avevano ridotto il Gip a respingere l'originaria richiesta di sequestro preventivo per equivalente avanzata dal pubblico ministero, precisa che lo stralcio della posizione del coindagato all'udienza del 3/6/2015 si era resa necessaria per un'omessa notifica dell'avviso di fissazione dell'udienza camerale; i giudici del riesame passano poi ad esaminare e, nel contempo a confutare, tutte le doglianze riproposte sostanzialmente in maniera pedissequa nelle censure di illegittimità.

In particolare, nel giustificare l'accoglimento dell'appello del pubblico ministero, il tribunale del riesame focalizza l'attenzione su quattro punti, i quali rappresentano la risposta alle censure sollevate davanti a questa Corte. Ricordano i giudici del riesame, che il procedimento penale segue ad una verifica fiscale eseguita nei confronti della società dall'1 gennaio 2008 all'8/1/2014; in assenza della esibizione dei registri contabili obbligatori e delle bollette degli acquisti effettuati, la polizia giudiziaria aveva utilizzato ai fini della ricostruzione del reddito della società il cosiddetto metodo induttivo; in particolare una volta accertato che la società aveva effettuato acquisti dalla Cina per oltre € 546.000 nel 2008 e per oltre € 340.000 nel 2009, la Guardia di Finanza aveva determinato i ricavi non dichiarati utilizzando il metodo induttivo, in oltre € 1.327.000 per il 2008 ed in oltre € 827.000 per il 2009, determinando la base imponibile netta non dichiarata rispettivamente in oltre € 781.000 con Iva dovuta per un importo superiore a € 265.000 ed in oltre € 487.000 con Iva dovuta per un importo superiore a € 165.000; con analogo criterio erano stati determinati gli elementi positivi di reddito non dichiarati, derivanti dalla cessione dei beni, acquistati da paesi extracomunitari, senza emissione di documento fiscale, per un importo pari ad oltre € 781.000 (utile di esercizio, pari alla differenza tra ricavi conseguiti costi sostenuti), con una evasione di IRES per oltre € 329.000 per il 2008, e pari ad oltre € 487.000 con evasione di IRES per oltre € 202.000 per il 2009.

5. Tanto premesso, i giudici del riesame non hanno condiviso la tesi del primo giudice laddove ha escluso la possibilità di fare ricorso in ambito penale all'utilizzo del metodo induttivo; sul punto il tribunale ricorda come, ai fini del superamento della soglia di punibilità del reato di omessa dichiarazione, la giurisprudenza di questa Corte ritiene che il giudice possa legittimamente avvalersi dell'accertamento induttivo compiuto dagli uffici finanziari per determinare l'imponibile, soprattutto quando le scritture contabili imposte dalla legge non siano state regolarmente tenute; lo stesso tribunale precisa che detto principio non contrasta con quello richiamato dal Gip, incentrato sulla necessità della prevalenza del dato fattuale reale rispetto a criteri di natura meramente formale, a tal proposito richiamando copiosa giurisprudenza di legittimità secondo la quale l'accertamento induttivo ben può rappresentare un valido elemento di indagine per stabilire, in sede penale, se vi sia stata evasione e se questa abbia raggiunto le soglie di punibilità previste dalla legge; conseguirebbe, dunque, che nella fase cautelare, specie nei casi in cui non vengano rinvenute né consegnate le scritture contabili obbligatorie per legge (come nel caso in esame, nel quale inoltre nel corso delle operazioni di verifica, i soci non hanno fornito alcuna ricostruzione alternativa), è sufficiente a fondare il fumus del reato contestato anche l'esito delle indagini condotte con metodo induttivo.

Trattasi di motivazione giuridicamente, corretta, posto che più volte questa Corte ha infatti affermato che ai fini dell'individuazione del superamento o meno della soglia di punibilità di cui all'art. 5 D.Lgs. n. 74 del 2000, spetta esclusivamente al giudice penale il compito di procedere all'accertamento e alla determinazione dell’ammontare dell'imposta evasa, attraverso una verifica che può venire a sovrapporsi ed anche ad entrare in contraddizione con quella eventualmente effettuata dinanzi al giudice tributario (Sez. 3, n. 21213 del 26/02/2008 - dep. 28/05/2008, De Cicco, Rv. 239984). Trattasi, peraltro, di principio non contrastante con quello richiamato dalla ricorrente e più volte riaffermato da questa stessa Sezione (v., da ultimo: Sez. 3, n. 38684 del 04/06/2014 - dep. 23/09/2014, Agresti, Rv. 260389), secondo cui in tema di reati tributari ai fini della configurabilità del delitto di omessa presentazione di dichiarazione Iva (art. 5 D.Lgs. n. 74 del 2000), è rimesso al giudice penale il compito di accertare l'ammontare dell'imposta evasa, da determinarsi sulla base della contrapposizione tra ricavi e costi d'esercizio detraibili, mediante una verifica che, privilegiando il dato fattuale reale rispetto ai criteri di natura meramente formale che caratterizzano l'ordinamento fiscale, può sovrapporsi ed anche entrare in contraddizione con quella eventualmente effettuata dinanzi al giudice tributario. Va, infatti, precisato che, mentre nella fase delle indagini preliminari, in cui prevale l'esigenza di rapidità accertativa e non è possibile, soprattutto, in fase cautelare, svolgere approfondimenti istruttori al fine di accertare funditus l'ammontare dell'imposta evasa (v., per tutte: Sez. 3, n. 43695 del 10/11/2011 - dep. 25/11/2011, Bacio Terracina Coscia, Rv. 251329), il ricorso al c.d. metodo induttivo e, in genere, alle presunzioni tributarie è di regola ritenuto ammissibile da questa Corte, diversamente, nella fase di merito propriamente detta, in cui il giudice penale riacquista e ben può esercitare nella totale ampiezza i suoi poteri accertativi istruttori, si verifica, per così dire, una riespansione dell'autonomia valutativa del giudice penale che, come affermato dalla richiamata giurisprudenza da parte della ricorrente, consente ed, anzi, impone all'autorità giudiziaria penale il diritto - dovere di procedere, in autonomia, all'accertamento dell'imposta evasa al fine di verificare il superamento o meno della soglia di punibilità prevista ex lege per il reato de quo.

A ciò, peraltro, va aggiunto che il ricorso a tale metodologia di accertamenti induttivo è vieppiù legittima (e legittimata) quando le scritture contabili imposte dalla legge siano state irregolarmente tenute (Sez. 3, n. 5786 del 18/12/2007 - dep. 06/02/2008, D'Amico, Rv. 238825).

6. Secondo profilo di doglianza il tribunale del riesame supera agevolmente, è quello relativo alla imputazione soggettiva della condotta illecita.

Sul punto, il tribunale del riesame rileva come dalla informativa di reato e dai documenti allegati risulti che la carica di amministratore della società, inizialmente rivestita dall'attuale indagata, era stata successivamente ricoperta dal 31/3/2008 al 27/4/2009, giorno del decesso, da tale (...), ed i soci non avevano poi provveduto a nominare successivamente alla sua morte un nuovo amministratore; tale Inerzia secondo il tribunale, tenuto conto della ristretta composizione della compagine sociale, indurrebbe fondatamente a ritenere che i soci abbiano amministrato di fatto la società, ciò che consentirebbe di individuarli quali soggetti attivi del reato e imputare a costoro l'omessa dichiarazione ai fini delle imposte dirette ed Iva, anche per l'anno 2008, atteso che per i redditi conseguiti in tale annualità il termine per la dichiarazione scadeva il 30 settembre 2009; condurrebbe altresì nel senso di ritenere che i soci fossero amministratori di fatto, l'età avanzata dell'amministratore (nata nel 1925 e dunque ultraottantenne negli anni 2008/2009), circostanza quindi rilevante a livello indiziario e poco compatibile con l'amministrazione della società e la gestione di traffici con la Cina.

Trattasi, a giudizio del Collegio di motivazione condivisibile, atteso che, come ricordato dai giudici del riesame (Sez. 3, n. 23425 del 28/04/2011 - dep. 10/06/2011, Ceravolo, Rv. 250962) e come ribadito più volte dalla giurisprudenza di questa Corte, del reato di omessa presentazione della dichiarazione ai fini delle imposte dirette o IVA, l'amministratore di fatto risponde quale autore principale, in quanto titolare effettivo della gestione sociale e, pertanto, nelle condizioni di poter compiere l'azione dovuta, mentre l'amministratore di diritto, quale mero prestanome, è responsabile a titolo di concorso per omesso impedimento dell'evento (artt. 40, comma secondo, cod. pen. e 2932 cod. civ.), a condizione che ricorra l'elemento soggettivo richiesto dalla norma incriminatrice (Sez. 3, n. 38780 del 14/05/2015 - dep. 24/09/2015, Biffi, Rv. 264971). Ciò in altri termini comporta che, a fronte di una valutazione compiuta in via indiziaria, soprattutto nella presente fase incidentale cautelare caratterizzata dalla necessaria sommarietà della delibazione del tribunale del riesame, la mera presenza di un amministratore di diritto, tipico prestanome, non vale certo ad escludere la responsabilità degli amministratori di fatto (e, nella specie, può aggiungersi proprio la circostanza che la (...) fosse il precedente amministratore e abbia poi mantenuto la quota di maggioranza societaria, ne consolida e conferma la veste di amministratore di fatto) che, per la giurisprudenza richiamata, rispondono del reato tributario contestato quali autori principali, in quanto titolari effettivi della gestione sociale.

7. Ad analogo approdo deve pervenirsi con riferimento al terzo punto affrontato dei giudici del riesame, laddove in particolare essi non condividono quanto affermato dal Gip circa la necessità in ogni caso di aggredire le somme di denaro nella disponibilità degli indagati, secondo lo schema della confisca diretta, e solo successivamente, in ipotesi di impossibilità, gli ulteriori beni secondo lo schema della confisca per equivalente.

Ed invero, i giudici del tribunale del riesame osservano come la tesi sostenuta non tiene conto del fatto che nel caso in esame la confisca diretta del profitto dovrebbe riguardare somme di denaro nella disponibilità della persona giuridica e non delle persone fisiche autori del reato, essendo infatti la persona giuridica il soggetto che ha evaso l'imposta dovuta; richiamando in particolare l'ormai nota pronuncia delle Sezioni Unite Gubert, il tribunale del riesame ricorda che il pubblico ministero è legittimato, sulla base del compendio indiziario emergente dagli atti processuali, a chiedere al giudice il sequestro preventivo nella forma per equivalente, invece che in quella diretta, all'esito di una valutazione allo stato degli atti in ordine alle risultanze relative al patrimonio dell'ente che ha tratto vantaggio dalla commissione del reato, non essendo invece necessario il compimento di specifici ed ulteriori accertamenti preliminari per rinvenire il prezzo o il profitto nelle casse della società o per ricercare in forma generalizzata i beni che ne costituiscono la trasformazione, incombendo invece al soggetto destinatario del provvedimento cautelare l'onere di dimostrare la sussistenza dei presupposti per disporre il sequestro in forma diretta; rileva sul punto il tribunale, che, nel caso in esame, dall'attività di indagine risulta che la società non è più operativa, ciò che indurrebbe fortemente a dubitare della fruttuosità di accertamenti volti a rinvenire nelle casse sociali somme di denaro pari all'ammontare delle imposte evase.

Non può che convenirsi con la soluzione fornita dai giudici del riesame, atteso che, come ricorda il tribunale del riesame campano, si tratta di principio più volte ribadito da questa stessa Sezione (v., da ultimo, in senso conforme: Sez. 3, n. 41073 del 30/09/2015 - dep. 13/10/2015, P.M. in proc. Scognamiglio, Rv. 265028; Sez. 3, n. 1738 del 11/11/2014 - dep. 15/01/2015, Bartolini, Rv. 261929). A ciò, peraltro, va aggiunto che, in generale è legittimo il sequestro preventivo finalizzato alla confisca diretta del profitto rimasto nella disponibilità di una persona giuridica, derivante dal reato tributario commesso dal suo legale rappresentante, non potendo considerarsi l’ente una persona estranea al detto reato; tuttavia, si è precisato da questa Corte, al fine di poter disporre la confisca diretta del profitto nei confronti della persona giuridica è pur sempre necessario che risulti la disponibilità nelle casse societarie di denaro da aggredire, non sussistendo un obbligo per la Pubblica Accusa di dover provvedere alla preventiva ricerca di liquidità o cespiti anche nel caso in cui risulti "ex actis" l'incapienza del patrimonio dell’ente (Sez. 3, n. 6205 del 29/10/2014 - dep. 11/02/2015, Mataloni e altro, Rv. 262770, principio affermato in relazione a fattispecie in cui la Corte ha ritenuto legittimo il sequestro per equivalente in quanto dagli atti emergeva una situazione di oggettiva illiquidità desumibile dalla autorizzazione alla C.I.G. e dalla approvazione del programma di crisi aziendale). Orbene, nel caso in esame, con affermazione non censurabile, i giudici del riesame hanno evidenziato come tale ordine di priorità (in prima battuta, sequestro finalizzato alla confisca diretta; in seconda battuta, sequestro finalizzato alla confisca per equivalente) non fosse concretamente esperibile in quanto la società non era più operativa al momento del richiesto sequestro, ciò che consentiva ragionevolmente di dubitare della fruttuosità degli accertamenti volti a rinvenire nelle casse sociali somme di denaro pari all'ammontare delle imposte evase.

8. Ultimo punto affrontato dai giudici del riesame, infine, riguarda la censura relativa alla omessa individuazione specifica dei beni da apprendere e all'omessa verifica della corrispondenza del loro valore al quantum indicato nel sequestro. Sul punto, il tribunale del riesame ricorda come il giudice che emette il provvedimento ablativo è tenuto soltanto ad indicare l'importo complessivo da sequestrare, mentre la predetta individuazione e la richiamata verifica sono riservate alla fase esecutiva demandata al pubblico ministero; a tal fine il tribunale del riesame richiama giurisprudenza di questa Corte, la quale ritiene che soltanto nel caso di lamentata sproporzione tra il valore economico dei beni sequestrati e l'ammontare delle cose sottoposte a vincolo, il soggetto destinatario del provvedimento ablativo può contestare tale eccedenza al fine di ottenere una riduzione della garanzia (si aggiunge peraltro che nel caso in esame la sproporzione non sarebbe nemmeno stata dedotta né emergerebbe alla luce dell'ammontare dell'imposta evasa e del verosimile valore dei beni di proprietà dell'indagata indicati al foglio 7 dell'informativa della Guardia di Finanza); i giudici del riesame, infine, chiariscono come il sequestro per equivalente debba essere disposto sino alla concorrenza dell'importo pari all'intero ammontare delle imposte evase, in applicazione del principio giurisprudenziale secondo cui il sequestro preventivo funzionale alla confisca per equivalente del profitto o del prezzo del reato di corruzione può incidere contemporaneamente od indifferentemente sui beni di ciascuno dei concorrenti nel reato, senza, però, poter complessivamente eccedere il valore del suddetto prezzo o profitto e ciò perché il sequestro preventivo non può avere un ambito più vasto della futura confisca (Sez. 6, n. 34566 del 22/05/2014 - dep. 06/08/2014, Pieracci, Rv. 260815).

Anche in tal caso, non può che convenirsi con quanto sostenuto dal tribunale del riesame che ha fatto buon governo dei principi, più volte affermati da questa Corte, secondo cui, da un lato, in tema di sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente, il giudice che emette il provvedimento ablativo è tenuto soltanto ad indicare l'importo complessivo da sequestrare, mentre l'individuazione specifica dei beni da apprendere e la verifica della corrispondenza del loro valore al "quantum" indicato nel sequestro è riservata alla fase esecutiva demandata al pubblico ministero (v., da ultimo, in senso conforme: Sez. 2, n. 36464 del 21/07/2015 - dep. 09/09/2015, Armeli e altro, Rv. 265058); dall'altro, che il sequestro preventivo funzionale alla confisca per equivalente del profitto o del prezzo del reato di corruzione può incidere contemporaneamente od indifferentemente sui beni di ciascuno dei concorrenti nel reato, senza, però, poter complessivamente eccedere il valore del suddetto prezzo o profitto e ciò perché il sequestro preventivo non può avere un ambito più vasto della futura confisca (v., ad esempio: Sez. 6, n. 34566 del 22/05/2014 - dep. 06/08/2014, Pieracci, Rv. 260815).

E, nel caso di specie, non rileva - precisa questa Corte - la circostanza che siasi disposto lo "stralcio" della posizione del coindagato (...), atteso che, allo stato, essendo stata separata la posizione processuale di quest'ultimo da quella della (...), in costanza di un provvedimento del GIP, pur impugnato dal P.M. (ma di cui sono sconosciuti gli esiti dinanzi al tribunale del riesame che all'ud. 3/06/2015 ne ha legittimamente disposto la separazione), quanto rappresentato dalla ricorrente circa il possibile timore di una duplicazione del sequestro, non riveste carattere di attualità, e, quindi, è del tutto privo di pregio giuridico soprattutto a fronte dell'esistenza - quanto al (...) di un provvedimento del GIP di rigetto del richiesto sequestro.

9. Il ricorso dev'essere, dunque, rigettato con condanna della ricorrente al pagamento delle spese processuali ex art. 616 cod. proc. pen.

 

P.Q.M.

 

Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese del procedimento.