Giurisprudenza - CORTE DI CASSAZIONE - Sentenza 21 gennaio 2016, n. 1095

Fallimento ed altre procedure concorsuali - Fallimento - Partecipazione di una società di capitali in una società di persone di fatto - Dichiarazione di fallimento della società di fatto - Sussiste - Estensione ai soci, società di capitali - Condizioni

 

Svolgimento del processo

 

Il Tribunale di Foggia con sentenza del 23 marzo 2012 dichiarò il fallimento della D. Import Export s.r.l., e, quindi, della società di fatto, riconosciuta insolvente, esistente tra detta società a responsabilità limitata, la D. Trade s.r.l. e la D. Produce s.r.l., provvedendo, infine, a dichiarare il fallimento in estensione delle due socie illimitatamente responsabili.

La Corte d'appello di Bari con sentenza del 31 dicembre 2012 ha, respinto il reclamo.

La corte territoriale ha ritenuto che il nuovo testo degli art. 2361 c.c. e 111 duodecies att. c.c. abbia risolto la questione dell'ammissibilità della partecipazione di società di capitali a società di persone. Tuttavia, la prima norma, dettata in tema di s.p.a., non è estensibile, quanto alle prescrizioni in essa contenute, anche alla s.r.l., per le quali la partecipazione in esame costituisce atto gestorio proprio degli amministratori, qualora non comporti la modificazione dell'oggetto sociale, a norma dell'art. 2479, 2° comma, n. 5, c.c.

Pur ove la norma fosse applicabile, del resto, la deliberazione assembleare, nel contesto dell'art. 2361 c.c., mira a rimuovere un limite ai poteri gestori all'unico fine di esonerare gli amministratori da responsabilità sociale, mentre l'assunzione della partecipazione resta valida ed efficace, come in altre fattispecie ove è richiesta la previa deliberazione assembleare (azioni proprie o della controllante); l'indicazione nella nota integrativa, dal suo canto, è posta a tutela dei soli creditori della società di capitali, avendo i soci altri strumenti a disposizione, di carattere preventivo e sanzionatorio.

La sottrazione a fallimento, invece, costituirebbe un privilegio discendente da un'omissione e non sarebbe ragionevole, nel bilanciamento degli interessi dei creditori della società di capitali e di quelli della società di fatto che sull'unicità del centro d'imputazione abbiano confidato, preferire i primi, posto che la deliberazione autorizzativa non è soggetta a pubblicità (così come non ricevono alcuna tutela i creditori del socio occulto di società palese).

Ne deriva che, in caso di fallimento della società di persone, la società di capitali dovrà essere dichiarata fallita.

Nella specie, ha osservato la corte territoriale che non si tratta del fallimento in estensione da società di capitali ad altra società di capitali, avendo invece correttamente il tribunale dichiarato il fallimento della società di fatto, riconoscendone prima l'esistenza e poi l'insolvenza, e, quindi, in applicazione dell'art. 147, 1° comma, l.f., dichiarato il fallimento di ciascun socio della società di fatto medesima.

Gli elementi raccolti, infine, secondo la sentenza impugnata, confermano la prova piena della sussistenza del vincolo sociale e dell'insolvenza della società di fatto, esistendo plurimi indizi della sussistenza di un'unica struttura economica associativa e dei presupposti della fallibilità; quanto alle altre s.r.l., il fallimento può essere dichiarato in estensione di quello della società di fatto.

Avverso questa sentenza propongono ricorso la D. Trade s.r.l. e la D. Produce s.r.l., affidato ad un motivo. Resiste la curatela con controricorso. Le parti hanno depositando pure le memorie di cui all'art. 378 c.p.c.

 

Motivi della decisione

 

1. - Con l'unico motivo, le ricorrenti denunziano la violazione o la falsa applicazione degli art. 2361, 2384, 2479 c.c. e dell'art. 147 l.f., in quanto l'acquisto della partecipazione, da parte di una società di capitali, in una società di persone è di competenza esclusiva dell'assemblea, quale limite legale ai poteri gestori e di rappresentanza degli amministratori, onde esso deve essere necessariamente espresso, restando inefficace ove compiuto senza le condizioni previste dall'art. 2361 c.c.

In sostanza, è inammissibile la società di fatto tra società di capitali, essendo consentita solo quella in società regolare, con disposizione applicabile in via diretta alla s.r.l., per la quale l'art. 2479 c.c., da leggere alla luce dell'art. 2361, palesa come vi sia un'area inderogabile di competenze dei soci, fra cui è senz'altro da ricondurre l'assunzione della partecipazione in discorso. Ciò, a tutela dei soci e dei creditori di società di capitali, che vedrebbero la propria società assumere, a loro insaputa, lo status di soggetto fallibile per in assenza di insolvenza, come avviene per il fallimento in estensione ai sensi dell'art. 147, 4° comma, l.f.

Né l'estensione del fallimento iniziale di una società di capitali ad una presunta società di fatto potrebbe fondarsi sull'art. 147, 5° comma, l.f., norma eccezionale e riferibile solo all'iniziale fallimento di un imprenditore individuale.

2. - Il complesso motivo proposto pone la questione relativa alla fallibilità di una società di capitali, nella specie società a responsabilità limitata, che si accerti essere socia di una società di fatto insolvente, allorché la partecipazione sia stata assunta in mancanza della previa deliberazione assembleare e della successiva indicazione nella nota integrativa al bilancio, richieste dall’art. 2361, 2° comma, c.c.

Tale riassuntiva questione ne contiene, quali necessari passaggi logico-giuridici, diverse:

1) se sia ammissibile la partecipazione di una società di capitali, nella specie s.r.l., ad una società personale;

2) quale sia il contenuto precettivo dell'art. 2361, 2° comma, c.c. in ordine alle prescrizioni, ivi contenute, sulla previa deliberazione assembleare e sulla indicazione della partecipazione nella nota integrativa al bilancio, ed agli effetti dell'inottemperanza;

3) se le prescrizioni di cui all'art. 2361, 2° comma, c.c. trovino applicazione anche alle s.r.l.;

4) l'estensibilità del fallimento della società di fatto alla società di capitali, nella specie s.r.l., quale socia illimitatamente responsabile.

3. - La prima questione è unanimemente reputata risolta in senso affermativo, per tutte le società di capitali, dalla riforma societaria del 2003, con gli art. 2361 c.c. e 111 duodecies att. c.c., richiamati pure dalla sentenza impugnata; onde su di essa non occorre oltre soffermarsi.

4. - Essendosi il dibattito processuale tra le parti interamente svolto con riguardo all'interpretazione dell'art. 2361, 2° comma, c.c. - norma introdotta dalla riforma del 2003 - si rende opportuno esaminarne la portata precettiva all'interno del sistema della s.p.a., prima di valutare la sua applicabilità alla s.r.l.

Nella menzionata disposizione, la "partecipazione in altre imprese" non (necessariamente) snatura l'oggetto (come invece è previsto dal 1° comma), ma implica il sorgere della responsabilità illimitata in capo alla società di capitali che ne sia diventata socia.

Si tratta, dunque, di una partecipazione in società personale, anche di fatto, posto che anche quest'ultima è caratterizzata dal regime desunto dall'art. 2297, e quindi dall'art. 2291 c.c., con la responsabilità illimitata e solidale di tutti i soci.

In tal caso, però, il legislatore, a differenza che nel 1° comma - che preesisteva alla riforma del diritto societario (salva la sostituzione della parola "atto costitutivo" con "statuto") e che è precetto imperativo preclusivo della partecipazione della società per azioni anche in altra società di capitali "rivolto ad evitare modificazioni tacite e informali dell'oggetto sociale" (così Cass., sez. un., 17 ottobre 1988, n. 5636) - non ha posto una norma di divieto.

Il legislatore, invero, si è qui limitato a prevedere solo due adempimenti formali: che l'assunzione della partecipazione sia "deliberata dall'assemblea" e che riceva una "specifica informazione nella nota integrativa del bilancio".

Le due condizioni potrebbero non sussistere, anche disgiuntamente l'una dall'altra: come quando gli amministratori, senza affatto chiamare i soci a decidere, acquisiscano la detta partecipazione o senz'altro svolgano in concreto attività d'impresa con altri soggetti, individuali o collettivi, mediante una cd. società di fatto; e, in aggiunta o indipendentemente dal primo inadempimento, omettano di rendere la dovuta informazione in bilancio.

Reputa il Collegio che simili evenienze lascino sussistere una valida ed efficace assunzione della partecipazione, sia essa formale o sostanziale, nell'altra impresa sul mercato, a tale conclusione inducendo plurime considerazioni.

4.1. - Nessuna disposizione sancisce il divieto di assumere la partecipazione in una società che preveda la responsabilità illimitata della società azionaria - esistendo, al contrario, una norma di permesso - né commina al riguardo, ai sensi dell'art. 1418, 3° comma, c.c., la nullità della partecipazione stessa, sol perché manchi la previa deliberazione assembleare o l'indicazione nella nota integrativa; quanto all'inadempimento degli amministratori a detto obbligo di darne notizia nella nota integrativa al bilancio, ancor più dubbio è che da ciò possa derivare, quale adempimento successivo all'assunzione della partecipazione ed in mancanza di espressa previsione contraria, tale conseguenza. Il legislatore della riforma, invero, aveva di fronte il chiaro testo di divieto previsto al preesistente art. 2361, 1° comma, c.c. ("non è consentita"), che ben avrebbe potuto mutuare nella sua struttura: ma ha dettato una disposizione abilitativa costruita all'inverso.

Giova inoltre ricordare come la più rilevante pronuncia di legittimità, la quale aveva definitivamente espunto dall'ordinamento, quale diritto vivente, l'ammissibilità della partecipazione di società di capitali in società di persone (cfr. la citata Cass. n. 5636 del 1988), reputasse fra tutti decisivo, nel senso dell'illiceità, l'argomento del "contrasto che, nell'amministrazione del nuovo ed abnorme ente sociale verrebbe a determinarsi con la normativa dettata per la società azionaria, dove la legge riserva inderogabilmente agli amministratori la gestione del patrimonio sociale, mentre, ammettendosi la partecipazione ad una società di persone e a fortiori di fatto, priva di ogni garanzia di pubblicità, il patrimonio verrebbe fatalmente gestito, almeno in parte, da soggetti diversi, e, quindi, sottratto al controlli predisposti per l'amministrazione della società di capitali".

Tale perplessità è stata evidentemente superata dal legislatore della riforma, quando ha contemplato espressamente la fattispecie; pur avendo, poi, richiesto la deliberazione assembleare, l'indicazione in nota integrativa e la redazione anche da parte della società personale del bilancio secondo i criteri previsti per le società per azioni, oltre al bilancio consolidato in presenza dei presupposti di legge.

Invece, assai poco rilevanti, dalla sentenza citata e dal legislatore del 2003, sono stati ritenuti gli altri argomenti tradizionalmente addotti contro l'ammissibilità della partecipazione, quali la pretesa inconfigurabilità di un intuitus personae e il fatto che i soci della società di capitali finirebbero per gestire la società personale senza esporsi a responsabilità illimitata.

Se, dunque, la preoccupazione da fugare era quella di una finale gestione extrasociale del patrimonio sociale da parte di soggetti che non sono gli amministratori della società per azioni, con il venir meno dei vincoli e dei controlli che li disciplinano, il legislatore della riforma vi ha fatto fronte: mediante la previsione della sottoposizione ai soci della proposta, che deve essere portata a loro conoscenza e formare oggetto di discussione (la deliberazione assembleare); la trasparenza nel bilancio della s.p.a. (con la nota integrativa); l'imposizione degli stessi vincoli contabili (la redazione del bilancio di esercizio e del bilancio consolidato).

Tutto ciò a tutela soprattutto dei soci, e poi anche dei terzi che entrano in contatto con le società partecipante e partecipata: ma pur sempre secondo un'opzione legislativa pianamente favorevole alla figura, espressione di autonomia imprenditoriale: favor palesato anche dalla mancanza di una norma di divieto o che ne sancisca la nullità in assenza delle descritte cautele; le quali, già per tale aspetto, non paiono perciò costituirne condizioni di validità o di efficacia.

4.2. - E’ vero, peraltro, che la cd. Nullità virtuale, di cui all'art. 1418, 1° comma, c.c., non è necessario sia comminata espressamente dalla legge; dunque occorre svolgere ulteriori argomenti.

La previsione di cui all'art. 2361, 2 ° comma, c.c., come tutti gli interpreti concordano, è posta soprattutto a tutela dei soci nella sua prima parte ed anche dei creditori, quanto all'indicazione in bilancio.

Oltre a non porre una norma di divieto - nel difetto dell'autorizzazione assembleare - di acquisire la partecipazione stessa, il legislatore pare qui essenzialmente tutelare gli interessi particolari dei soci.

Ma, ove pure si ritenesse la previsione dettata nell'interesse generale, tuttavia ciò non basterebbe a dimostrare che la sua violazione comporti la nullità dell'assunzione della partecipazione stessa, posto che la nullità per contrarietà a norme imperative ex art. 1418, 1° comma, c.c. "postula violazioni attinenti ad elementi intrinseci della fattispecie negoziale, relativi alla struttura o al contenuto del contratto" (cfr., per tutti, Cass., sez. un., 19 dicembre 2007, n. 26724): come non è nel caso in questione, in cui invece la partecipazione è di principio ammessa.

La natura e la valenza della deliberazione assembleare nell'ambito della fattispecie destinata a concludersi con l'assunzione della partecipazione comportante responsabilità illimitata in capo alla socia (fondatrice o nuova) per le obbligazioni sociali, in definitiva, deve essere ricostruita alla stregua del complessivo sistema della società per azioni.

4.3. - Per l'art. 2384 c.c., agli amministratori è attribuito un potere di rappresentanza generale e le limitazioni ai loro poteri che risultano dallo statuto o da una decisione degli organi competenti non sono opponibili ai terzi, anche se pubblicate, salvo che si provi che questi abbiano intenzionalmente agito a danno della società.

L'art. 2380-bis c.c., dal suo canto, precisa che gli amministratori compiono le operazioni necessarie per l'attuazione dell'oggetto sociale; dunque, sussiste il potere degli amministratori di attuare l'oggetto programmato sotto ogni aspetto, ma anche al di fuori dell'oggetto essi sono in grado di impegnare la società. Tale regime regola lo speciale sottosistema del diritto delle società (si veda infatti pure l'art. 2475-ter c.c., di cui oltre), in rilevante difformità dalla disciplina comune dell'art. 1398 c.c. e dalla stessa disposizione generale sull'opponibilità degli atti societari, derivante dall'art. 2193 c.c.

Il legislatore del 2003 ha inteso, anzi, modificare il regime dell'opponibilità dei limiti ai poteri dell'organo amministrativo nei confronti dei terzi in senso ancor più restrittivo rispetto al testo previgente, pur sempre nell'ambito delle prescrizioni della direttiva CEE n. 151 del 9 marzo 1968 (c.d. prima direttiva in tema di società), che agli art. 7-9 ha regolato la materia, ora "codificata" nella direttiva 2009/101/CE, art. 8-10. Come è noto, nella sezione "Validità degli obblighi della società", l'art. 9 della dir. 68/151/CEE affermava che "(a)nche se pubblicate, le limitazioni dei poteri degli organi sociali che risultano dallo statuto o da una decisione degli organi competenti non sono opponibili ai terzi", e che "(g)li atti compiuti dagli organi sociali obbligano la società nel confronti del terzi, anche quando tali atti sono estranei all'oggetto sociale, a meno che eccedano i poteri che la legge conferisce o consente di conferire ai predetti organi". La norma è passata invariata nell'art. 10 della direttiva codificata.

Riprendendo analoga premessa della prima direttiva, considerando 2 e 9 della direttiva codificata, inoltre, sottolineano l'importanza particolare, soprattutto in ordine alla tutela degli interessi dei terzi", del coordinamento delle disposizioni nazionali, uniformità che "dovrebbe essere assicurata mediante disposizioni che limitino, per quanto possibile, le cause di invalidità delle obbligazioni assunte in nome della società".

La riforma del 2003 ha abrogato il vecchio art. 2384-bis c.c., uniformando per tutti i casi il regime nel senso della regola generale della inopponibilità, proprio riprendendo l'espressione omnicomprensiva della direttiva, e facendo salva unicamente l'exceptio doli; il tutto con la premessa, densa di significato, che "il potere di rappresentanza attribuito agli amministratori dallo statuto o dalla deliberazione di nomina è generale".

Si noti che l'opzione permessa (secondo cui gli Stati potrebbero stabilire che la società non sia obbligata quando il terzo sapeva che l'atto superava i limiti dell'oggetto o non poteva ignorarlo) non è stata operata dal legislatore della riforma, a sottolineare l'intento di maggiore certezza per i terzi.

L'ambito stesso dell'agire gestorio in funzione del raggiungimento dell'oggetto programmato, contemplato nell'atto costitutivo e presidiato da numerose e stringenti regole (si pensi alle numerose cautele che sempre circondano per legge la scelta dell'oggetto sociale, la sua liceità, le sue modificazioni e il suo raggiungimento: art. 2247; art. 2295, n. 5, 2328, 2° comma, n. 3, 2521, 3 ° comma, n. 3; art. 2332; art. 2369: art. 2379, 1° comma, ultima parte e 2479-ter, 3° comma; art. 2436; art. 2437, 2473 e 2497-quater, con varie distinzioni; art. 2271, n. 2, e 2484, n. 2; tutti gli oggetti riservati a società di dati tipi e caratteristiche; le disposizioni sugli oggetti sociali esclusivi; etc.), così, resta di regola inopponibile ai terzi.

Ne deriva che, attesa la ricordata disposizione della direttiva, va valorizzato l'accento ivi posto sull'eccesso dai poteri agli amministratori conferiti per legge ed anche da quelli che essa "consente di conferire" loro: proprio i casi, come quello in esame, in cui l'assemblea è chiamata ad assumere la decisione preliminare (ma lo stesso ove fosse richiesta la previa deliberazione consiliare).

In questa prospettiva, che legge l'art. 2384 c.c. secondo il senso fatto palese dal significato proprio delle parole e dall'intenzione del legislatore (art. 12, 1° comma, preleggi) e non trascura la lettera e la ratio della norma primaria comunitaria, il riferimento alle limitazioni per gli atti conclusi in nome della società senza una previa decisione degli organi competenti può intendersi non solo con riguardo alla fonte della limitazione dei poteri degli amministratori, nel senso che essa sia richiesta ad iniziativa (per quanto ora interessa) dell'assemblea, ma anche con riferimento alla previa deliberazione assembleare tout court, pur quando l'assunzione della stessa fosse (come nel caso in esame) richiesta da fonte legale. Ciò, in coerenza con il favor generale della riforma, tracciato dalla legge di delega, per la tutela del mercato, la stabilità dell'agire societario e la certezza dei traffici, nell'intento di incentivare il reperimento di capitale di rischio e di credito verso gli organismi societari.

Si ricordi pure come, secondo l'interpretazione estensiva dell'art. 2384 c.c. già espressa da questa Corte nel testo previgente (Cass. 7 febbraio 2000, n. 1325) e ribadita dopo la riforma (Cass. 4 settembre 2007, n. 18574; 26 gennaio 2006, n. 1525), la norma va applicata altresì alle ipotesi di dissociazione del potere rappresentativo dal potere di gestione: anche l'eventuale rilevanza esterna di tale dissociazione, così come le limitazioni al potere rappresentativo derivanti dallo statuto, si porrebbe in contrasto con la finalità perseguita dal legislatore, "minando alla base ogni possibilità di garantire al terzi la necessaria sicurezza in ordine alla validità degli atti compiuti dall'organo che ha formalmente la rappresentanza della società" (così Cass. n. 18574 del 2007, cit.).

Come questa Corte ha osservato (Cass. n. 1525 del 2006, cit.), in tal modo "il rischio delle violazioni commesse dagli amministratori, mediante il compimento di atti eccedenti i poteri loro conferiti, è stato trasferito sulla società, offrendo ai terzi la sicurezza che essa avrebbe fatto fronte agli atti posti in essere, nel suo nome, dagli amministratori, anche se in violazione dei limiti posti", principio "che, come non si è mancato di rilevare, lungi dal penalizzare le società, consente una più intensa valorizzazione delle loro potenzialità, eliminando una possibile remora alla instaurazione di rapporti con esse".

La riserva posta dal 2° comma dell'art. 2384 c.c. post riforma rappresenta un rimedio diretto ad evitare che il terzo possa abusare della tutela offertagli dal principio dell'inopponibilità, attribuendo alla società una vera e propria exceptio doli, volta a garantire che la regola del contenuto inderogabile della rappresentanza non sia utilizzata per finalità contrastanti con gli interessi tipici che il legislatore ha inteso tutelare.

In sostanza, qui la soluzione prescelta per la tutela dei terzi, come gli interpreti hanno osservato, non utilizza il criterio della tutela dell'affidamento incolpevole, ma è più radicale, ricorrendo il legislatore ad un'astrazione del potere di rappresentanza dal sottostante potere di gestione.

4.4. - Sul piano definitorio, può parlarsi di autorizzazione (sulla falsariga della previsione generale di cui all'art. 2364, 2° comma, n. 5, c.c.), quale atto che integra poteri già esistenti in capo all'organo amministrativo; ma ciò potrebbe non risolvere ancora la questione, posto che non dice se essa, nel diritto privato societario, costituisca una condizione di efficacia dell'atto dell'organo autorizzato opponibile a chiunque, o se abbia solo una valenza organizzativa interna: fine al quale provvede allora il ricordato art. 2384 c.c.

Previsioni analoghe, le quali richiedono la previa autorizzazione assembleare per il compimento di un atto degli amministratori, sono peraltro dalla legge configurate nel senso di non attribuire all'assemblea il potere gestorio e della loro efficacia puramente interna.

Così è l'art. 2343-bis c.c., che sanziona l'acquisto dei beni dei promotori, soci o amministratori, privo della necessaria autorizzazione assembleare, con la responsabilità, fra di loro solidale, dell'organo amministrativo e del dante causa per i danni cagionati a società, soci e terzi.

Per gli art. 2357, 2359-bis e 2359-ter c.c. e 121 t.u.f., l'acquisto di azioni proprie o della controllante contro i divieti di legge comporta unicamente l'obbligo dell'alienazione, o in subordine di annullamento delle azioni.

L'art. 2390 c.c., dal suo canto, si segnala per la preminenza di un'attività materiale nella sua fattispecie, proprio come nel caso di partecipazione a società personale di fatto; peraltro, qui si tratta di attività compiuta dall'amministratore nell'ambito della sua sfera giuridica.

L'autorizzazione dell'assemblea, in tal caso e come si evince dal secondo comma, è dichiaratamente mera condizione di esonero da responsabilità sociale e dalle altre conseguenze, impedendo di qualificare la condotta del medesimo come inadempimento.

L'esplicita disposizione, che rimette all'assemblea dei soci la decisione su alcuni atti di amministrazione - art. 2364, 1° comma, n. 5, c.c. - non implica il trasferimento dei poteri gestori in capo all'assemblea, né la valenza invalidante, o condizionante l'efficacia, dell'autorizzazione assembleare, la cui mancanza si riflette unicamente nei rapporti interni. In quei casi, il socio concorre alla formazione di una decisione gestoria, che resta pur sempre propria degli amministratori. Anche per le materie sottoposte all'assemblea dei soci deve, quindi, ritenersi che il potere gestorio e rappresentativo permanga in capo agli amministratori. La pronuncia assembleare lascia in capo agli amministratori il potere-dovere di valutare essi stessi l'operazione e la sua conformità all'interesse sociale. Proprio questo è stato l'intento del nuovo art. 2364 c.c.: evidenziare l’"uscita" delle competenze degli azionisti dal governo dell'impresa sociale, affidata agli amministratori da loro scelti secondo le direttrici ed i valori che all'impresa i primi intendano imprimere.

Il sistema ordinamentale della società azionaria esclude, in via di principio, la nullità o l'inefficacia dell'atto negoziale compiuto dagli amministratori in violazione delle disposizioni sull'autorizzazione assembleare, nella fattispecie che la richiedano in occasione di determinati negozi: tutto ciò in coerenza con la scelta di fondo della riforma del 2003 in favore di una tutela di tipo obbligatorio, piuttosto che caducatoria.

4.5. - Nel bilanciamento fra gli interessi dei creditori e dei soci partecipanti alla società azionaria (e dei loro creditori) e quelli esistenti in capo ai creditori della società di fatto, non è contrario ai principi del diritto societario riformato che prevalgano questi ultimi, a tutela della sicurezza dei traffici, in coerenza con la storia del diritto dei commerci, più sensibile al dato fattuale ed alle esigenze di protezione dell'affidamento dei terzi.

Il soggetto che entra in contatto con la società personale, partecipata dalla società di capitali, non ha modo di verificare da pubblici registri la previa deliberazione assembleare, posto che di essa non è prevista l'iscrizione ex art. 2193 e 2436 c.c. Dunque, il terzo sa solo, in caso di società registrata, che la controparte società personale è partecipata da una società di capitali, dato che potrà risultare dal registro delle imprese, ai sensi dell'art. 2300 c.c.; ove si tratti di mera società irregolare o di fatto, il terzo sa ciò che vede, ossia l'esistenza del rapporto di svolgimento in comune di attività economica, in ipotesi, tra persone fisiche e giuridiche.

Pertanto, coglie solo una frazione della situazione reale chi afferma che la deroga agli effetti della pubblicità legale ex art. 2193 c.c., posta dall'art. 2384 c.c. a tutela dell'affidamento dei terzi, non potrebbe sussistere per le limitazioni di natura legale in quanto queste sarebbero conoscibili da chiunque: ed invero, ciò che chiunque conosce è l'art. 2361 c.c., ossia una norma, per la quale solo potrebbe valere quindi il principio ignorantia legis non excusat (e si ricordi che perfino con riguardo al rigido disposto dell'art. 5 c.p. la Corte cost. 24 marzo 1988, n. 364 ha dichiarato l'illegittimità costituzionale della disposizione "nella parte in cui non esclude dall'inescusabilità dell'ignoranza della legge penale l'ignoranza inevitabile", ossia la buona fede con efficacia scusante; per l'art. 47 c.p., l'errore su una legge diversa dalla legge penale esclude la punibilità, quando ha cagionato un errore sul fatto che costituisce il reato); mentre ciò che dovrebbe essere oggetto di pubblicità-notizia ex art. 2193 c.c., perché possa valere la ricordata obiezione, è la deliberazione assembleare, ove esistente; laddove essa non è soggetta affatto ad iscrizione nel registro delle imprese.

La stessa omessa indicazione, nella nota integrativa, della partecipazione nella società personale - pur richiesta dal legislatore - non sarebbe, per i terzi, decisiva o suppletiva di un'apposita pubblicità legale della deliberazione autorizzativa: perché dall'omessa iscrizione (o pubblicità) di un evento non potrebbe trarsi la prova della sua inesistenza, ben potendo comunque sussistere la deliberazione assembleare, pur in assenza degli adempimenti contabili. Onde l'omessa informazione in bilancio potrebbe solo mettere il terzo sull'avviso, inducendo un indizio, ma non costituire una prova sicura della (perorata) inefficacia di quella partecipazione. Né sembra possibile riversare sul terzo, sol perciò qualificandolo in stato di mala fede, l'onere di esigere chiarimenti anche documentali circa l'esistenza della deliberazione assembleare di cui all'art. 2361, 2° comma, c.c., dal cui inadempimento far derivare allora l'insussistenza della responsabilità della socia illimitatamente responsabile.

Ciò che vale, in definitiva, è il ricordato regime intra-societario dell'art. 2384 c.c.: le limitazioni al potere di rappresentanza degli amministratori non operano nei confronti dei terzi, salva la prova che essi abbiano intenzionalmente agito in danno della società: onde si "esclude sia la sussistenza di un onere del terzo di accertarsi preventivamente dell'esistenza di tali limitazioni, sia la rilevanza della mera conoscenza delle stesse da parte del terzo- (cfr. Cass. 6 febbraio 1993, n. 1506, nel confronto della passata locuzione "agire intenzionalmente in danno" con la diversa disciplina cambiaria ex art. 12 L. camb.). Il terzo deve poter confidare sull'efficace spendita del nome della società da parte di chi ne abbia la rappresentanza, senza onere di accertare se, nel caso contingente, esistano i presupposti procedimentali "interni" previsti dalla legge: ciò in presenza di tutte quelle attività ed operazioni gestorie che gli amministratori, sia pure a certe condizioni (come appunto la previa deliberazione assembleare), potrebbero efficacemente realizzare con terzi. Il sistema normativa esclude che sul terzo gravi l'onere di attivarsi, in quanto è proprio al regime ordinario degli effetti della pubblicità degli atti societari che la direttiva 151/68/CEE ha inteso derogare.

Infine, una tutela nient'affatto equivalente forniscono gli art. 2497 ss. c.c., pur richiamati da taluni in alternativa all'efficacia della partecipazione nella società personale, anche di fatto, non accompagnata dagli adempimenti di legge, trattandosi di mera responsabilità della capogruppo e solo in presenza di un abuso dell'attività di direzione e coordinamento: laddove, per lo più, nelle vicende concrete sussiste, all'opposto, proprio l'intento di collaborare e svolgere attività in comune.

Né va dimenticato che una tutela della quota di patrimonio conferita nella società personale può essere comunque ricercata nella disciplina di questa, sia nell'ambito delle norme sul potere di veto nell'amministrazione disgiuntiva (art. 2257 c.c.), sia in quelle sulla revoca dell'amministratore e l'esclusione dei soci inadempienti (art. 2259 e 2286 c.c.), sia nell'obbligo di rendiconto (art. 2261 c.c.).

Quanto all'interesse dei creditori della s.p.a. partecipante, che pure si voglia richiamare nel bilanciamento degli interessi coinvolti, per essi parimenti non è dato accertare l'esistenza della deliberazione dal registro delle imprese, onde tale adempimento non rileva ai fini della loro situazione di affidamento; l'indicazione della partecipazione in società personale nella nota integrativa, invece, fornirebbe tale informazione, ma successiva all'assunzione di essa.

4.6. - Tutto quanto esposto va riferito anche alla partecipazione concreta della società azionaria in un'impresa esercitata da società di fatto. La società di fatto si caratterizza per la mancanza di forme e formalità, pur essendo effettivo lo svolgimento di attività economica in comune, ossia l'impresa collettiva; questa poi, per definizione, consiste nel materiale e continuo esercizio di attività economica organizzata.

Si ricordino, al riguardo, le previsioni organizzative, economiche e materiali degli art. 2247 e 2082 c.c., ma anche il rilievo che l'attività svolta in sé assume negli art. 2497 c.c., nell'art. 10, 2° comma, l.f. od ai fini della giurisdizione in ipotesi di fittizio trasferimento all'estero, ove appunto rileva il luogo in cui sia effettivamente esercitata attività economica ed esista il centro dell'attività direttiva, amministrativa ed organizzativa dell'impresa (e multis, Cass., sez. un., 11 marzo 2013, n. 5945).

Non sarebbe, dunque, giustificabile ammettere che la società di capitali, la quale abbia svolto attività d'impresa operando in società di fatto con altri, possa in seguito sottrarsi alle relative conseguenze proprio in forza di una violazione di legge perpetrata dai suoi amministratori. Se tale condotta di inadempimento è tale da giustificare i rimedi che l'ordinamento rispetto a ciò predispone (azioni di responsabilità, revoca, denunzia al tribunale), non rende però, essa stessa, invalido l'atto compiuto o inefficace l'attività imprenditoriale di fatto svolta. Al potere di scegliere liberamente la persona che rivesta la carica di organo amministrativo vanno ricondotte, se si vuole, le conseguenze di un eventuale errore in capo alla società che lo abbia nominato. Del resto, come si è osservato da molti, sarebbe assai semplice, per gli amministratori della società, aggirare le norme sulla responsabilità patrimoniale e quelle a ciò collegate, invocando la mancata autorizzazione in caso di risultati negativi e, invece, acquisire gli effetti favorevoli di quella partecipazione.

La verità è che lo svolgimento di un'attività economica comune con altra società, di capitali o di persone, o con una persona fisica è fatto ormai avvenuto, condividendo esso la natura materiale ed empirica dell'attività d'impresa, per il cd principio di effettività.

È concetto acquisito, invero, che la cd. Impresa illecita sia, tuttavia, pur sempre impresa: un'attività imprenditoriale "illegale", in quanto svolta in violazione delle regole che ne disciplinano l'esercizio, non necessariamente comporta la nullità degli atti posti in essere nell'esercizio della stessa; comunque, la situazione di illegalità dell'impresa non impedisce l'acquisto della qualità d'imprenditore con i relativi effetti (si pensi alla cd. banca di fatto, che svolga cioè attività bancaria senza la prescritta autorizzazione della Banca d'Italia), specie ove sfavorevoli all'impresa stessa, che sarebbe ingiustificato escludere in virtù di violazioni proprio ad essa imputabili.

Non può dirsi, in definitiva, che l'attività di partecipazione a società personale, anche di fatto, resti giuridicamente irrilevante in assenza di decisione assembleare.

4.7. - Sembra improponibile, inoltre, discorrere di opponibilità della violazione dei limiti legali ai poteri di rappresentanza solo in presenza della conoscenza, da parte dei soci, dell'attività svolta in fatto dagli amministratori (quasi una sorta di loro consenso tacito), che non giustificherebbe più, in tesi, l'esenzione dalle conseguenze dell'assunzione della partecipazione nella società personale.

Infatti, da un lato, sul piano pratico ciò sarebbe forse possibile per una società a responsabilità limitata a stretta base personale, ma è assai più difficilmente realizzabile nella società azionaria, di regola di dimensioni medio-grandi; dall'altro lato, non può ammettersi per essa la deliberazione tacita o per comportamento concludente (cfr. art. 2375 c.c.; altro è il tema della deliberazione implicita, che non è qui indagabile, ma che comunque presenta connotati estranei al caso in discorso).

Lo stesso dovrebbe dirsi con riguardo alla prospettata opponibilità del difetto di deliberazione solo ai terzi in mala fede: soluzione che, a tacer d'altro, confligge con l'art. 2384 c.c.

4.8. - Ciò che va raccommandata, piuttosto, è la ricerca di una prova rigorosa dell'esistenza di una società di fatto.

Questa si caratterizza per il patrimonio e l'attività comune, l'effettiva partecipazione ai profitti ed alle perdite dei soggetti interessati, il vincolo di collaborazione tra i soci (con quote che, si ricorda, si presumono uguali: art. 2253 e 2263 c.c.). Sarà, dunque, necessario accertare scrupolosamente e con uso prudente dello strumento specie indiziario l'esistenza di una società di fatto e la sua situazione di insolvenza.

4.9. - Esula dal discorso il tema della società apparente, che ricorre quando non esiste il patto sociale, ma solo un comportamento esteriore, tale da ingenerare nei terzi il ragionevole convincimento incolpevole circa la esistenza di essa; ed, infatti, la vicenda in esame attiene all'effettiva collaborazione d'impresa tra più soggetti, non a situazione meramente apparente per i terzi.

4.10. - In conclusione, l'esplicita attribuzione agli amministratori della società per azioni di poteri di rappresentanza "generale", in una con la mancanza di diversa disposizione per il caso di limiti legali ed, al contrario, la costante tutela del mercato e dei terzi che colora tutta la riforma, inducono a ritenere inopponibile l'assenza della deliberazione assembleare ai terzi, a meno che si provi che questi abbiano agito intenzionalmente a danno della società (anche collusi con l'amministratore).

Gli amministratori pur in presenza della deliberazione assembleare in discorso restano peraltro responsabili dell'assunzione della partecipazione, posto che essa rimuove un ostacolo all'acquisto, ma non li sottrae alla responsabilità per le loro azioni.

5. - A questo punto, occorre esaminare il profilo dell'applicabilità dell'art. 2361, 2° comma, c.c. alla s.r.l., sia per dare ragione del discorso svolto, sia per valutare se poi, all'interno della disciplina del tipo, sia rinvenibile una prescrizione analoga.

5.1. - L'art. 111 -duodecies att. c.c. è stato introdotto in adeguamento alle prescrizioni della Direttiva 90/605/CEE del Consiglio dell'8 novembre 1990, che ha modificato le direttive 78/660/CEE e 83/349/CEE relative ai conti annuali e ai conti consolidati ed al loro ambito d'applicazione (un considerando precisa che ciò si è reso necessario perché "all'interno della Comunità esiste un numero considerevole e in continuo aumento di società in nome collettivo e di società in accomandita semplice, di cui tutti i soci illimitatamente responsabili sono organizzati in società per azioni o in società a responsabilità limitata").

La norma, con la sua formulazione ambigua, non sembra affatto contenere un'estensione alle s.r.l. anche del precetto relativo all'autorizzazione assembleare ed alle indicazioni in nota integrativa, di cui all'art. 2361, 2° comma, c.c.

Da un lato, la fattispecie è incentrata sulle figure della società personale (s.n.c. e s.a.s.) in cui tutti i soci siano società di capitali (s.p.a., s.a.p.a., s.r.l.), senza che però, all'interno di essa, l'inciso "di cui all'art. 2361, comma secondo, del codice" risulti in una corretta collocazione grammaticale, posto che si riferisce ai "soci illimitatamente responsabili" invece che alla partecipazione da essi detenuta, come sarebbe stato logico. Onde l'inciso sembra dettato al puro scopo di instaurare un raccordo con la disposizione del codice civile.

Dall'altro lato, l'effetto della norma - vera ragione per cui è stata dettata - è la prescrizione della redazione del bilancio di società personale secondo i criteri di redazione di cui agli art. 2423 ss. c.c.; salvo poi aggiungere il legislatore, nell'ultima proposizione, che "esse" - cioè, grammaticalmente, le società personali controllate, ossia il soggetto della proposizione principale coordinata che precede - devono redigere il bilancio consolidato: il quale, però, è notoriamente un obbligo, semmai, della società controllante. Ad ulteriore conferma dell'approssimazione lessicale della disposizione, la quale rende incerta qualsiasi sua interpretazione puramente letterale.

5.2. - Il riferimento contenuto nell'art. 111-duodecies att. c.c. sembra valere, piuttosto, unicamente ad individuare la fattispecie - partecipazione in impresa implicante la responsabilità illimitata per le obbligazioni sociali - da cui deriva l'obbligo di redigere il bilancio secondo quella disciplina, che non ad estendere le prescrizioni formali dell'art. 2361, 2° comma, c.c. alle società a responsabilità limitata.

La norma, in sostanza, intende solo dire che la società personale interamente partecipata da società di capitali sarà soggetta alle medesime prescrizioni di bilancio, mentre le partecipanti avranno altresì l'obbligo del consolidamento.

La costruzione di una disciplina autonoma ad hoc delle società a responsabilità limitata, la mancanza di un'analoga previsione nel suo ambito dettata e la struttura personalistica inducono a tale conclusione.

5.3. - Si noti che a ciò non osterebbe la considerazione secondo cui, in tal modo, verrebbe escluso anche l'obbligo informativo concernente l'indicazione della partecipazione comportante la responsabilità illimitata nella nota integrativa, di cui all'art. 2361, 2° comma, c.c.: posto che essa discenderà sovente già dall'art. 2427, nn. 2, 5, 11 e 22 -bis, c.c., il quale impone di indicare "I movimenti delle immobilizzazioni", "l'elenco delle partecipazioni, possedute direttamente o per tramite di società fiduciaria o per interposta persona, in imprese controllate e collegate, indicando per ciascuna la denominazione, la sede, il capitale, l'importo del patrimonio netto, l'utile o la perdita dell'ultimo esercizio, la quota posseduta e il valore attribuito in bilancio o il corrispondente credito", "l'ammontare dei proventi da partecipazioni, indicati nell'art. 2425, n. 15), diversi dai dividendi" e "le operazioni realizzate con parti correlate".

Inoltre, nello stato patrimoniale devono essere indicate separatamente, fra le immobilizzazioni finanziarie, le partecipazioni in imprese controllate, collegate, controllanti e (dal 1° gennaio 2016, in forza del d.lgs. 18 agosto 2015, n. 139) imprese sottoposte al controllo delle controllanti e genericamente "le altre imprese" (art. 2424 c.c.). Correlativamente, occorre indicare, nel conto economico, i proventi da partecipazioni (art. 2425 c.c.).

Con la relazione sulla gestione si completa poi il quadro delle informazioni sulle situazioni di controllo e collegamento societario (art. 2428 c.c.).

Infine, gli amministratori dell'impresa controllante hanno l'obbligo di redigere il bilancio consolidato, introdotto dal d.lgs. n. 127/1991, in attuazione della VII Direttiva CEE, secondo i principi di redazione del bilancio di esercizio, al fine di fornire appunto un'informazione completa delle imprese variamente collegate; bilancio nel quale rileva una nozione di controllo lata, inclusiva del controllo cd. contrattuale (art. 26 d.lgs. citato).

Insomma, è la disciplina del bilancio, di esercizio e consolidato, come dettata dal complesso sistema dato da altre disposizioni, il punto di emersione essenziale della partecipazione in società personale, cui l'art. 111-duodecies ha aggiunto un ulteriore tassello.

5.4. - Giova anche osservare come non sarebbe fondato sostenere che, ai sensi dell'art. 2479, 2° comma, n. 5, c.c., la partecipazione della società, a responsabilità limitata a società personale rientri sempre nelle operazioni idonee a comportare una "rilevante modificazione del diritti dei soci", quale attribuzione riservata alla competenza dei soci stessi. La partecipazione di una società di capitali in una società di persone non tanto comporta una modificazione dei diritti dei soci, quanto della società partecipante stessa, che diviene illimitatamente responsabile. I soci di questa, invece, continuano ad essere vincolati nei limiti del conferimento.

Ciò che muta, in sostanza, è l'intensità del rischio che quel conferimento corre in dipendenza dell'assunta responsabilità illimitata per le obbligazioni della società personale in capo alla società partecipante; ma non muta, invece, alcun diritto del socio, da interpretare come diritti speciali al medesimo attribuiti ex art. 2468 c.c.

Una conferma di tale ultima interpretazione viene dall'art. 2473 c.c. in tema di recesso, che con maggiore chiarezza precisa trattarsi della "rilevante modificazione del diritti attribuiti al soci a norma dell'art. 2468, quarto comma", ossia dei particolari diritti riguardanti l'amministrazione della società o la distribuzione degli utili.

E sembrerebbe, anche per coloro che non reputano la nozione in materia di assemblea sovrapponibile con quella in tema di recesso, troppo a-letterale un'interpretazione che volesse ricondurvi il maggior rischio di perdere il conferimento (ma anche di moltiplicarlo) in conseguenza della responsabilità illimitata assunta dalla società partecipata in una società terza.

5.5. - Semmai, è l'altra previsione contenuta nella fattispecie del menzionato n. 5 - le operazioni che comportano una "sostanziale modificazione dell'oggetto sociale" - ad attingere la ratio di mantenere inalterato il livello di rischio investito (come afferma Cass. 12 luglio 2002, n. 10144, sulla facoltà di recesso): ma dovrebbe accertarsi che la partecipazione in società personale sia così eterogenea rispetto ai fini sociali da modificare l'oggetto in concreto.

E resterebbe comunque da considerare se, nel sottosistema costituito dalla disciplina ad hoc di questo tipo sociale, in forza dello speciale dettato derivante dal combinato disposto degli art. 2473 e 2479, 2° comma, n. 5, c.c., il recesso spetti al socio sia quando la relativa decisione sia stata assunta dall'assemblea senza il suo consenso, sia allorché quella decisione sia mancata e l'organo amministrativo abbia senz'altro posto in essere l'atto. Perché, allora, ove il socio avesse solo il diritto di recedere dalla società di fronte al "compimento di operazioni che comportano una sostanziale modificazione dell'oggetto della società determinato nell'atto costitutivo" (oltre che per il cambiamento della clausola statutaria sull'oggetto), il legislatore avrebbe inteso che la società sia divenuta titolare della partecipazione così assunta, avendo sancito la piena validità dell'acquisto, costituente l'evidente presupposto del successivo recesso.

E resterebbe, altresì, da considerare il tema generale dell'art. 2475-bis c.c., che esclude l'opponibilità ai terzi dei limiti ai poteri gestori, salva l'exceptio doli, da porre in relazione all'art. 2479, 2° comma, n. 5, c.c.: dovrebbe, cioè, qualora la partecipazione nella società personale integrasse la fattispecie della sostanziale modificazione dell'oggetto - vicenda estranea a quella ora all'esame, e dunque non esaminabile in questa sede - valutarsi se la soluzione, posta l'unica fonte comunitaria della I direttiva CEE che regola la rappresentanza nelle società di capitali, debba poi essere la stessa della società azionaria.

Al di là di tale ipotesi, non sussistente nel caso di specie e da non esaminarsi, la partecipazione resta dunque efficace, quale atto gestorio degli amministratori, sino al limite dell'agire intenzionale dannoso dei terzi, di cui all'art. 2475-ter c.c.

6. - L'efficace assunzione della partecipazione ne comporta tutte le implicazioni, ivi compreso il possibile fallimento della società di fatto, cui quella di capitali abbia partecipato, e dei suoi soci illimitatamente responsabili.

Accertata l'esistenza di una società di fatto e la sua insolvenza, i soci possono essere dichiarati falliti in estensione, ai sensi dell'art. 147, 1° comma, l.f. La norma, nel testo derivante dal d.lgs. n. 5 del 2006, è coerente con la disciplina della riforma societaria, operando un riferimento al capo III del titolo V del libro V del codice civile, ivi compreso l'art. 2297 c.c. sulla società in nome collettivo irregolare, strutturalmente analoga alla società di fatto esercente attività d'impresa commerciale.

Si tratta del fallimento ex lege - in estensione di quello della società di fatto, che invece va accertata nei suoi elementi costitutivi e nello status di soggetto imprenditore insolvente - dei soci illimitatamente responsabili, che non richiede l'accertamento diretto anche della loro insolvenza, ma unicamente della loro qualità di soci.

7. - Deve, in conclusione, essere enunciato il seguente principio di diritto: La partecipazione di una società a responsabilità limitata in una società di persone, anche di fatto, non esige il rispetto dell'art. 2361, 2° comma, c.c., dettato per la società per azioni, e costituisce un atto gestorio proprio dell'organo amministrativo, il quale non richiede - almeno allorché l'assunzione della partecipazione non comporti un significativo mutamento dell'oggetto sociale, fattispecie peraltro estranea al caso di specie - la previa decisione autorizzativa dei soci, ai sensi dell'art. 2479, 2 ° comma, n. 5, c.c.

8. - Essendosi la corte d'appello pienamente uniformata all'enunciato principio, il motivo, nella sua prima parte, va respinto. Con riguardo alla parte finale del motivo, la quale censura l'applicazione degli art. 147, 5° comma, l.f., le ricorrenti non colgono la ratio decidendi della decisione impugnata, la quale ha invece affermato che il tribunale ha dichiarato il fallimento della stessa società di fatto, della quale ha accertato sia l'esistenza e sia l'autonomo status di insolvenza, facendo quindi applicazione del 1° comma dell'art. 147 l.f.

Le ricorrenti muovono dunque dal presupposto che la corte d'appello abbia dichiarato il fallimento della già più volte menzionata società di fatto, e dei soci di essa illimitatamente responsabili, in quanto ha interpretato in senso analogico l'art. 147, 5° comma, l.f., censurando tale interpretazione.

Senonchè, la lettura della sentenza impugnata non convalida affatto il suindicato presupposto, sul quale il riferito motivo di censura per tale parte si basa: la corte d'appello si è limitata, confermando la sentenza di primo grado, a dedurre dall'insolvenza della società di fatto la sussistenza delle condizioni per dichiarare il fallimento anche delle società a responsabilità limitata di essa socie.

Ciò rende questa parte del motivo inammissibile.

9. - Le spese, attesa la novità della questione, sono interamente compensate.

Deve provvedersi all'accertamento di cui all'art. 13, comma 1° quater, d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, inserito dall'art. 1, comma 17, L. 24 dicembre 2012, n. 228, applicabile ai procedimenti iniziati dal trentesimo giorno successivo alla data di entrata in vigore della legge, avvenuta il 30 gennaio 2013.

 

P.Q.M.

 

Rigetta il ricorso, compensando per intero le spese di lite.

Dà atto che sussistono i presupposti per il raddoppio del versamento del contributo unificato, ai sensi dell'art. 13, comma 1° quater, d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115